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UCRAINA. A Odessa si vedono gli effetti degli attacchi russi a distanza. Zelensky: gli aerei Nato dovrebbero abbattere i missili di Putin. Il Cremlino annuncia la conquista di 29 centri urbani vicino a Kharkiv

 Poliziotti sul luogo di un bombardamento a Kharkiv - Epa/Sergey Kozlov

«Mi dispiace, non c’è corrente». Pavel, alla reception di un hotel di Odessa sospira, probabilmente si dispiace più per sé stesso che per l’ospite. Per l’ennesima notte in città si dovrà rimanere senza luce. Così anche a Sumy, colpita ieri dai missili russi.

Il presidente Zelensky chiede più armi e ringrazia la Svezia per un nuovo pacchetto di aiuti militari da 7 miliardi di euro appena approvato, ma è chiaro che quelle armi non risolveranno i problemi dei civili ucraini nell’immediato. Anche quando non uccidono, i missili russi continuano a creare enormi disagi ai civili nelle retrovie. E 27 mesi sono un’eternità. Allora il leader ucraino, al suo terzo giorno da presidente ad libitum in quanto il suo mandato è scaduto ufficialmente lunedì, chiede di più: gli aerei delle Nato dovrebbero abbattere i missili russi nello spazio aereo ucraino.

TALI RICHIESTE non rassicurano la popolazione. Innanzitutto perché è chiaro che nell’est le cose non stanno andando bene. Nei chioschetti in strada e nei locali con la tv si ascoltano spesso i notiziari. Le persone iniziano a prestare più attenzione alle notizie sull’andamento della guerra e se fino a qualche tempo fa avevamo parlato di una certa abitudine alla guerra ora potremmo dire che siamo quasi alla stanchezza.

Non la «stanchezza di guerra» che evocavano i media occidentali rispetto alla tenuta del blocco pro-ucraino, ma il più semplice esaurimento della capacità di sopportazione. Si nota una certa apprensione quando si parla di Kharkiv, ieri i russi annunciavano la conquista di ben 49 centri urbani dall’inizio delle operazioni nella zona, e tra le persone si possono distinguere due categorie.

Da un lato gli uomini che non sono arruolati, chi per aver superato i limiti di età chi per motivi poco chiari. Questi rispondono quasi sempre con ostentata sicurezza «li ricacceremo oltre il confine». Fanno parte di questa categoria anche gli omoni pieni di tatuaggi che hanno tutti i simboli nazionalistici possibili dai cappelli alle scarpe ma che alla domanda «come mai non sei nell’esercito?» nicchiano o si arrabbiano e smettono di rispondere.

La mancanza di rotazione delle truppe al fronte, l’aveva detto il fu Comandante Zaluzhny e l’ha ripetuto nei giorni scorsi Zelensky, è uno dei problemi al momento più gravosi per le forze armate ucraine. Dall’altro lato che chi, e si tratta della maggioranza, non sa bene cosa stia succedendo ma ha capito che le cose non vanno come dovrebbero.

LA TV E I MEDIA ucraini continuano a diffondere il messaggio che la resistenza continua, che i russi perdono migliaia di uomini e che l’avanzata nemica è stata contenuta. Ma l’entusiasmo è quasi sparito e, seppure non siamo ancora all’abbattimento, c’è molta stanchezza.

Soprattutto perché continuano a riproporsi le stesse situazioni. A Odessa si vede chiaramente che gli attacchi russi dalla distanza hanno avuto effetti significativi. Le centrali energetiche danneggiate non hanno ripreso a funzionare a pieno ritmo, anzi i russi continuano a colpirne di nuove, e le varie amministrazioni locali ucraine sono costrette a razionalizzare, alternando i tagli di corrente per un quartiere alla volta.

Gli allarmi continuano a suonare e nel sud la paura maggiore è per le aree portuali, dove si trovano i depositi di grano e le strutture commerciali navali oltre ai fondamentali depositi di idrocarburi che sostengono lo sforzo della macchina bellica ucraina. Qui è ancora molto difficile incontrare qualcuno che dica chiaramente di volere che «la guerra finisca a ogni costo». L’odio per Putin è tutt’altro che sopito, gli ucraini lo incolpano in prima persona per questi ultimi due anni. Ma è evidente che iniziano a pensare alla necessità di porre fine al conflitto in qualche modo, anche senza armi. Questa normalità di facciata non può durare in eterno.

SOLO CHI GIRA con le grosse Mercedes o le Tesla con gli stereo a tutto volume può permettersi la normalità. Sono gli stessi che fino al coprifuoco riempiono i bar e i night club. Nell’est i locali sono chiusi, non si può brindare e la guerra si combatte a colpi di fucile, non a chi la spara più grossa. Si muore davvero, non di stanchezza o di noia. E sono sempre questi imboscati a parlare di resistenza fino all’ultimo uomo e a brindare compunti agli uomini al fronte evocandoli come «fratelli».

Al fronte lo sanno che in molti, soprattutto benestanti, hanno trovato il modo di farsi riformare e che è anche per questo che non si riceve il cambio. Ma la guerra è anche questo e mentre un «fratello» muore, l’altro, ubriaco, ci prova con la sua vicina di tavolo.

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Tunisia, Mauritania e Marocco utilizzano i mezzi e i soldi dell’Unione per deportare i migranti nel deserto e smaltirli come rifiuti. Un’inchiesta svela il lato oscuro dei «memorandum». Intanto in Italia i giudici che hanno assolto le Ong portano alla luce un dossieraggio contro i soccorsi in mare

SCARTI D'EUROPA. Soldi, bus e fuoristrada ai paesi del Nord Africa. Per deportare i subsahariani nel deserto

Caccia ai migranti con i mezzi forniti da Roma e Bruxelles Un migrante ricacciato nel deserto tra Tunisia e Libia foto Ap

11 luglio 2023. Poco fuori Sfax, città costiera della Tunisia, viene ripreso un fuoristrada bianco mentre scorta un autobus pieno di migranti arrestati in uno dei recenti raid effettuati nella città. Ingrandendo l’immagine si vede che il fuoristrada è un Nissan Navara. Spulciando tra i bandi e le forniture della polizia di stato italiana si scopre che oltre cento di questi modelli erano stati dati dal governo italiano tra il 2022 e il 2023 al ministro dell’interno tunisino per il contrasto dell’immigrazione illegale.

Oggi i mezzi dello stesso modello vengono usati per espellere i migranti ai confini desertici della Tunisia, e non solo. Anche le forze di sicurezza di Mauritania e Marocco sono coinvolte in questo tipo di violenze.

Le Nissan sono solo una delle tracce che si intravedono tra le strade sabbiose dei paesi del Nord Africa e che oggi sono percorse da decine di mezzi stanziati dall’Unione europea e dai suoi Stati membri, tutti diretti a gettare i migranti nel nulla. Scorrendo indietro i programmi europei e gli accordi bilaterali si iniziano a vedere le prime forniture dal 2016, anno in cui la Germania ha donato alla Tunisia 25 Toyota Hilux.

L’ANNO SUCCESSIVO è sempre Berlino a fornire altre 37 Nissan Navara al ministro degli Interni tunisino. Ma la lista non finisce qui. La Spagna, finanziata per oltre 4 milioni dal fondo europeo per l’Africa, EUTF, e attraverso l’agenzia governativa per la promozione delle politiche pubbliche, la Fundación Internacional y para Iberoamérica de Administración y Políticas Públicas (FIIAPP) nel 2018 ha fornito 75 Toyota hilux e oltre cento Land Cruiser allo stato del Marocco, gli stessi modelli fotografati negli scorsi mesi durante rastrellamenti operati dalla polizia marocchina per le strade delle città alla ricerca di migranti dalla pelle scura.

Nello stesso anno infine, la FIIAPP ha donato alla Mauritania almeno 9 fuoristrada, due autobus e ha provveduto alla riparazione di due centri di detenzione a Nouakchott, la capitale del paese, e Nouadhibou, città sulla costa. Entrambi questi punti sono snodi fondamentali in cui i migranti vengono portati prima di essere espulsi verso i confini desertici del Marocco o le zone di frontiera con il Mali, dove ancora imperversano conflitti armati.

A CONFERMARE IL TUTTO ci pensa un

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LUNEDÌ 20 UN INCONTRO A TORINO. Per affrancarsi dai fallimenti della politica climatica è necessario accompagnare i grandi accordi-quadro, come quelli di Parigi e Kyoto, con processi concreti di collaborazione fra imprese, stato, corpi intermedi e cittadini, allo scopo di facilitare la ricerca e l’investimento su nuove tecnologie di frontiera e rendendo più costoso l’atteggiamento opposto, cioè la rendita e la conservazione

Lo stadio di Porto Alegre, in Brasile, devastato dalle alluvioni di maggio Lo stadio di Porto Alegre, in Brasile, devastato dalle alluvioni di maggio - Andre Penner /Ap

La politica climatica è fallita. Nei vertici sul clima, spesso egemonizzati dalle lobby delle energie fossili, l’attendismo climatico imperversa. Nonostante qualche pallido risultato, stiamo procedendo a passi di lumaca e si fa sempre più largo l’idea che ambientale sia nemico di sociale.

Come accelerare la transizione? Come far sì che diventi effettiva, coniugando il contrasto al surriscaldamento globale, lo sviluppo locale e la giustizia sociale?

Di questi temi si discuterà lunedì 20 maggio al “Circolo dei lettori” di Torino, a proposito del libro Governare il climaStrategie per un mondo incerto (Donzelli, 2024) alla presenza di uno degli autori, il politologo Charles Sabel, con il co-coordinatore del Forum Diseguaglianze e Diversità, Fabrizio Barca.

La tesi del libro è netta: per affrancarsi dai fallimenti della politica climatica è necessario accompagnare i grandi accordi-quadro, come quelli di Parigi e Kyoto, con processi concreti di collaborazione fra imprese, stato, corpi intermedi e cittadini, allo scopo di facilitare la ricerca e l’investimento su nuove tecnologie di frontiera e rendendo più costoso l’atteggiamento opposto, cioè la rendita e la conservazione. Il messaggio è che se è vero che “il mercato” non ci salverà, allo stesso tempo il necessario ruolo degli Stati e delle istituzioni pubbliche richiede la cooperazione volontaria degli innovatori e il coinvolgimento di chi la transizione non la vuole.

Il cambiamento tecnologico «che serve» per la lotta al cambiamento climatico è legato all’organizzazione dei processi decisionali, dipende dagli interessi e dei poteri coinvolti, dalla capacità di tenere insieme il vecchio certo e il nuovo incerto in un’unica strategia di innovazione.

Al centro del libro c’è la proposta operativa: la governance sperimentalista, un modello che sfugge alla dicotomia oziosa fra centralizzazione e decentramento e grazie a alla quale sempre più attori in tutto il mondo sono spinti a prendersi il rischio di innovare.

La governance sperimentalista va intesa come processo decisionale aperto, insieme (e non in alternativa) al ruolo dell’Autorità pubblica, e che si esplica attraverso sanzioni e regole che spingono le imprese verso comportamenti diversi da quelli che verrebbero seguiti in modo indipendente e isolato.

Ma come cucire l’innovazione con la giustizia sociale e il consenso? A questo scopo, è cruciale promuovere l’adattamento dell’innovazione alle esigenze quotidiane delle persone, delle classi e dei territori, specie di quelli più vulnerabili. Il tutto per far sì che le aspirazioni e i bisogni dei soggetti marginalizzati non entrino in contrasto con le tecnologie/modelli/soluzioni che emergono dalla governance sperimentalista.

Nei processi decisionali che presidiano l’innovazione occorre evitare di riprodurre la frattura tra vincenti e perdenti spesso creata dalle politiche territoriali e, come ben sappiamo, da quelle ambientali.

Il libro di Sabel e Victor è arricchito da una serie di esperienze concrete: l’attuazione del Protocollo di Montreal del 1987 per contrastare l’assottigliamento della fascia di ozono; la riduzione delle emissioni di carbonio in California; il controllo delle emissioni di solfuri negli USA; la riduzione di inquinamento agricolo in Irlanda, e altri ancora.

Al centro dei casi analizzati si trova sempre un’Autorità pubblica credibile (o una rete coesa di autorità facenti funzioni pubbliche) che governa il processo. Un’esortazione per il nostro paese e per chi ancora crede che la stagnazione, il declino e lo sguardo miope della politica istituzionale non siano un destino inevitabile, ma qualcosa da superare il più rapidamente possibile

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Erede alla lontana del tribunale che processò i nazisti a Norimberga, giudica i crimini di guerra patiti dalle popolazioni civili. Ma Usa, Russia, Cina e Israele stessa non ne riconoscono il ruolo

corte penale Aja

Istituita ufficialmente nel 2002, erede alla lontana del tribunale che processò i capi nazisti a Norimberga, la Corte penale internazionale dell'Aja - il cui procuratore ha chiesto oggi il mandato di cattura per Netanyahu e i capi di Hamas - è l'organismo chiamato a giudicare i cosiddetti crimini di guerra e contro l'umanità. È la stessa corte che nel marzo del 2023 aveva emesso un mandato di cattura nei confronti di Vladimir Putin per i crimini ai danni della popolazione ucraina e la deportazione di  migliaia di bambini. Karim Ahmad Khan è lo stesso procuratore che ha chiesto l'arresto tanto per Putin quanto per i protagonisti del conflitto a Gaza.  

Il ruolo della Corte penale internazionale (Icc, International criminal Court)   non va confuso con il tribunale internazionale che ha sede sempre nella capitale olandese e che è incaricato di dirimere le controversie tra Stati membri dell’Onu; nè con quello della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) con sede a Strasburgo che vigila sulk rispetto dei diritti e delle libertà dell’individuo.

 

In attesa di capire se la richiesta del procuratore verrà accolta, va sottolineato che Israele non è tra gli Stati che riconoscono la giurisdizione della Corte dell'Aja; tra questi ci sono anche gli Stati Uniti, la Cina e la Russia. Dunque, in astratto, i personaggi che venissero colpiti dal provvedimento restrittivo potrebbero viaggiare liberamente verso queste destinazioni. 

La nascita della Corte penale internazionale dell’Aja ha avuto una gestazione che ha attraversato tutta la seconda metà del XX secolo. Il precedente a cui far risalire la nascita di questo organismo internazionale è come detto la Corte che processò i crimini nazisti della seconda guerra mondiale. In quella sede si ritenne doveroso, alla luce degli orrori patiti dagli ebrei e dei popoli aggrediti dai nazisti , giudicare i capi del Terzo Reich per i crimini subiti dai civili.

Dopo un iniziale pronunciamento dell’Onu del 1948, di istituire un tribunale permanente viene accantonata a causa della Guerra Fredda. Occorre saltare però agli anni ‘90 perché il tema si riproponga sull’onda di due guerre estremamente sanguinose e crudeli scoppiate in quel decennio: il conflitto dell’ex Jugoslavia e quello del Ruanda. I responsabili di quegli eccidi (tra cui Slobodan Milosevic e Radovan Karazic) vennero condannati da tribunali istituiti ad hoc e temporanei. Ciò che mancava era un una codificazione dei reati e di una procedura che chiarisse in quali casi un leader politico può essere accusato di crimini di guerra, contro l’umanità o contro la pace.

L’accordo viene raggiunto nl luglio del 1998 quando nella sede della Fao a Roma con il voto favorevole di 120 delegazioni favorevoli su 160 viene sottoscritto lo Statuto di Roma che dà vita alla Corte penale internazionale con sede all’Aja. Questo stabilisce che la Corte ha il compito di giudicare gli individui (e non gli Stati) che si macchiano di crimini di guerra e contro l’umanità. Il tribunale avviato processi tra gliu altri contro l’ex presidente del Sudan Omar al Bashir e, prima che venisse ucciso, contro il colonnello libico Gheddafi.

Tra gli Stati che non hanno ratificato il trattato di Roma ci sono  Israele, la Cina e gli Stati Uniti. Sotto l’amministrazione Trump, anzi, Washington ha quasi del tutto interrotto la collaborazione con i giudici dell’Aja, vietando ai suoi cittadini di fornire consulenza alla Corte internazionale. Questo in seguito all’intenzione della Corte d indagare su crimini di guerra compiuti in Afghanistan

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Nella foto: Una squadra di salvataggio sul luogo dell’incidente aereo nel quale ha perso la vita il presidente iraniano Ebrahim Raisi @Ap

 

Oggi un Lunedì Rosso dedicato ai ponti.

Quello che collega le elezioni comunali alle europee. Due sfide diverse che in tremila comuni italiani avranno luogo in parallelo l’8 e 9 giugno.

Ma anche il ponte ancora immaginario che dovrebbe unire Calabria e Sicilia sullo Stretto di Messina. Una nuova valutazione sull’impatto ambientale evidenzia gli aspetti più dannosi dell’opera.

Un collegamento molto contestato è invece quello tra università e guerra. Dedicare la ricerca (pubblica) al settore bellico è una scelta che non può avvenire nell’indifferenza della cittadinanza.

Il ponte è anche ciò che crea dialogo tra diversità, un compito che ci spetta ogni giorno.

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STRISCIA DI SANGUE. L’arrivo del caldo e la fuga da Rafah hanno aggravato una situazione già disastrosa

Deir al-Balah, Striscia di Gaza: bimbi palestinesi camminano sulle macerie Deir al-Balah, Striscia di Gaza: bimbi palestinesi camminano sulle macerie - Abed Rahim/Ap

A sera è esausto dopo una giornata passata a cercare cibo, acqua e qualche lavoretto per sopravvivere. Eppure, Adham Al Samouh quasi non riesce a chiudere occhio la notte nella sua tenda ad Abraj Al-Qastal, una località alla periferia di Deir al Balah. «Riesco a dormire a malapena due ore» racconta a un giornalista di Gaza «la mia tenda è calda e ci sono insetti di ogni tipo, alcuni li conosco altri non li ho avevo mai visti prima. I miei figli ed io siamo pieni dei loro morsi. E dobbiamo guardarci dai ratti che girano di notte intorno alla nostra tenda alla ricerca di cibo».

POTREBBERO riferire lo stesso tutti gli altri palestinesi a cui l’attacco israeliano a Gaza ha distrutto la casa oltre ad uccidere parenti, che sono stati costretti a sfollare e che da mesi vivono nelle tende, scappando da una città all’altra. Per due milioni di palestinesi l’arrivo della stagione calda aggrava una condizione già estrema, così come ha fatto l’inverno. Come i civili di Gaza vivranno nei prossimi mesi però non dipenderà solo dal clima, dal caldo e dal freddo. La catastrofe sanitaria e ambientale che devasta la Striscia è immensa a causa dell’inquinamento e della distruzione con bombe e missili delle infrastrutture e delle reti fognarie. E non potrà che peggiorare, giorno dopo giorno, con la ripresa ad ampio raggio dell’offensiva israeliana e la fuga di centinaia di migliaia di persone da Rafah sotto attacco.

LA DIFFUSIONE di malattie infettive è già in atto, avvertono l’Oms e le Nazioni unite che, peraltro, entro pochi giorni potrebbero dover sospendere completamente le operazioni di soccorso e assistenza se non verrà fatto entrare carburante nella Striscia, ora bloccato ai valichi tra Gaza con Egitto e Israele. Parlando all’agenzia turca Anadolu, la portavoce dell’Ufficio dell’Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), Olga Shirevko, ha lanciato l’allarme sulla condizione degli sfollati scappati da Rafah, con poco o nulla, per raggiungere le aree di Mawasi e la parte centrale del territorio. Assisterli sarà una impresa ardua, ha aggiunto prima di lanciare un appello al mondo «a non dimenticare Gaza e la sua popolazione».

LE ACQUE reflue che scorrono tra le macerie di città e villaggi senza più controllo e attività di depurazione a causa della mancanza di elettricità e dei bombardamenti delle infrastrutture, hanno contribuito alla diffusione di insetti e altri animali. Così come l’accumularsi dei rifiuti dopo l’interruzione di qualsiasi attività delle amministrazioni comunali da quando Israele ha lanciato la sua offensiva. Il problema dei rifiuti, inclusi quelli sanitari, non raccolti e smaltiti è un’emergenza molto pericolosa, ammonisce il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp) secondo cui se la questione non sarà affrontata avrà conseguenze pesanti per la salute pubblica. I rifiuti, prevedono gli esperti, proseguiranno a contaminare i terreni e la falda acquifera. Prima del 7 ottobre Gaza produceva 1.700 tonnellate di rifiuti al giorno che venivano riversate in due discariche principali. In particolare, quella di Johr Dik, con milioni di tonnellate di rifiuti accatastati fino a 35 metri dal suolo. I veicoli per la raccolta erano cronicamente insufficienti e la pulizia dei centri abitati era limitata a dir poco. La guerra ha paralizzato tutto aggravando un quadro già disastroso.

L’Undp ha messo in campo un’iniziativa per sostenere il Joint Solid Waste Management Services Council (Jsc-Krm) nei governatorati meridionali di Rafah, Khan Younis e nell’area centrale che prevede la distribuzione di carburante per gli automezzi ancora funzionanti e la ripresa delle operazioni di raccolta dei rifiuti, ma senza il cessate il fuoco e la fine dei movimenti di centinaia di migliaia di sfollati su e giù per la Striscia, questi sforzi sono inutili.

MAJED AL-SIR, sfollato dal nord, riferisce che topi di ogni misura vagano liberamente e attaccano i magazzini con cibo e farina. «I cani randagi» aggiunge «costituiscono un altro problema, molti di loro sono diventati aggressivi a causa della violenza delle esplosioni causate dalle bombe e perché affamati». Mohammed al Balimat, del villaggio Masdar, dice che la guerra ha fatto spostare verso le aree popolate dagli sfollati scorpioni, serpenti e piccoli rettili.

In cima ai problemi che si moltiplicano e aggravano la crisi umanitaria frutto dell’offensiva israeliana c’è sempre il collasso quasi completo del sistema sanitario. Asma Musaed, medico nel campo profughi di Al-Maghazi, riferisce un continuo aumento di infezioni, malattie della pelle e intestinali causate dall’inquinamento ambientale. «E naturalmente – aggiunge – non possiamo dimenticare la scabbia, i pidocchi, le zecche e altri parassiti che affliggono soprattutto i bambini. Problemi seri che dovrebbero essere affrontati da un sistema sanitario attrezzato e in grado di funzionare, ma a Gaza non c’è più, gli ospedali sono fermi e la medicina di base è impossibile in queste condizioni».

ANDREA DE DOMENICO, capo di Ocha nei Territori occupati, in questi giorni a Gaza, sottolinea che le Nazioni unite ripetono senza essere ascoltate che la situazione non potrà che peggiorare. «Ormai anche un livello minimo delle condizioni igienico-sanitarie è un miraggio» dice al manifesto «la disponibilità di gabinetti e docce è minima rispetto al numero delle persone. A pagare sono soprattutto le donne senza più privacy in tendopoli con migliaia e migliaia di persone»

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