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La comanda Le concessioni tangibili nella dichiarazione Italia-Usa dopo il tour transatlantico di Meloni: Rifiuto della web tax, un messaggio a von der Leyen, il caso della politica energetica e il 2% del Pil in armi, ma non c’è chiarezza sulle risorse. Nel quadro del "nazionalismo occidentale"

La presidente del consiglio Giorgia Meloni e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ap La presidente del consiglio Giorgia Meloni e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump – Ap

Sono almeno tre i messaggi che Giorgia Meloni ha elaborato nel tour transatlantico delle ultime 48 ore. Le Big Tech americane vanno difese dalle tasse europee; bisogna acquistare il gas naturale liquido oltreoceano; l’aumento della spesa militare (il 2%, per ora, in Italia) serve ad ammansire il presidente americano Donald Trump.

MELONI NON PUÒ NEGOZIARE sui dazi da sola, spetta alla Commissione Europea farlo. Tuttavia ha posizionato il suo governo a fianco di Trump. Per questo si è schierata contro l’ipotesi della presidente Ursula von der Leyen di tassare le multinazionali tecnologiche statunitensi come ritorsione contro i dazi annunciati da Trump e sospesi per tre mesi. «Abbiamo concordato – si legge nella dichiarazione congiunta con Trump – che un ambiente discriminatorio in termini di servizi digitali sia necessario per consentire gli investimenti delle aziende tecnologiche all’avanguardia. Sottolineiamo l’importanza della tecnologia dell’informazione per consentire la libera impresa attraverso l’Atlantico». «Libera impresa», qui, significa lasciare libero il campo agli opportunisti Amazon, Google o Facebook che vivono in Europa in un regime fiscalmente assai conveniente e hanno cercato protezione sotto l’ala trumpiana per allontanare ogni rischio. Ad esempio quello di una tariffa applicata a tutto il mercato unico e non solo un’imposta sulle vendite digitali che disposta individualmente dagli Stati membri. Questa sarebbe l’ipotesi alla quale starebbe lavorando von der Leyen nel caso in cui fallissero i negoziati con Washington.

LA MOSSA DI MELONI sulle Big Tech è un messaggio ai governi europei. A quello irlandese e tedesco, in particolare, che non condividono l’ipotesi ritorsiva di von der Leyen. I loro dubbi non sono solo legati alla possibilità che Trump risponda con dazi più alti, ma si basano soprattutto sulla consapevolezza del fatto che i data centers, il cloud, l’intelligenza artificiale sono in mano agli americani. L’Ue non ha autonomia tecnologica.

IL GOVERNO ITALIANO si è candidato a diventare «il data-hub regionale chiave per il Mediterraneo e il Nord Africa» si legge nel testo della dichiarazione. Meloni ha promesso di accogliere «gli investimenti americani nell’Ai computing e nei servizi cloud» e intende «utilizzare fornitori affidabili» per «proteggere le nostre infrastrutture e tecnologie nazionali critiche e sensibili». In questo linguaggio allusivo molti ieri hanno inteso un riferimento ai satelliti della Starlink di Elon Musk, il campione Usa della space economy, definito «amico» da Meloni. Un’idea che non sembra essere un modello di «sovranismo», ma un appalto della «sicurezza nazionale» ai trumpiani.

L’ALTRO MESSAGGIO di Meloni al tavolo delle trattative sui dazi tra Ue e Usa è sull’acquisto del gas naturale liquido. Dal 2008 gli Stati Uniti sono il primo produttore e il primo esportatore al mondo. Grazie alla fratturazione idraulica, il fracking, oggi l’offerta supera la domanda interna. Trump ha la necessità di aumentare la vendita di questo tipo di gas dopo che la Cina ha bloccato le importazioni. Una ritorsione contro la sua guerra commerciale. Meloni è corsa in soccorso a Trump anche per questa ragione. Non è un caso del tutto eccezionale. Sotto Biden le importazione di gas in Italia sono aumentate dall’8,5% del 2021 al record storico del 36,2% nel 2024. La crescita è avvenuta dopo la chiusura delle importazioni del gas russo a causa della guerra in Ucraina. I costi di questa materia prima fossile però sono superiori. Nella dichiarazione Trump e Meloni hanno definito l’operazione «reciprocamente vantaggiosa». Probabilmente non pensano a uno sconto-simpatia.

IL GAS NATURALE LIQUEFATTO è oggetto da mesi di un negoziato tra l’Ue e gli Usa. Bruxelles intende rinnovare la sua offerta di acquistarne di più per convincere Trump a scendere a più miti consigli sulle tariffe. Trump ha chiesto la cifra colossale di 350 miliardi di dollari in più per risolvere lo squilibrio commerciale su questa partita. Richiesta che aggraverebbe la crisi dell’industria in Europa, in difficoltà anche per i prezzi energetici gonfiati dalla speculazione. Fin’ora i colloqui con il commissario Ue al commercio Maros Sefcovic non sono decollati. L’intesa potrebbe farli partire. Sempre che gli europei riescano a coordinare gli acquisti. In caso contrario potrebbero gravare solo sull’Italia.

NELLA DICHIARAZIONE di Trump e Meloni si legge anche dell’«incrollabile impegno nei confronti della Nato». Meloni ha assicurato che «l’Italia sta mantenendo i suoi impegni e arriverà al prossimo vertice della Nato [a giugno, ndr.] con il 2% sul Pil per la difesa perché siamo una nazione seria». Per l’Osservatorio Mil€x il governo intende includere negli 11 miliardi all’anno in più, necessari per arrivare al 2%, le spese per i carabinieri, la guardia costiera e di finanza. Proposta respinta dalla Nato che vuole più soldi per i suoi giochi di guerra. A meno che Trump abbia concesso a Meloni un’esenzione. In caso contrario il governo dovrà trovare le risorse togliendole dal bilancio o aumentando le tasse. Le alleanze si pagano con comande salate.

 

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L’idillio con l’amministrazione Trump si sposta a Roma. Ma mentre Meloni riceve Vance, ecco la lista ufficiale delle concessioni fatte a Washington. Acquisto di armi e gas Usa, niente tasse alle big tech, mano libera con Putin. Una svendita, che Bruxelles registra con freddezza, ripagata con solo una promessa.

Europa e Usa La premier riceve il vice presidente J.D. Vance e si rivela la leader più in grado di rappresentare gli interessi americani in Europa

Così Meloni diventa l’ufficiale di Trump nel vecchio continente

 

È un amore travolgente ma con i piedi ben piantati per terra, come quei matrimoni in cui ci si promette eterno amore ma passando prima dal notaio per curare più venali aspetti. Fra Donald Trump e Giorgia Meloni il cinguettamento dello studio ovale prosegue a distanza. Lui la definisce «fantastica». Lei replica con calorosi ringraziamenti e avanti così, presidente. La missione romana di JD Vance, in questo romantico quadretto, ne esce per forza ridimensionata. Ma la premier italiana coglie l’occasione per rilanciare la relazione particolare che la lega agli Usa tributando al vice inusuali onori da capo di Stato a Chigi. Lui ricambia portando le cose un passo oltre: annuncia che sul tavolo ci sono anche i dazi e ne parla davvero a porte chiuse con l’ospite. Poi tutti a pranzo, anche Tajani e soprattutto Salvini, messo sinora un bel po’ da parte. Si commuove comunque per «l’onore» di incontrare l’hillbilly più famoso del mondo e annuncia imminente missione del Mit a Washington: «Su infrastrutture e trasporti ci sono molti dossier di interesse comune». Se son rose…

Proprio mentre il quartetto si siede a tavola arriva il comunicato congiunto Usa-Italia diffuso dalla Casa Bianca e squaderna gli aspetti materiali del contratto. L’Italia, in sintesi, paga tutto quel che si prevedeva dovesse pagare: dal no alla Web Tax agli acquisti di gas, dalle spese Nato agli investimenti nella cantieristica americana. Anche nei momenti di trasporto Don il Mercante non dimentica gli affari. Il motto della nuova Washington, in fondo, è proprio quel «non è mai abbastanza» che il gioviale presidente si è lasciato scappare nell’incontro con la «fantastica».

LA CONTROPARTITA è la confermata intenzione del presidente ad accettare l’invito a Roma e la disponibilità a «considerare» la possibilità di trasformare la gita in un’occasione di ben più vasta portata, il vertice con la Ue. È un risultato politico. Giorgia Meloni ha dimostrato di trovare ascolto alla corte del bizzoso re, ha le carte in regola per gestire, sia pure informalmente, la mediazione con gli Usa. Ma forse sarebbe più preciso capovolgere il quadro. Più che la leader di un Paese europeo più vicino degli altri alla nuova America di Donald Trump Meloni appare ora l’alto ufficiale dell’armata trumpiana più vicino all’Europa e dunque più in grado di rappresentare gli interessi degli Usa nel negoziato con gli altri Paesi europei.

POLITICAMENTE il passaggio più significativo del protocollo è il riconoscimento pieno ed esplicito della leadership di Trump nella gestione della trattativa con Russia e Ucraina. È il solo fronte che dovrebbe registrare una distanza reale tra i due leader, l’unico in cui allo studio ovale, pur se pigolando, la premier aveva marcato una certa differenza di vedute, ricordando a un presidente che in tutta evidenza detesta Zelensky che però a invadere è stata la Russia. Quel lieve distinguo è svanito. L’italiana si affida all’uomo che si era divertito a umiliare Zelensky in mondovisione ed è uno slittamento che va molto oltre il pur significativo caso in questione. Giorgia l’Americana. Giorgia la Trumpiana.

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Nel corso delle audizioni sul Documento di finanza pubblica, tra altri, sono intervenuti ieri l’Ufficio parlamentare di Bilancio e la Banca d’Italia. Le loro stime hanno smontato le ipotesi sui supposti benefici dell’economia di guerra. Il ministro dell’Economia Giorgetti ha sostenuto che l’Italia già paga il 2% del Pil in spese militari, ma per l’Osservatorio Mil€x è un «trucco» per pagare meno. Il ministro della difesa Crosetto, innervosito dall’umorismo di Giorgetti, sostiene che «le armi non sono regali di Natale» ai generali

Gian Mauro Dell’Olio M5S, vice presidente Bilancio Camera, Il Ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, Nicola Calandrini FdI, presidente Bilancio Senato, in occasione delle audizioni sul documento di finanza pubblica 2025 davanti alle Commissioni bilancio di Camera e Senato (LaPresse) Gian Mauro Dell’Olio M5S, vice presidente Bilancio Camera, Il Ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, Nicola Calandrini FdI, presidente Bilancio Senato, in occasione delle audizioni sul documento di finanza pubblica 2025 davanti alle Commissioni bilancio di Camera e Senato – LaPresse

Aumentare le tasse o tagliare il Welfare. Oppure fare entrambe le cose al fine di aumentare la spesa militare per ora al 2% del Pil come richiesto da Trump, dalla Nato e dalla Commissione Europea. Ben sapendo che l’aumento della spesa militare non produrrà la crescita economica promessa, aumenterà il deficit e imporrà al governo Meloni di non rispettare le regole del patto di stabilità esponendosi alle ritorsioni della Commissione Europea e dei «mercati».

LA BOCCIATURA della propaganda sul riarmo europeo è arrivata ieri, davanti alle commissioni bilancio di Camera e Senato, durante le audizioni della Banca d’Italia e dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb) sul Documento di finanza pubblica, primo passo verso la legge di bilancio di quest’anno. Per Bankitalia lo sforzo per il riarmo nazionale senza un coordinamento europeo comporta una spesa inefficiente e inefficace e che ne beneficiano solo i paesi con minori vincoli di bilancio come la Germania, non l’Italia. Per Via Nazionale le spese per la difesa avrebbero «la natura di bene pubblico» e ci sarebbe bisogno di «risorse comuni», s’intende europee. Prospettiva rifiutata da mezza Unione Europea.

Questo significa che saranno i governi a pagare il dazio ai militari. Dunque i cittadini. Per l’Upb l’aumento delle spese militari, anche attivando il famoso scorporo dal calcolo del deficit e del debito nel patto di stabilità Ue, causerebbe l’aumento del debito e avrebbe un effetto regressivo sulla finanza pubblica. Il debito aumenterebbe di più del Pil perché il moltiplicatore economico è dello 0,2 o dello 0,3 e non del 2, come sostiene il ministro della difesa Guido Crosetto.

È UNA PROSPETTIVA da brividi, ma nascosta. Ieri però è emersa plasticamente ed è stata commentata dal ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, intervenuto in audizione. Il governo oggi deve trovare 90 miliardi di euro per coprire la spesa degli interessi sul maxi-debito pubblico e non ha risorse per finanziare l’economia di guerra. . Alla fine dovrà cedere . Forse la decisione arriverà a giugno quando ci sarà un vertice Nato che quantificherà l’obbligo della spesa militare (al 3 o 3,5% del Pil) e il piano di riarmo europeo voluto da Bruxelles potrà prendere una forma diversa da quella rifiutata dai governi Ue. Le conseguenze politiche potrebbero essere pesanti per Meloni.

GIORGETTI HA PROVATO a truccare le carte sul famoso «2% alla difesa». «Lo raggiungeremo già nel 2025» ha detto Giorgetti che ha evocato una «metodologia Nato» secondo la quale l’Italia avrebbe già pagato, senza saperlo, gli 11 miliardi in più che mancano al budget già cresciuto negli ultimi anni. Nel 2025 siamo a 32 miliardi all’anno. L’osservatorio Milex ha spiegato qual è «il trucco» del governo: simulare che la spesa militare è al 2% contabilizzando le spese per i carabinieri, la guardia costiera e la guardia di finanza per un totale di 11 miliardi. Quasi tutti quelli che mancherebbero per raggiungere quota 2%, cioè 45 miliardi circa all’anno. In realtà, ha spiegato l’Osservatorio Milex, è una proposta che è stata già rigettata dalla Nato. Ora il governo Meloni ci riprova. A dimostrazione che i soldi non ci sono e teme la prospettiva di fare infuriare la sua «base», quella che applaude i condoni. E tutti gli altri, cioè la maggioranza del paese che fa i conti con una sanità a pezzi, non ha tutele sociali e vive di bassi salari.

IL PROBLEMA è che il 2% del Pil in spesa militare non è stato deciso dal parlamento ma in una riunione dei ministri della difesa nel lontano 2006 e da un vertice dei capi di stato e di governo del 2014 in Galles. L’obiettivo del 2% non è mai stato giustificato in termini militari e collega una previsione di spesa pubblica a un parametro che non si può definire preventivamente. Nessuno sa ancora quale sarà il Pil del 2025, ad esempio. È un artificio per aumentare la spesa militare e basta. E non va dimenticato che già oggi, il totale delle spese europee in armi è superiore a quello della Russia.

IL GOVERNO non chiederà uno scostamento di bilancio per le spese per la difesa. Tutto resterà all’interno del percorso già tracciato che sembra avere dato molta soddisfazione a Giorgetti. Il ministro però ha ricordato un fatto decisivo: l’Italia non ha la capacità produttiva per produrre le armi volute da Bruxelles e dalla Nato. E per ora non si sa nemmeno cosa si vuole finanziare. «Lo scostamento non deve essere la soluzione facile – ha detto – Prima di prevedere spese supplementari, anche per difesa o dazi, voglio sapere dove vanno a finire e per quale motivo le devo fare. Questo – ha aggiunto – è un criterio non di prudenza o di rigore, ma del buon padre di famiglia». Giorgetti ha fatto sapere che una lista dei sogni per i generali è arrivata da Crosetto.

«È come Natale» ha detto, scherzando ma non troppo. Crosetto ha risposto piccato su X: «Non c’è nulla da festeggiare, non ci sono liste della spesa. Ci abbiamo messo un mese per preparar un piano che contemplasse le proprietà e poggiasse su risorse vere». C’è tensione tra una Difesa che ha il problema di trovare le armi da acquistare e l’Economia che non sa dove trovare i soldi.

GIORGETTI, IL «BUON PADRE di famiglia» ha criticato la «frenesia» che si è impadronita dei governi Ue, compreso il suo. Comunque si prepara ad aprire i cordoni della borsa. Per questo ha presentato un Dfp in attesa degli eventi. L’impasse è stata rilevata dall’Upb e la Corte dei conti le informazioni sono «incomplete». Per Istat l’economia tiene ma volge al peggioramento. Giorgetti ha prospettato il differimento del pagamento e non degli obiettivi. E mancano certezze sul Pnrr. Per l’Upb il differimento di 10 miliardi di spesa del Pnrr implicherebbe una perdita dello 0,3% del Pil. Una catena di errori iniziata prima di Meloni & Co.

IL GOVERNO HA PROSPETTATO il taglio della crescita per il 2025 dall’1,2% allo 0,6% Giorgetti lo ha presentato come l’effetto della sua «prudenza». «È il frutto di 25 mesi di calo della produzione industriale – ha osservato Christian Ferrari (Cgil) – Grava sulle spalle

 

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Fronte orientale Incontro tra l’Europa dei "volenterosi" e gli emissari dell’amministrazione americana per ridurre le distanze sulla guerra in Ucraina

Rubio e Witkoff arrivano al tavolo di Macron Emmanuel Macron riceve all’Eliseo Steve Witkoff e Marco Rubio – AP

Mentre Meloni è impegnata a Washington per discutere di dazi con la benedizione di von der Leyen, a Parigi sono in corso colloqui tra paesi europei (Francia e Germania per primi, ma anche Regno Unito), Usa e inviati di Kiev in vista di una possibile tregua nel conflitto ucraino. L’Europa si sdoppia così in iniziative incrociate, una alla corte di Trump guidata dal governo italiano, l’altra organizzata dal presidente Emmanuel Macron all’Eliseo.

Ma il problema principale dei colloqui di Parigi è capire se uno spazio per la leadership europea nelle condizioni di pace esiste, come indica Macron facendosi portavoce delle richieste di Zelensky. O se invece le affinità elettive tra Casa Bianca e Cremlino finiranno per ridurre Bruxelles e Kiev a semplici comprimari.

DI SICURO AL VERTICE dell’Eliseo hanno partecipato interlocutori di primo piano, segno che l’iniziativa del presidente francese è seria. Macron, che ha avuto un colloquio telefonico con il leader ucraino sia prima che dopo il summit, ha ricevuto il segretario di Stato Usa Marco Rubio (che a fine incontro informerà telefonicamente il suo omologo russo Lavrov) insieme a Steve Witkoff, già imprenditore immobiliare e ora consigliere diplomatico di Trump. La delegazione americana, che comprendeva anche l’inviato per l’Ucraina Keith Kellogg, ha poi incontrato nel pomeriggio quella di Kiev, composta dal ministro degli Esteri Andryi Sybiha, da quello della Difesa Rustem Umerov e guidata dal braccio destro di Zelensky Andrji Yermak.

Gli inviati Usa hanno discusso con i loro omologhi europei come «portare avanti l’obiettivo di Trump di porre fine alla guerra e fermare lo spargimento di sangue», ha riferito il dipartimento di Stato Usa. Però in un giorno in cui non si fermano gli attacchi russi e la controffensiva di Kiev sul campo, non mancano neppure gli attacchi verbali di Mosca all’iniziativa francese.

È stata un’occasione importante per avere una convergenza. Penso che tutti vogliano la pace, certamente, una pace robusta e duraturaEmmanuel Macron

«A QUANTO PARE il vertice della cricca fascista dell’Ucraina è arrivato a Parigi per colloqui con Regno Unito, Germania e Francia su quante bare saranno pronti ad accettare dopo lo schieramento di truppe della coalizione dei volenterosi», commenta sprezzante Dmitry Medvedev, già presidente russo e vicepresidente del Consiglio nazionale di sicurezza.

A definire il perimetro di chi dovrebbe decidere del destino di Kiev ci pensa invece Kirill Dmitriev, dall’alto del suo ruolo di capo negoziatore del Cremlino con gli Usa. «Ci sono molte persone, strutture e paesi che provano a interrompere il nostro dialogo con Washington», osserva l’uomo di Putin. Il riferimento evidente è all’Europa, intesa sia come Ue che nel suo formato allargato. Londra, presente all’Eliseo con il ministro degli Esteri David Lammy, è da tempo nel mirino di Mosca a causa il suo attivismo in favore di Zelensky. E Bruxelles viene spesso apostrofata con violenza dall’entourage putiniano.

Per dare conto del livello dello scontro verbale basterebbe ricordare che solo due giorni fa il presidente della Duma Vyacheslav Volodin ha chiesto la rimozione e il processo in un tribunale Onu per l’Alta rappresentante per la politica estera dell’Unione Kaja Kallas.

Witkoff ha adottato la strategia della parte russa, è molto pericoloso perché diffonde, coscientemente o no, le narrative russeVolodymyr Zelensky

AL TERMINE DEL VERTICE, l’Eliseo parla di «opportunità di convergenza» con gli Usa. Ma da Parigi, quella pace «solida e duratura che tutti desiderano» appare ancora molto lontana, nonostante l’ottimismo di circostanza diffuso dal padrone di casa. A colloqui ancora in corso, il leader ucraino boccia l’inviato di Trump Wiktoff, accusandolo di essere tutt’altro che neutrale e di «diffondere la narrazione russa». E alla fine del summit Zelensky ha scritto sui social: «Oggi ho parlato per la seconda volta con il presidente francese Emmanuel Macron. Gli sono grato per la sua leadership e per il lavoro svolto oggi a Parigi dai nostri rappresentanti: Ucraina, Francia, Regno Unito, Germania e Stati Uniti. È importante ascoltarci a vicenda, affinare e chiarire le nostre posizioni e lavorare per la vera sicurezza dell’Ucraina e di tutta la nostra Europa. Abbiamo coordinato ulteriori contatti e incontri», ha scritto il leader ucraino, prima di chiosare: «La durata della pace dipenderà direttamente dalla correttezza delle posizioni diplomatiche e dall’efficacia dell’architettura di sicurezza. Grazie a tutti coloro che ci sostengono».

IN SERATA LA SCENA si sposta da Parigi a Washington. Torna ad aprirsi uno spiraglio di accordo, anche se sul versante più commerciale, ovvero quello delle terre rare. Zelensky lo dà come imminente e Trump annuncia addirittura la firma per giovedì prossimo. Dalla conferenza stampa con Giorgia Meloni, Trump fa anche sapere che «una missione di pace Ue in Ucraina» per gli Usa va bene.

Peccato che manca l’elemento principale: la fine della guerra, appunto.

 

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Media americani La difesa, lo spazio, le misure contro i migranti... Il caos dazi diluito nella trama degli accordi

«La controffensiva europea»,  così la raccontano negli Usa La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è atterrata negli Stati Uniti, alla Joint Base Andrews, nei pressi di Washington, 16 aprile 2025

«C’è chi mi ha definito una nazionalista occidentale. Non so se sia il termine giusto ma sono convinta che dobbiamo parlarci francamente, esprimere chiaramente le nostre esigenze e trovare la maniera miglior per rafforzarci entrambi». Attorno al tavolo delle trattative assiepato di telecamere, Giorgia Meloni è ripetutamente tornata su quello che è sembrato essere il concetto preventivamente focalizzato nel “prep” che ha preceduto il vertice, anche con input da consiglieri della Casa bianca.

Obiettivo, minimizzare i contrasti e spingere la narrativa degli alleati che dirimono un malinteso passeggero, destinato a non intralciare una convergenza inscalfibile di interessi. L’effetto è stato appunto quello di battute preparate per una rappresentazione pubblica con scarsa attinenza al caos globale innescato dalle montagne russe dei dazi su cui Donald Trump ha caricato a forza i mercati internazionali.

La premier che i giornali americani hanno battezzato «la donna che sussurrava a Trump» ha fatto del suo meglio per aderire al copione e incarnare il personaggio assegnatogli dalla stampa di casa, ovvero rappresentante sì dell’Italia, ma inviata speciale in realtà dell’Europa intera che l’ha selezionata come arma segreta per deflettere il ricatto di Trump.

«LA PREMIER ha preparato il viaggio in stretto coordinamento con la Commissione di Ursula von der Leyen», ha scritto la Pbs, mentre la Cbs ha decritto il viaggio di Meloni come «prima mossa di una controffensiva europea» nella guerra dei dazi, affidata alla premier italiana in virtù della naturale affinità che vede i due leader «parlare la stessa lingua».

«Credo che sia una grande premier e che stia facendo un gran lavoro in Italia. La conosco dai suoi esordi, credo che abbia grande talento da leader e sono contento di essere con lei», ha aggiunto Trump attenendosi anche lui evidentemente ai convenevoli convenuti. Senza però resistere ad un caratteristico commento “fuori copione”: «Mica male, no? Meglio di così non potrei dire, giusto..?»

IL POSCRITTO improvvisato ha sottolineato come alla fine dei conti ogni sviluppo, per quanto cauto e confezionato, dipenda in definitiva dagli imprevedibili impulsi del presidente, come ha dimostrato un successivo scambio di battute. A Meloni un giornalista ha chiesto se l’Italia avesse un obiettivo sulla spesa militare. «Tutti dobbiamo fare di più», ha risposto la premier citando come esempio il 2% del pil. «Saliranno, saliranno…» ha interrotto il presidente. «Non sarà mai abbastanza», ha aggiunto Trump fra le risatine complici del suo staff e quella impacciata di Meloni che si è affrettata a dire che «siamo convinti che tutti gli stati membri possano fare di più».

«Se non credessi che gli Usa fossero un partner affidabile non sarei qui», ha risposto Meloni ad una successiva domanda, riprendendo la linea ufficiale della “duplice” inviata. «Sono certa che potremo trovare un accordo ed inviterei il presidente ad una visita ufficiale in Italia nell’ambito della quale si potrebbe contemplare anche in vertice con l’Unione europea. Credo fermamente alla via di un mutuo rafforzamento».
«Lei crede nel presidente», non si è trattenuto Trump con un’altra risata, per poi aggiungere: «Lo troveremo l’accordo, non vi preoccupate, abbiamo qualcosa che tutti vogliono. Ci siamo capiti». Un commento sibillino riferito possibilmente ai rispettivi mercati.

IL RESTO dei commenti sono poi virati sulla nota china della «pacchia finita» e delle rivalsa americana dopo decenni di abuso da «praticamente tutti i paesi» del mondo. Poi un piccolo ripasso delle puntate precedenti secondo Trump. «Per ora abbiamo dazi del 25% su alluminio, acciaio e auto, oltre a quelli generali del 10%. Stiamo incassando una montagna di soldi. Con Biden invece perdevamo una fortuna, gli Usa non guadagnavano nulla fin quando non sono arrivato io. Poi c’è stata un’elezione fraudolenta e Biden è tornato a farsi fregare».

«Faremo buoni accordi con tutti», ha assicurato il presidente, «compresa la Cina, vedrete. Nessuno può competere con noi». La pratica cinese, in particolare, è però ancora tutta da verificare. La versione della Casa bianca è che i mega dazi avranno l’effetto di isolare Pechino. Non mancano però gli economisti che credono che potrebbero essere piuttosto gli Stati uniti a tagliarsi fuori da un’economia globale in cui la Cina potrebbe subentrare come partner privilegiato.

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«È una premier eccezionale, una leader, mi piace molto». Meloni alla Casa bianca raccoglie sterminati elogi e la promessa di Trump di ricambiare la visita, prima o poi. Ma non riesce a strappare alcun impegno sui dazi

Italia-Usa Elogi alla premier e il sì all’invito in Italia con l’ipotesi di «incontrare anche l’Europa»

Trump-Meloni, intesa senza impegno: arrivederci a Roma Meloni a Washington – AP

Finché si tratta di complimenti Donald Trump è largo di manica. Quando si arriva al sodo, anzi al soldo, la disponibilità scende di parecchi gradi. Di concreto Giorgia Meloni porta a casa solo la promessa del padrone di casa di visitare in data incerta l’Italia. Negli auspici dovrebbe essere l’occasione per un vertice con l’Europa, indispensabile per «fare l’occidente grande di nuovo» ma utile anche per provare a sciogliere il nodo dei dazi. Ma su questo Mr. President non concede neppure un minimo segno di assenso. Per ora è un auspicio forse non infondato, il futuro dirà se è invece una pia illusione. Alla lettera: «Il presidente considererà se incontrare anche l’Europa» nel corso della visita a Roma. Parola di Giorgia.

IN COMPENSO TRUMP ha letteralmente ricoperto di lodi l’ospite, dalla «persona eccezionale» elargito al momento di accoglierla alla Casa Bianca sino al crescendo finale con cui ha chiuso la conferenza stampa nello studio ovale: «L’Italia resterà il principale alleato degli Usa sino a quando il primo ministro resterà primo ministro». Tanto si allarga il presidente che a un certo punto, nel briefing prima dell’incontro, ironizza: «Cosa potevo dire di più? Quasi converrebbe chiuderla qui».

Il capitolo dazi non va oltre l’invito a Roma e del resto sin dal primo mattino le “fonti” della Casa Bianca si erano premurate di far sapere che si sarebbe parlato soprattutto d’altro. Non di Starlink, perché nella delegazione a stelle e strisce mancava proprio Musk. C’era in compenso il vice JD Vance, con le valige già pronte per sbarcare oggi a Roma e rivedere la premier in quella che palazzo Chigi considera ormai nulla più di una visita di cortesia. Di Marte invece se ne è parlato, assicura la premier italiana: le missioni per lanciarsi alla conquista dello spazio saranno frutto di cooperazione e dati i toni adoperati in materia d’immigrazione e diritti civili è difficile non sbottare in un tondo pur se un po’ esagerato: “Oddio, Fascisti su Marte”. E molto si è parlato di Difesa. L’italiana porta in dote la promessa di annunciare al prossimo vertice Nato l’innalzamento della spesa militare per l’Alleanza al 2% del Pil. A Donald non basta: «Non è mai troppo», esclama. Però non s’impunta per reclamare impegni precisi per futuri incrementi e Meloni resta sul vago che più vago non si può. Promette invece l’acquisto di gas liquido americano, capitolo per il mercante della Casa Bianca tutt’altro che secondario, e 10 miliardi di investimenti italiani negli Usa. Trump si accontenta. La premier è alle stelle. Considera l’incontro un successone pieno e se la valutazione è esagerata in termini di risultati effettivi non lo è affatto dal punto di vista politico.

IL PRESIDENTE E LA PREMIER filano davvero l’amore perfetto. I giornalisti americani, pochissimo interessati all’ospite che considerano

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