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Crolla il «modello Albania» con cui l’Italia cerca di riempire di migranti i centri inutilmente costruiti oltremare. L’ennesimo rinvio alla Corte di Giustizia europea deciso dalla Cassazione è la bocciatura decisiva. Ma Meloni e Piantedosi vogliono insistere, contro leggi e buon senso

I ripetenti «Come ha fatto il manifesto ad avere accesso a questi provvedimenti?», si domanda il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia evocando un possibile complotto dei giudici in combutta con questo giornale

Il capogruppo di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami alla Camera dei deputati Il capogruppo di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami alla Camera dei deputati – LaPresse

Al ministero della Giustizia l’imbarazzo è palpabile e la speranza quasi dichiarata è che Galeazzo Bignami non dia davvero seguito alla sua idea di interrogare Carlo Nordio per ottenere chiarimenti in merito alla notizia uscita ieri sul manifesto dei due rinvii della Cassazione alla Corte di giustizia Ue sui trattenimenti nei Cpr albanesi.

«Come ha fatto il manifesto ad avere accesso a questi provvedimenti?», si domanda il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia evocando un possibile complotto dei giudici in combutta con questo giornale. In realtà bastava soltanto che un cronista facesse il suo lavoro, perché le due ordinanze di cui si parla sono uscite giovedì e da quel momento erano a disposizione delle parti interessate e di chiunque.

Tutte cose che in via Arenula sanno e che auspicano di non dover ribadire, anche perché da quelle parti la situazione già è piuttosto complicata tra la completa rivoluzione degli uffici andata in scena nelle scorse settimane e l’incudine del tribunale dei ministri che ha sentito diversi funzionari – e vorrebbe sentire anche il guardasigilli in persona – per la vicenda della scarcerazione del boia libico Osama Elmasry.

«SEMPRE IL MANIFESTO – parole ancora di Bignami sull’affaire Cpr – ha preannunciato che la Cassazione avrebbe diramato un comunicato al riguardo, cosa puntualmente avvenuta. Perché lo sapeva?». Qui un mistero in effetti c’è, ma è tutto nelle parole di Bignami: il comunicato che sarebbe stato «puntualmente» diramato, alla fine in realtà non è uscito in virtù del fatto che la notizia ormai era stata resa pubblica. Perché dirlo allora? Anche qui la risposta sembrerebbe essere la più semplice.

Il fratello d’Italia sa come si sta al mondo, o quantomeno come funziona il dibattito pubblico: se sei in un guaio, sparala grossa. In questo caso attaccare il manifesto e la Cassazione serve a coprire il fatto che i piani di deportazione dei migranti del governo sono andati per l’ennesima volta a sbattere davanti alla legge. La grancassa mediatica e social che suona da mesi non è bastata, né è servito a molto cambiare le composizioni dei tribunali e le competenze dei giudici: le manovre albanesi di Meloni continuano a non funzionare.

Bignami, insomma, ha cercato a modo suo di distogliere l’attenzione da un fatto che a questo punto vale la pena ribadire: la prima sezione penale della Cassazione ha rovesciato la sua precedente decisione di equiparare il Cpr di Gjader a quelli italiani e ha espresso qualche dubbio sulla conformità delle leggi varate a Roma con le normative europee.

«Nel caso in questione la normativa prevede un’udienza con l’intervento di pm e difensore – commenta Stefano Celli, esponente di Magistratura democratica nella giunta dell’Anm -. Alla fine la corte legge il dispositivo e gli interessati, oltre ad ascoltarlo, possono ottenerne copia e comunicarlo a chi vogliono. Non c’è nessun segreto e un

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Medio Oriente Il premier israeliano si è riunito con una ristretta cerchia di ministri per una consultazione d’emergenza sulle ultime proposte per Gaza arrivate dagli Stati uniti

L’ultradestra contro il piano Witkoff. Netanyahu la rassicura con le colonie Edifici residenziali nell'insediamento israeliano di Rahmat Shlomo a Gerusalemme – Ap

Mentre ieri pomeriggio naufragava il tentativo del presidente dei Democratici (Laburisti + Meretz), Yair Golan, di convincere i leader centristi Yair Lapid e Benny Gantz a formare un fronte unito contro il governo di Benyamin Netanyahu, il premier israeliano si è riunito con una ristretta cerchia di ministri per una consultazione d’emergenza sulle ultime proposte per Gaza arrivate dagli Stati uniti.

Da alcune ore il suo governo era in fermento per la nuova proposta di cessate il fuoco e il rilascio parziale degli ostaggi presentata a Israele e Hamas dall’inviato statunitense Steve Witkoff. Proposta che Netanyahu vorrebbe considerare, ma che diversi ministri – e non solo i soliti Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich – considerano un intervento a gamba tesa dell’amministrazione Trump.

Sono convinti che, su pressione degli alleati arabi che invocano la fine della guerra, Trump e il suo entourage stiano cercando di frenare la rioccupazione israeliana della Striscia.

LA MINISTRA degli insediamenti coloniali, Orit Strock, ha esortato a non «cedere ora che Hamas è in ginocchio». Quello della diaspora, Amichai Chikli, ha bollato il piano come «la tattica delle fette di salame» per il suo approccio graduale. «Mi oppongo a dare un’ancora di salvezza ad Hamas», ha detto Smotrich, assicurando che Israele non abbandonerà le zone «conquistate» a Gaza, a partire dai segmenti strategici come il corridoio di Morag, nella parte meridionale della Striscia.

Simili i commenti di altri membri del governo, certi che «la vittoria finale» sia a portata di mano. L’intervento di Trump, temono, potrebbe silurare l’«emigrazione volontaria» da Gaza, l’espulsione di oltre due milioni di palestinesi, peraltro proposta proprio dal presidente Usa a inizio anno.

La proposta di Witkoff, almeno in parte, sembra tenere conto delle forti pressioni internazionali per fermare il massacro di palestinesi in corso a Gaza, pur non assicurando la fine della guerra. Prevede il rilascio in due fasi di dieci ostaggi israeliani vivi e delle salme di 18 deceduti (in totale sono 58).

Il progetto «Un milione di coloni» prevede 22 insediamenti e un budget milionario

In cambio, Israele dovrebbe liberare 1.236 prigionieri palestinesi – tra cui 125 condannati all’ergastolo – e consegnare i corpi di 180 palestinesi uccisi. L’accordo si accompagnerebbe a una tregua di 60 giorni, prolungabile, e, punto centrale, non esclude la ripresa dell’offensiva di Israele.

LA LEADERSHIP di Hamas ha fatto sapere, attraverso il sito Axios, di essere delusa dall’iniziativa Usa proprio perché non include la garanzia americana che la tregua temporanea delineata porterà a un cessate il fuoco permanente. Punto che invece risulta molto gradito a Netanyahu, sempre secondo Axios. La proposta di Witkoff inoltre non prevede il ritiro delle forze di occupazione da tutta Gaza. E neppure l’interruzione del nuovo meccanismo di distribuzione degli aiuti umanitari alla popolazione avviato nei giorni scorsi dalla fondazione Ghf, in stretto coordinamento con Israele.

In ogni caso, Netanyahu, ammesso che voglia davvero considerare le soluzioni di Witkoff, sa come calmare i ministri più agitati. L’accelerazione della colonizzazione dei Territori palestinesi occupati funziona sempre. C’è grande euforia in tutta la destra israeliana per la conferma, da parte del ministero della difesa, dell’approvazione di un piano per la creazione di 22 nuovi insediamenti coloniali e il riconoscimento di diversi avamposti.

Il progetto, rivelato inizialmente da Yedioth Ahronoth, prevede la creazione in tempi stretti di tre colonie nella valle del Giordano, due nella Cisgiordania settentrionale e altre due nelle aree di Gush Etzion e delle colline a sud di Hebron. Oltre alla ricostruzione di insediamenti evacuati nel 2005 – tra cui Homesh e Sanur – e all’avvio di un vasto progetto chiamato «Un milione di coloni», con un budget iniziale di 30 milioni di shekel (7,5 milioni di euro).

In seguito saranno costruite le altre colonie. «Siamo arrivati a una decisione storica», ha esultato il ministro Smotrich. «Insediare (coloni) vuol dire rafforzare lo scudo difensivo di Israele».

A CIÒ SI AGGIUNGE un’escalation legislativa rivolta ai cittadini palestinesi di Israele (gli arabo-israeliani), che saranno ritenuti «colpevoli di tradimento». Il ministro della difesa ha già annunciato la revoca della cittadinanza e l’espulsione verso i territori amministrati dall’Anp di Abu Mazen di quattro palestinesi con passaporto israeliano, processati e condannati. Katz ha annunciato l’apertura di centinaia di fascicoli contro altri cittadini arabo-israeliani.

 

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Migranti Due rinvii alla Corte del Lussemburgo mettono in dubbio la compatibilità del Cpr di Gjader con il diritto Ue. La prima sezione penale ribalta una sua precedente pronuncia. Ora si bloccherà tutto, di nuovo

La Cassazione affonda il progetto Albania Il ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, nel corso della conferenza stampa al termine del Consiglio dei Ministri, Roma 28 marzo 2025 – Ansa

La Cassazione dubita che il Cpr di Gjader sia compatibile con la direttiva rimpatri e con la direttiva accoglienza. Per questo ieri ha rinviato due cause alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Per la seconda fase del progetto Albania, quella che riguarda i migranti “irregolari” a cui il decreto di fine marzo (poi convertito in legge) ha esteso l’uso dei centri, si tratta di un colpo durissimo.

I rinvii sono contenuti in due provvedimenti fotocopia nati dai ricorsi del Viminale contro altrettante non convalide del trattenimento oltre Adriatico. Le aveva decise la Corte d’appello di Roma. Anche se non ci sono automatismi, verosimilmente fino alla decisione dei giudici del Lussemburgo sarà molto complicato che un tribunale italiano possa dare il via libera alla detenzione nelle strutture del protocollo Roma-Tirana.

OGGI LA CASSAZIONE pubblicherà un comunicato per entrare nel merito, poi bisognerà attendere le motivazioni. Ma già ieri il manifesto ha visionato il dispositivo che non lascia spazio a dubbi. Gli ermellini pongono due questioni che riguardano entrambi i casi attualmente possibili a Gjader: quello di un migrante in situazione di irregolarità amministrativa e quello di un richiedente asilo che ha fatto domanda di protezione internazionale da dietro le sbarre di quel Cpr.

Per il primo il dubbio è che il trasferimento dall’Italia all’Albania contrasti con la direttiva rimpatri (era il tema che il manifesto aveva posto al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi già il 28 marzo scorso, nella conferenza stampa sul dl). Per il secondo un analogo sospetto riguarda la direttiva accoglienza. Il tema è quello della territorialità: la prima sezione penale è tornata sui propri passi capovolgendo una precedente decisione in cui aveva equiparato il Cpr di Gjader a quelli che si trovano in Italia. Su pronunce con la portata di quella di ieri la regola è che ci sia una discussione di tutta la sezione, oltre il singolo collegio giudicante.

LA POSSIBILITÀ che qualcosa si stesse muovendo nella direzione poi ratificata era emersa due settimane fa, quando gli ermellini avevano rimandato la sentenza sui due casi, prendendosi del tempo per approfondire. Ha avuto dunque ragione la Corte di appello di Roma a dire, il 19 maggio scorso, che il pronunciamento favorevole ai piani del governo non era corretto, prendendosi la responsabilità di disattenderlo. Anche in ragione del fatto che era «unico e isolato». Tale rimarrà.

Alla luce dell’orientamento espresso in quella circostanza, e a maggior ragione adesso, è prevedibile che ogni volta che un migrante chiederà asilo dall’Albania lo stesso tribunale ne ordinerà il rientro in Italia. Casi diversi sono quelli della proroga o del riesame della detenzione di un cittadino straniero “irregolare”: finiranno davanti al giudice di pace della capitale. Ma ci sono tutti i margini perché anche così la persona debba essere riportata indietro: se la Cassazione ha dei dubbi di compatibilità con il diritto Ue, nell’attesa che li chiarisca la Corte di Lussemburgo, dovrebbe condividerli pure un giudice non togato, come quello di pace. Anche perché in gioco c’è un diritto fondamentale, la libertà personale tutelata dalla doppia riserva di giurisdizione e di legge dell’articolo 13 della Costituzione.

GLI ERMELLINI hanno chiesto ai magistrati europei di applicare la procedura d’urgenza: la più rapida in assoluto che, comunque, richiederebbe diversi mesi. Lo avevano fatto anche i tribunali che hanno rinviato le cause sul tema dei «paesi di origine sicuri», quelli relativi alla fase originaria del protocollo, riservata ai richiedenti asilo mai entrati in Italia. Poi la Corte Ue ha optato per la procedura accelerata, più veloce di quella ordinaria ma meno di quella di urgenza.

In quel caso il rinvio esaminato a Lussemburgo risale a novembre 2024, l’udienza si è svolta a febbraio 2025, la decisione era attesa per giugno ma, a quanto appreso da questo giornale, nonostante sia già stata deliberata dovrebbe essere pubblicata a ottobre. In pratica sarà passato un anno in cui il governo non ha potuto portare a Gjader nessun richiedente asilo.

PER QUESTO a fine marzo aveva deciso di ampliare l’uso dei centri ai migranti “irregolari” già presenti in Italia. In totale ne ha trasferiti poco più di cento. Al momento a Gjader sono una cinquantina. È probabile ci resteranno ancora per poco.

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Cambio di registro La lunghissima luna di miele con l’elettorato italiano sembra essere terminata

Giorgia Meloni foto Ansa Giorgia Meloni – foto Ansa

Oddio le riforme, e chi se le ricordava più? Fra dazi e guerre, con la premier impegnatissima a districarsi nella tempesta internazionale che minaccia di travolgerla, le tre riforme che dovrebbero riscrivere in peggio il dna della Repubblica erano uscite dai radar. Giusto qualche periodico accenno alla Giustizia, tutt’al più è la prozia di tutte le riforme, mentre la mamma delle stesse, il premierato, restava chiusa nel cassetto.

Ieri il fulmine a ciel sereno. La maggioranza, in capigruppo a Montecitorio, chiede di portare entrambe le riforme in aula a luglio. L’opposizione s’imbizzarrisce, strepita contro «l’ennesima forzatura», protesta e rumoreggia. Giusto, ma la brusca sterzata richiede qualche spiegazione. La premier era decisa a evitare l’ordalia sul premierato in questa legislatura: troppo pericolosa. Che abbia cambiato idea? Meno inspiegabile l’accelerazione sulla giustizia, ma anche lì perché l’improvvisa rincorsa? La spiegazione ufficiosa, non del tutto fiabesca, non è neppure del tutto convincente: il calendario era vuoto, qualcosa bisognava pur fare.

In realtà l’ipotesi di varare il premierato prima delle elezioni politiche resta fuori discussione. La premier, consapevole del pasticcio indigeribile che il suo governo ha abborracciato, mira almeno in parte a rivederlo. La Camera modificherà il testo. Serviranno un paio d’altri passaggi. Già l’approvazione finale del Parlamento in questa legislatura è molto improbabile. La celebrazione del referendum del tutto impossibile. I tempi della giustizia, a guardar bene, non cambiano poi troppo: incardinata a luglio, approvata a settembre, poi si passa alla seconda lettura. Il referendum non arriverà prima della tarda primavera se non addirittura dell’autunno.

Ci sarebbe la terza riforma, quella che costituzionale non è e, già approvata, si tratterebbe solo di applicarla, l’autonomia differenziata. È immersa nella palude, procede con la rapidità e la grazia di un pachiderma. La scelta di correre sul dl Sicurezza, approvazione finale cotta e mangiata al Senato il 3 giugno, serve anche a rabbonire il capo leghista che scalpita e almeno potrà vantarsi d’aver portato a casa la legge fascistissima.

Ma nella resurrezione delle sin qui neglette riforme c’è probabilmente anche qualcosa in più. Per quasi tre anni la premier ha trascurato l’adorata «Nazione», occupatissima a cercare successi sul palcoscenico europeo e internazionale. Non ce l’ha sempre fatta. Quando si è arrivati al sodo, al nuovo patto di stabilità, ha dovuto ingoiare un bibitone di cicuta e dovendo pure far finta di gradire l’immonda bevanda. Ma nel complesso ha senza dubbio incassato, soprattutto in termini di legittimazione e sintonia con i potenti di turno, a palazzo Barleymont come alla Casa Bianca.

Il gioco si è rotto. La passeggiata sul velluto si è trasformata in una marcia nella foresta, con tanto di agguati e campi minati. Lo specchio internazionale non riflette più l’immagine smagliante di una premier vincente ma quella ammaccata di una leader in difficoltà grosse. Guai che resteranno tali anche quando, martedì prossimo, lei e Macron sigleranno una riappacificazione dettata esclusivamente dal comune istinto di sopravvivenza, dalla consapevolezza di essersi calati nella parte ingrata dei polli di Renzo nel sacco del vorace alleato americano.

Molto meglio dunque riportare tutto a casa. Varare di corsa una legge da rivendersi come tripudio della forca. Tornare alla retorica delle mamme zie e prozie di tutte le riforme. Promettere di rovesciare la Repubblica come un calzino. Distogliere l’attenzione.

Non basterà. Il premierato è un intruglio. La riforma della giustizia superficiale è inutile. L’autonomia differenziata un disastro detestato dagli stessi Parlamentari di destra che l’hanno controvoglia votato e adesso lo tengono al palo. Far fronte ai venti di crisi che fanno rabbrividire Giorgetti con simili promesse è una scommessa già persa.

Dare Giorgia per avviata sul viale del tramonto, come sembra orientata a fare un’opposizione inebriata dalla vittoria di Genova, sarebbe un grossissimo orrore. Ma la lunghissima luna di miele è finita una volta per tutte. In Europa e anche nei confini sacri della Nazione.

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Una Corte Usa abbatte i dazi commerciali introdotti da Trump con i suoi ordini esecutivi. Il presidente ha abusato dei poteri emergenziali. Ma un’altra li rimette in piedi «temporaneamente». I mercati festeggiano, poi torna il caos. Il mondo sta a guardare. La Casa bianca: insisteremo

Il gioco del dazio La prima sentenza: non si può invocare una falsa «emergenza economica» per esautorare il Congresso. Ma lui la spunta in appello

Trump presenta i dazi ak Giardino delle rose Trump presenta i dazi nel Giardino delle rose – Ap

Dopo un botta e risposta serrato fra Donald Trump e i giudici, una corte d’appello federale ha autorizzato il tycoon ad andare avanti con l’applicazione dei dazi doganali rivolti a decine di paesi, ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act (Ieepa), una legge del 1977 che conferisce al presidente dei poteri di emergenza. Una vittoria per Trump, almeno per ora, mentre la sua amministrazione sta impugnando un’ordinanza che annulla la maggior parte delle sue politiche economiche.

LA CORTE D’APPELLO del Circuito Federale ha accolto una mozione d’urgenza dell’amministrazione Trump, sostenendo che la sospensione è «fondamentale per la sicurezza nazionale del Paese», dopo che due tribunali avevano deliberato per fermare l’applicazione dei dazi. Accogliendo la mozione d’urgenza dell’amministrazione Trump, la corte d’appello ha temporaneamente sospeso l’ordinanza emessa il giorno prima da una corte commerciale federale.

«La legge sui poteri di emergenza economica internazionale – aveva dichiarato il giudice della Corte distrettuale di Washington Rudolph Contreras – non autorizza il presidente a imporre i dazi previsti da quattro ordini esecutivi emessi all’inizio di quest’anno». La decisione di Contreras era arrivata meno di 24 ore dopo la sentenza espressa dalla Court of International Trader, la Corte del Commercio internazionale, un organo del sistema giudiziario federale con competenza specifica in materia di commercio, che per prima aveva deciso di bloccare i dazi imposti dal tycoon il 2 aprile scorso, nel cosiddetto «Giorno della liberazione».

CON LA DECISIONE si affermava che la Costituzione Usa conferisce il potere esclusivo di regolare il commercio con le altre nazioni al Congresso e che tale potere non è superato dal compito del presidente di salvaguardare l’economia. La sentenza era basata su due casi: quello intentato dal Liberty Justice Center che ha agito per conto di diverse piccole imprese che si occupano di importazioni e quello di una coalizione di governi statali. A deliberare era stato un collegio formato da tre giudici della Court of International Trade, nominati da presidenti diversi, tra i quali uno nominato proprio da Trump. Dopo la sentenza l’amministrazione Trump ha subito presentato ricorso alla Corte d’Appello per il Circuito Federale e il portavoce della Casa Bianca, Kush Desai, ha affermato polemicamente in un comunicato che le relazioni commerciali svantaggiose e sleali avevano già «decimato le comunità americane, lasciando indietro i nostri lavoratori e indebolendo la nostra base industriale di difesa, tutti fatti che la corte non ha contestato».

In realtà bastava analizzare chi fossero i ricorrenti di questo caso per entrare in una narrazione completamente diversa degli eventi. Nel primo caso si tratta di cinque piccoli imprenditori e di uno studio legale di stampo conservatore che si è fatto notare per le battaglie legali contro la chiusura delle scuole durante il lockdown e per quelle contro la sindacalizzazione di massa dei dipendenti pubblici.

IL LIBERTY JUSTICE CENTER ha sede ad Austin, in Texas, si descrive come una società libertaria senza scopo di lucro che «cerca di proteggere la

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L'appello della rete Israele dal 7 ottobre ha ucciso almeno 1400 operatori sanitari, colpito gli ospedali 686 volte e li bombardava già nel 2014. Medici senza frontiere registra più di 100 pazienti al giorno vittima di ustioni e il 70% sono bambini, lo stato ebraico «sta portando avanti un genocidio grazie alla totale impunità, se non si prendono provvedimenti andrà avanti»

Le fiamme che hanno distrutto decine di tende nel cortile dell’ospedale Martiri di al-Aqsa a Deir al Balah foto Ap/Abdel Kareem Hana Le fiamme che hanno distrutto decine di tende nel cortile dell’ospedale Martiri di al-Aqsa a Deir al Balah – Ap

«Abbiamo giurato di proteggere la vita umana, e non lo stiamo facendo». Questa l’amara consapevolezza della rete Sanitari per Gaza, che muove l’appello rivolto a tutti gli iscritti a un Ordine professionale (medici, infermieri, farmacisti, psicologi, tecnici delle professioni sanitarie, medici veterinari, ostetrici, biologi, fisioterapisti, chimici e fisici). La lettera, che ha già raccolto più di 36mila firme e oggi verrà recapitata a tutti gli Ordini d’Italia, invita le istituzioni sanitarie a schierarsi nettamente contro il genocidio in corso a Gaza in ogni sua manifestazione: dagli attacchi mirati alle strutture ospedaliere alla fame come arma, dai bombardamenti indiscriminati alle ormai incommensurabili violazioni del diritto internazionale.

«Al di là del codice deontologico, non possiamo non metterci nei panni dei colleghi che a Gaza stanno lavorando senza sosta, senza materiale, in strutture semi distrutte, senza cibo e acqua: parliamo di condizioni di lavoro per noi inimmaginabili», spiega Chiara Piliego, medica parte della rete. E prosegue: «nella Striscia se sei un operatore sanitario sei un bersaglio. Qui risiede l’intento genocidario. Tra i diritti umani, che reggono le fondamenta della società, c’è il diritto alla salute. Non è un caso che medici e giornalisti siano tra i più colpiti. Questo dovrebbe portarci a prendere posizione: persone che vengono ammazzate perché svolgono il loro lavoro, intere famiglie spazzate via perché un membro svolge una professione sanitaria». Per incalzare i destinatari la rete dà conto di alcuni degli episodi e dei dati più eclatanti: tra il 7 ottobre 2023 e il 7 maggio 2025 l’Oms riporta 686 attacchi contro strutture ospedaliere, molti dei quali avvenuti dopo la violazione del cessate il fuoco da parte di Israele.

«E QUESTA PRATICA non nasce l’8 ottobre», ricorda Piliego, «già nel 2014 l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari», l’OCHA, «denunciava gli attacchi israeliani agli ospedali, sempre accompagnati dalla giustificazione per cui questi avrebbero nascosto miliziani di Hamas». La prima missiva agli Ordini risale al gennaio 2024, ma la risposta era stata «tiepida», Sanitari per Gaza spera che oggi, vista la drammaticità della situazione, ne arrivi una più netta. Ormai Medici senza frontiere registra più di 100 pazienti al giorno vittima di ustioni, di cui il 70% costituito da bambini e bambine. La maggior parte muore per mancanza di trattamento adeguato.

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L’offesa del pane e del sangue

SOLO NELLA GIORNATA del 13 maggio, Israele ha distrutto due degli ospedali principali di Khan Younis (Nasser Hospital e European Gaza Hospital): tra le mura del primo, è stato ucciso il giornalista Hassan Eslaih. In un solo attacco, oltre a mettere in ginocchio gli ultimi baluardi della sanità palestinese a Gaza, è stata silenziaata una delle voci che quotidianamente denunciavano l’orrore israeliano nella Striscia (dopo un primo bombardamento sulla sua tenda per gli addetti stampa, che lo aveva portato al ricovero). Il 43% dei farmaci fondamentali è fuori produzione, e il 64% dei consumabili è stato utilizzato. A soffrire maggiormente della scarsità sono i dipartimenti di emergenza, chirurgici e di terapia intensiva, già messi a dura prova dal sempre maggior numero di pazienti. Secondo l’OCHA l’80% dei bambini di Gaza soffre di malnutrizione, di cui il 92% è nella fascia di età tra i 6 mesi e i due anni e non riceve l’apporto nutrizionale minimo. L’accesso all’acqua potabile manca al 65% della popolazione.

DAL 7 OTTOBRE almeno 1400 operatori sanitari sono stati uccisi dallo stato ebraico, «è un numero che dovrebbe portarci a reagire», scrive la rete. La denuncia non è solo umanitaria, ma profondamente politica, e lo è per due ragioni: da un lato «gli Ordini sono degli organi sussidiari dello stato, devono guidare il governo nelle scelte che hanno a che fare con l’interesse pubblico e riteniamo che ora debbano spingerlo ad aggiustare il tiro sulla situazione in Palestina»; dall’altro, «Israele sta portando avanti un genocidio grazie alla totale impunità, se non si prendono provvedimenti andrà avanti. Perché glielo lasciamo fare?», chiede Piliego, ricordando che già nel 2014 non c’era stata una condanna dei bombardamenti mirati sugli ospedali. «Tutte le 36 strutture sanitarie di Gaza sono state colpite più volte, è ora che gli Ordini, e con loro i governi, dicano basta», conclude.

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