Oncologia pediatrica Oltre duemila bambini sono costretti a curarsi lontano da casa. Li attende un calvario reso più iniquo dagli squilibri Nord-Sud
Il reparto di oncologia pediatrica. Policlinico Umberto I di Roma
Sebbene grazie ai progressi della medicina la sopravvivenza dopo cinque anni oggi tocchi l’80%, una diagnosi di tumore nell’infanzia o nell’adolescenza è devastante. Capita a circa 2.300 famiglie ogni anno. I casi più frequenti riguardano leucemie e linfomi, quelli più difficili: i tumori solidi. Se il dramma umano è facilmente comprensibile, se ne conoscono meno le conseguenze economiche, soprattutto per chi è costretto a spostarsi lontano da casa per le cure. Un minore che si ammala deve essere accompagnato dai genitori attraverso un percorso lungo e complicato che stravolge vite personali e professionali.
HA PROVATO A FARE I CONTI un rapporto dell’Osservatorio sulla condizione assistenziale dei malati oncologici in età pediatrica e adolescenziale, promosso dalla Federazione delle associazioni di volontariato in oncologia (Favo) e presentato in Parlamento alla fine di ottobre. In base ai dati raccolti, un anno di terapie fuori dal proprio territorio può costare anche 35.000 euro, nonostante il servizio sanitario nazionale offra cure gratuite a tutti. Ma i costi legati all’alloggio, al vitto e ai viaggi interregionali ricadono sul reddito privato. «Nel 90% dei casi uno dei due genitori deve rinunciare al lavoro», racconta Sergio Aglietti, presidente della Federazione italiana associazioni genitori e guariti onco-ematologia pediatrica che ha partecipato alla stesura del rapporto.
Il fenomeno della mobilità sanitaria tra le Regioni riguarda tutte le specialità, ma nel caso di malattie rare diventa ancora più evidente. I reparti di onco-ematologia pediatrica che curano sono meno di quaranta in Italia e la loro collocazione sul territorio non è uniforme. L’annuario statistico del ministero della Salute (aggiornati al 2023) mostra che nelle regioni del Nord per i ricoveri e i day hospital legati a queste patologie ci sono circa 10 posti letto ogni milione di abitanti e in quelle del centro 18. Nel Sud invece sono meno di 8.
QUESTI DATI spiegano un’altra statistica relativa alle regioni di partenza e di arrivo dei «viaggi della speranza». Secondo uno studio dell’Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica (Aieop) pubblicato nel 2024, tra il 2008 e il 2017 il 43% dei pazienti oncologici del Sud si è spostato fuori regione per le cure, addirittura il 59% per i tumori solidi con le situazioni più critiche in Calabria e Sardegna. La regione che accoglie più pazienti è il Lazio, un quinto del totale (dati Favo). Addirittura più di Lombardia ed Emilia-Romagna, che nella mobilità sanitaria degli adulti sono largamente in cima alle preferenze.
LA PERFORMANCE ANOMALA si spiega soprattutto con la presenza a Roma di due ospedali privati, anzi stranieri: il policlinico Gemelli e soprattutto l’ospedale pediatrico Bambin Gesù, entrambi proprietà del Vaticano. Grazie alla loro presenza, nella Lazio ci sono oltre 20 posti di onco-ematologia per milione di abitanti, più del doppio della media nazionale. Secondo i dati del ministero della salute, al Bambin Gesù i posti letto per i ricoveri in ematologia e oncologia sono passati dai 33 del 2010 agli attuali 77. È fisiologico che l’ospedale del Gianicolo diventi il polo di attrazione per tutto il Centro-Sud.
LA SOLUZIONE allo squilibrio geografico sembra facile: «Una rete oncologica pediatrica nazionale più omogenea – propone lo studio Aieop – che garantisca ai pazienti la massima qualità possibile, almeno all’interno di un’area “macroregionale”». A creare nuovi reparti di oncologia pediatrica nel Sud però il governo non ci pensa affatto e preferisce rafforzare i monopoli privati esistenti, a discapito delle famiglie e delle altre strutture pubbliche. Nella bozza della manovra 2026, criticata per gli scarsi investimenti nella sanità pubblica, aumentano a dismisura i finanziamenti di Stato per il Bambin Gesù. Il governo infatti introduce un nuovo premio annuo di 70 milioni di euro a sostegno delle funzioni assistenziali svolte dall’ospedale cattolico.
Oltre ai rimborsi per le prestazioni sanitarie erogate, dal 2009 l’ospedale già riceve un ulteriore fondo premiale «per le riconosciute caratteristiche di specificità e innovatività dell’assistenza» di 50 milioni, più 12 per i trapianti. In tutto, all’ospedale del papa andranno dunque 132 milioni di euro l’anno in forme premiali interdette agli altri ospedali pediatrici pubblici. Non è poco per un bilancio complessivo di circa 400 milioni. In più, un’intesa tra Vaticano e governo Meloni del 2024 ha stabilito che un altro grande ospedale pubblico romano, il Forlanini, sarà ristrutturato e messo a disposizione del Bambin Gesù per espandere ulteriormente le sue attività. Anche il policlinico Gemelli riceve un finanziamento governativo ad hoc di 32 milioni l’anno, oltre ai rimborsi per le prestazioni accreditate.
LA RILUTTANZA A CREARE nuovi reparti periferici viene spesso giustificata con un dato difficilmente discutibile: poche grandi strutture in cui si riuniscono competenze e tecnologie offrono terapie mediamente più efficaci di tanti ospedali di piccole dimensioni, come attesta annualmente il monitoraggio del Programma nazionale esiti (Agenas). «I reparti di eccellenza sono quelli in cui arrivano molti casi» spiega Aglietti. «E se un bravo professionista viene mandato in un reparto in cui passano solo 4 o 5 casi l’anno, l’eccellenza si perde». Per questo le associazioni chiedono di allargare i sostegni alle famiglie in mobilità sanitaria, per esempio estendendo i benefici della legge 104 ai lavoratori atipici o prevedendo sgravi fiscali per le spese sostenute.
QUANDO PERÒ la concentrazione delle strutture è eccessiva, il peso degli spostamenti cancella il vantaggio dell’eccellenza. Il citato studio Aieop mostra che i pazienti che si curano fuori regione hanno un probabilità di sopravvivenza a 10 anni del 69,9%, inferiore al 78,3% dei bambini che si curano vicino casa. Nel disagio sociale e psicologico, seguire protocolli terapeutici lunghi e faticosi diventa un’impresa. «Le reti sociali si sfaldano, la famiglia paga di più, rinuncia di più, e rischia di perdere terreno anche sul piano clinico», scrive il rapporto Favo. E per i bambini del Sud la sanità finisce per costare di più e guarire di meno.
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L’ingresso alla Cop30 di Belém, in Brasile
È iniziata la trentesima conferenza dell’Onu sul clima, la Cop30 di Belém, in Brasile. Nel Paese della Foresta amazzonica, là dove tutto era cominciato, come ha ricordato il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva durante la cerimonia di apertura: «Nel 1992, al Vertice della Terra di Rio, i leader mondiali si riunirono per discutere di sviluppo e tutela dell’ambiente. Allora il multilateralismo viveva la sua stagione più alta».
I NEGOZIATI DI BELÉM cominciano però con un’assenza pesante: è la prima volta che gli Stati uniti rinunciano del tutto a un ruolo nei colloqui sul clima. Donald Trump, tornato alla Casa Bianca, ha definito la crisi climatica «una truffa» e ha rilanciato un’agenda energetica devota ai combustibili fossili. «Meglio nessun coinvolgimento che un sabotaggio», ha commentato un diplomatico europeo, ricordando come nei mesi scorsi Washington abbia ostacolato la proposta di una tassa sulle emissioni del trasporto marittimo.
Eppure gli Stati uniti restano il secondo emettitore mondiale di gas serra, dopo la Cina. E, non solo si sono sfilati dai negoziati, ma risultano anche i principali contributori morosi al bilancio dell’Unfccc, l’organismo dell’Onu che coordina l’attuazione degli accordi sul clima, con quasi otto milioni di dollari di arretrati su un bilancio annuale complessivo di 43 milioni. È l’ennesimo segnale di una strategia di disimpegno che, come sottolineato dall’ex negoziatore Usa, Todd Stern, «ha portato la politica climatica americana al punto più basso di sempre».
L’ASSENZA DI WASHINGTON costringe l’Unione europea a rappresentare da sola il Nord globale, ma anche Bruxelles arriva a Belém indebolita: gli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2035 sono stati ammorbiditi e la transizione verde rallentata, con le destre che spingono per smantellare qualsiasi politica ambientale. Tra i Paesi più restii alla decarbonizzazione c’è l’Italia. Il ministro Gilberto Pichetto Fratin, assente a Belém ma collegato da Roma per parlare di Cop30, ha detto che «sul clima non sono ammessi passi indietro». Eppure, se nel 2024 l’Italia ha aumentato i contributi alla finanza internazionale per il clima, la quota di fondi a fondo perduto si è dimezzata, mentre sono raddoppiati i prestiti, che, se non regolati in modo adeguato, potrebbero aggravare la crisi del debito nei Paesi più vulnerabili. L’Italia, inoltre, non ha ancora stanziato i 300 milioni destinati al Green Climate Fund e i 100 milioni al Fondo per perdite e danni annunciati alla Cop28.
E mentre l’Occidente arretra, Pechino colma il vuoto. La Cina produce e installa energia pulita più di chiunque altro ed è il primo produttore mondiale di pannelli solari e tecnologie a basse emissioni. Secondo i dati ufficiali, deve ancora versare circa due milioni di euro di contributi arretrati all’Unfccc, ma guida di fatto la transizione globale. Xi Jinping non è a Belém, ma il suo governo ha presentato in extremis i nuovi piani climatici: Pechino si impegna a ridurre le emissioni del 7-10% entro il 2035, meno del necessario ma con risultati tangibili. Oltre la metà della capacità elettrica cinese è già rinnovabile e metà delle nuove auto vendute sono elettriche. «La riduzione dell’entusiasmo del Nord mostra che il Sud si sta muovendo», ha dichiarato André Corrêa do Lago, diplomatico e presidente di Cop30. «La Cina offre soluzioni per tutti, non solo per sé stessa».
SOTTO LA PRESIDENZA brasiliana, la trentesima Cop dovrà sciogliere i nodi rimasti irrisolti nei precedenti vertici. L’obiettivo è definire regole e meccanismi concreti per trasformare gli impegni in azione. Il successo di Belém si misurerà dunque sulla capacità di ridurre due divari ancora ampi: quello tra le ambizioni dichiarate e le emissioni reali, e quello tra gli impegni finanziari e i fondi effettivamente versati.
Sul fronte delle emissioni, per allinearsi all’obiettivo dell’Accordo di Parigi serve una riduzione annuale del 55% entro il 2035 rispetto ai livelli del 2019. Eppure solo trenta Stati e l’Unione europea hanno reso vincolanti per legge gli obiettivi di neutralità climatica, che coprono appena il 17,7% delle emissioni globali.
SUL VERSANTE dei finanziamenti, il segretario esecutivo dell’Unfccc Simon Stiell ha ribadito che «i piani senza fondi non possono funzionare». Il programma Baku to Belém Roadmap, elaborato nell’ambito della Cop29 per rafforzare e coordinare il flusso della finanza climatica, dovrebbe portare i finanziamenti globali da 300 miliardi a 1,3 trilioni di dollari entro il 2035, ma resta privo di meccanismi vincolanti. In questo negoziato saranno inoltre definite le regole operative del Fondo per perdite e danni, che dovrà consentire ai Paesi più colpiti dagli impatti climatici di presentare le prime richieste di risarcimento. «Non è carità, è investimento in stabilità e prosperità», ha sottolineato Stiell.
Commenta (0 Commenti)Il caso Scontro Meloni-Schlein sull’Authority. La segretaria dem: «Ora devono dimettersi». Mollicone (FdI) attacca: «Non è inchiesta». E annuncia un’interrogazione
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Il conduttore di Report Sigfrido Ranucci – Angelo Carconi/Ansa
«Dopo quello che è emerso grazie a più persone dell’ufficio del Garante, è bene che si dimetta; con quale credibilità può continuare a prendere decisioni?». Dopo la coda lunga di discussioni durata tutta la giornata, a seguito dell’inchiesta di Report sul Garante della privacy, l’ultima richiesta di dimissioni arriva dallo stesso conduttore Sigfrido Ranucci. Prima di lui la stessa richiesta era arrivata da parte dei leader dell’opposizione, Elly Schlein in primis, cui sono seguite le repliche del governo e della maggioranza, dalla premier Meloni al responsabile organizzazione di FdI Giovanni Donzelli, che ha commentato con sprezzo: «La linea di FdI rimane la stessa: favorevoli, con grande slancio e giubilo, allo scioglimento di qualsiasi ente o autorità nominata dalla sinistra». I quattro componenti del collegio sono stati nominati dal Parlamento nel luglio del 2020, durante il governo giallorosso: il presidente Pasquale Stanzione, in quota Pd, e i tre membri del collegio Agostino Ghiglia legato a FdI, Guido Scorza in quota M5S e Ginevra Cerrina Feroni, vicepresidente e in quota Lega.
IL CASO è nato da un’inchiesta mandata in onda domenica sera, che intendeva fare luce sull’indipendenza dell’autorità di garanzia, di cui venivano raccontati i possibili conflitti di interesse dei membri. In particolare rispetto a un procedimento da 44 milioni di euro del Garante nei confronti di Meta, relativo agli smart-glasses messi in commercio dal 2021. Procedimento prima ridotto e poi caduto in prescrizione nell’ottobre del 2024, mentre la trasmissione ha riportato di un incontro tra il membro della commissione in quota FdI Agostino Ghiglia e il responsabile delle relazioni istituzionali di Meta ad agosto di quell’anno. Ad avere un potenziale conflitto di interessi nella vicenda sarebbe anche Guido Scorza, avvocato eletto in quota M5S.
GHIGLIA AVEVA INTIMATO Report di non mandare in onda il servizio, ritenendolo una «forzatura con intenti diffamatori». Ranucci aveva replicato parlando di «fatti inoppugnabili» e chiamando in causa un possibile intervento della Corte dei Conti per danno erariale. I due si erano trovati ai ferri corti già poche settimane fa, dopo che il Garante aveva comminato alla trasmissione una multa di 150mila relativa alla pubblicazione di alcuni audio dell’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Il giorno prima della decisione, aveva denunciato Report, Ghiglia si era recato nella sede di FdI per parlare con Arianna Meloni. Sul caso Meta ieri Scorza in un’intervista a Repubblica aveva parlato ieri di dimissioni come di un’«opzione sul tavolo», pur respingendo le accuse.
«STA EMERGENDO un quadro grave e desolante sulle modalità di gestione del garante che rende necessario un segnale forte di discontinuità. Penso che non ci sia alternativa alle dimissioni dell’intero consiglio», ha dichiarato in mattinata la segretaria del Pd Elly Schlein. Cui ha replicato la premier Giorgia Meloni, non chiamata in causa direttamente ma con il partito inseguito da giorni dalle polemiche: «L’autorità è eletta dal Parlamento, non abbiamo competenza sulla possibilità di azzerare l’autorità. È una decisione che casomai spetta al collegio. Però una cosa la voglio dire: questo Garante è stato eletto durante il governo giallorosso, quota Pd e 5S e ha un presidente in quota Pd, dire che sia pressato da un governo di centrodestra mi pare ridicolo. Se il Pd e i 5S non si fidano di chi hanno messo all’Autorità per la Privacy, non se la possono prendere con me, forse potevano scegliere meglio», ha detto la premier in partenza per Bari.
TANTO GHIGLIA quanto Scorza hanno respinto nel pomeriggio di ieri l’ipotesi di una dimissione del collegio, ma allo stato attuale tutte le forze politiche sembrano averli scaricati, sfidandosi invece sulla trasmissione. In Aula a Montecitorio Federico Mollicone di FdI ha colto l’occasione per attaccare il programma di Ranucci, ritenuto una «fiction da streaming»: «Presenteremo un’interrogazione parlamentare. Quello di Report e anche di altre testate che si oppongono a questo governo e a questa maggioranza non è giornalismo di inchiesta: nella stragrande maggioranza delle volte, come quella di ieri, è giornalismo militante che ha provocato infiniti danni. Un giornalismo a tesi».
PRIMA DI LUI anche il leader dei 5S Giuseppe Conte aveva chiesto l’azzeramento dell’autorità, rilanciando la proposta di legge sul conflitto di interessi, ipotesi appoggiata anche dalla segretaria Pd Elly Schlein: «Guardate che le istituzioni di garanzia non possono diventare succursale di un partito e neppure di Colle Oppio. Quello che emerge è che qui è stata minata la credibilità e il prestigio di un’intera istituzione, che deve essere e deve anche apparire indipendente».
Commenta (0 Commenti)Da Camp Bucca allo Studio ovale: il leader (ex) qaedista Ahmed al-Sharaa accolto da Trump alla Casa bianca. In dote porta la ricostruzione della Siria e una base per i marines. Sorrisi, strette di mano e, per ora, una sospensione parziale delle sanzioni
Il buon terrorista Il presidente qaedista accolto alla Casa bianca per scrivere il futuro, cupo, della Siria
Sostenitori del presidente della Siria Ahmed al-Sharaa fuori dalla Casa bianca a Washington – foto Jacquelyn Martin/Ap
Il viaggio che ha condotto alla Casa bianca Abu Mohammed al-Jolani, al secolo Ahmed al-Sharaa, è stato fulmineo e costellato di record personali. L’ex leader di al Qaeda in Siria, l’uomo su cui pesava una taglia da dieci milioni di dollari spiccata dal Pentagono, non aveva fatto in tempo a insediarsi a Damasco – dopo la caduta del presidente Bashar Assad, l’8 dicembre 2024 – che le cancellerie occidentali già lo riconoscevano legittimo leader di uno dei più importanti paesi dell’Asia occidentale.
DA LÌ È STATO un crescendo, per nulla intaccato da elezioni farsa, pogrom e sparizioni forzate. Il 7 maggio scorso è stato accolto all’Eliseo dal presidente francese Macron. Una settimana dopo a Riyadh ha stretto la mano a Donald Trump ricevendone in cambio una pioggia di complimenti («un tipo attraente…dal passato forte») e un allentamento delle sanzioni che strangolano la Siria da decenni. A settembre ha tenuto il suo discorso all’Assemblea generale Onu – doppio record: primo qaedista e primo leader siriano dal 1967 – e ha dialogato in pubblico con David Petraeus, l’uomo che da capo della Cia lo aveva sbattuto a Camp Bucca, prigione di massima sicurezza Usa in Iraq.
Una marcia vittoriosa che ieri ha toccato il suo distopico apice su un campo da basket a Washington: al-Sharaa ha messo in mostra le sue abilità con un gruppo di funzionari militari statunitensi. Non funzionari qualsiasi: uno era Brad Cooper, a capo del Comando centrale Usa, e uno il generale Kevin Lambert, comandante della coalizione anti-Isis in Iraq. Al-Sharaa ha fatto un paio di canestri.
Qualche ora dopo era davanti a Trump nello Studio ovale. Un incontro che alla vigilia era dato per altamente simbolico, e così è stato: il presidente siriano ha avuto la sua photo opportunity e la stretta di mano del tycoon, ma non una conferenza stampa congiunta. La ragione va probabilmente cercata altrove, a Tel Aviv, contraria a elevare Damasco a partner forte della rete Usa nella regione. Il suo podio al-Sharaa lo ha avuto anche dopo il bilaterale, fuori dalla Casa bianca, dove è stato accolto da una piccola folla di siriani della diaspora in festa.
L’incontro è durato almeno un’ora e mezzo, tanti i temi sul tavolo. A partire dall’adesione di Damasco alla coalizione anti-Isis accanto a un’ottantina di paesi, un atto molto più che simbolico: serve a Washington per ribadire l’espulsione di Mosca, che da protettrice del precedente regime si era assicurata la presenza militare sulla costa mediterranea. A ciò si aggiunge la prossima presenza militare statunitense in una base aerea siriana alle porte della capitale, area da demilitarizzare per poter lanciare una sorta di patto di non aggressione con Israele. In attesa di dettagli, tale presenza significa cooperazione militare tra forze siriane e Usa: il migliaio di marines oggi nel paese hanno finora sostenuto le Syrian Democratic Forces, le unità di autodifesa del nord-est siriano a guida araba e curda, che Washington preme perché siano integrate nel nuovo esercito nazionale.
MA SOPRATTUTTO sul tavolo c’erano le sanzioni e la totale rimozione del Caesar Act, l’atto Usa che si rinnova in automatico ogni sei mesi e la cui fine richiede l’approvazione del Congresso. In attesa del via libera – non del tutto scontato anche per l’opposizione dietro le quinte di Israele (una Siria debole, per Tel Aviv, è sempre meglio di una Siria amica) – il Dipartimento del Tesoro ha annunciato ieri la sospensione parziale del Caesar Act per 180 giorni. Restano fuori le transazioni con Russia e Iran.
UNA NOTIZIA di per sé non necessariamente negativa: come
Leggi tutto: Ricostruzione e marines, la dote di al-Sharaa a Trump - di Chiara Cruciati
Commenta (0 Commenti)Oggi un Lunedì Rosso dedicato al dentro e fuori.
Dentro il civico 26 di Federal Plaza, sede del tribunale dell’immigrazione di New York, un reportage racconta l’angoscia dei migranti che attendono un verdetto circondati dagli agenti dell’Ice in passamontagna.
Sulla soglia tra dentro e fuorii si trovano invece 1600 lavoratori e lavoratrici delle regioni del sud Italia che rischiano il licenziamento dai call center di Tim.
Fuori dalle stanze del consumo e dalle altre politiche attive di riduzione del danno, è dove resta l’Italia, dove sulle droghe continua a prevalere la soluzione repressiva.
Nella foto: Sostenitori di Zohran Mamdani durante la notte elettorale a New York, via Ap
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Commenta (0 Commenti)Terra rimossa Gli Usa sarebbero al lavoro per emarginare Tel Aviv e coinvolgere le agenzie evangeliche
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Corpi di palestinesi non identificati restituiti da Israele e giunti all’ospedale Nasser di Khan Younis – foto Ap
Le strategie di gestione e di controllo della Striscia di Gaza dettate dagli Stati uniti non si distanziano in maniera significativa dai piani israeliani. Tuttavia, negli ultimi giorni le dichiarazioni ufficiali sembrano voler interpretare una disarmonia di intenzioni.
SECONDO LE FONTI di The Washington Post, il Centro di coordinamento civile-militare (Cmmc) inaugurato dagli Stati uniti a Kiryat Gat, in Israele, starebbe elaborando nuove strategie per gestire Gaza. Progetti che terrebbero ai margini Tel Aviv. La direzione dell’agenzia è definita da alcuni partecipanti come «caotica e confusionaria». Il presidente Donald Trump sta tentando di ottenere un mandato dalle Nazioni unite affinché gli si riconosca ufficialmente controllo e gestione di Gaza. Nonostante gli Stati uniti abbiano mortificato in tutti i modi l’Onu in quanto istituzione, mettendo in discussione la sua indipendenza e accusando le agenzie di «terrorismo pro-Hamas», oggi Trump si rivolge proprio alle Nazioni unite in cerca di legittimazione.
È UN PASSAGGIO che hanno preteso, in coro, quasi tutti i Paesi arabi coinvolti nella forza internazionale di stabilizzazione (Isf), quella che dovrà controllare la Striscia, assicurare il disarmo di Hamas e la distruzione delle sue infrastrutture. Tutto sempre sotto il controllo diretto di Trump e del suo «Board of Peace».
Attualmente Washington starebbe valutando la gestione degli aiuti umanitari, che vorrebbe centralizzare, ridimensionando in parte il ruolo di Tel Aviv. Le fonti americane starebbero tracciando una linea di confine tra le proprie competenze e quelle dell’alleato: gli israeliani fanno ancora «parte del discorso» ma le decisioni saranno prese dell’organismo a guida statunitense, ha dichiarato un funzionario Usa, in condizione di anonimato, al Washington Post. La misura comporterebbe un ridimensionamento del ruolo di Israele nelle decisioni riguardanti la tipologia e l’ingresso dei soccorsi a Gaza. Del Cmmc farebbero parte 40 tra Paesi e organizzazioni internazionali, tra cui agenzie che conoscono la situazione umanitaria della Striscia e che hanno denunciato le limitazioni israeliane e quelle del «dual use». Tel Aviv non sembra essere d’accordo con Washington: «Va sottolineato che questo non costituisce un trasferimento di autorità o responsabilità agli americani», hanno dichiarato funzionari israeliani, spiegando che non c’è stato «nessun cambiamento nella politica», e che l’ispezione, gli articoli a «doppio uso», e l’ingresso degli aiuti «saranno effettuati esclusivamente da organizzazioni internazionali approvate da Israele».
MA È PROBABILE che questa diatriba sia in realtà solo un «teatrino» per ottenere l’avallo Onu: gli Stati uniti si mostrano collaborativi sulla gestione degli aiuti umanitari e Israele interpreta la parte offesa. È chiaro però che gli interessi dei due alleati viaggiano sullo stesso binario. Gli Usa hanno già dichiarato che intendono affiancare all’Onu agenzie evangeliche come la Samaritan’s Purse, amministrazioni simili alla Ghf, la fondazione israelo-statunitense che ha trasformato in trappole letali la fornitura degli aiuti umanitari.
Siamo quasi a un mese dall’inizio del cessate il fuoco e si discute ancora di cosa dovrebbe entrare a Gaza. La popolazione, intanto, continua a morire di stenti, di malattie e di bombe. L’Organizzazione mondiale della sanità ha chiesto di nuovo di garantire un corridoio umanitario per i feriti e i malati gravi che necessitano di cure che non possono ricevere nella Striscia. È l’ennesimo appello affinché venga aperto a tutta le evacuazioni mediche il valico di Rafah. Secondo l’Onu circa 16.500 attendono di essere trasportate e curate all’estero.
L’ESERCITO HA DICHIARATO di aver aperto il fuoco contro due persone che avrebbero superato la «linea gialla» al nord, una nel sud. Almeno due sono rimaste uccise. Sempre ieri, un bambino palestinese è rimasto ucciso da un ordigno inesploso sganciato dai velivoli israeliani nella Striscia. Intanto, Hamas ha dichiarato di aver recuperato il corpo di Hadar Goldin, il militare israeliano ucciso e rapito nel 2014. La consegna dei resti potrebbe salvare la vita a circa 200 combattenti bloccati nei tunnel nei pressi di Rafah.
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