Al fronte Oltre armi e geopolitica un altro fattore grava sul conflitto in Ucraina: la stanchezza. E in Germania è un caso il libro di Ole Nymoen che promette: non combatterò mai per il mio paese
Reclute dell’esercito ucraino a Kiev – Sergei Chuzavkov /Ap
Che la guerra in Ucraina abbia da tempo assunto i tratti di una carneficina di lunga durata con altissime perdite umane su entrambi i fronti è ormai sotto gli occhi di tutti. L’attenzione, tuttavia, è sempre stata concentrata soprattutto sugli armamenti, sulla loro potenza, sulla quantità, qualità e celerità delle forniture militari all’esercito di Kiev. Eppure vi è un fattore altrettanto se non più decisivo che grava sui destini del conflitto: la stanchezza di guerra, un senso del dovere oramai spossato e fatalista, l’umore apatico o insofferente indotto da combattimenti senza fine di cui molte cronache e reportage riferiscono. E che certamente ritroveremmo, se solo fosse possibile rilevarlo nonostante la censura e la minaccia di repressione, sul versante russo.
Sebbene il fenomeno si manifesti più intensamente laddove il ricambio di uomini è più limitato e problematico, resta comunque su entrambi i fronti un indicatore socialmente rilevante.
SAPPIAMO DA DIVERSE fonti di un numero esorbitante di renitenti e disertori dalla parte dell’Ucraina, ma non dovrebbe essere minore, seppure più difficilmente documentabile, sul versante degli invasori. Tanto più è imponente il fenomeno, tanto meno l’informazione ufficiale ne parla e il dibattito pubblico ne prende atto. E non solo, come è ovvio, nei paesi belligeranti affamati di combattenti, ma anche in un’Europa che vuole attrezzarsi per la guerra, oltre che stanziando cifre esorbitanti per il riarmo, anche riconducendo la dimensione bellica nell’orizzonte mentale dei suoi cittadini e predicando ai giovani un patriottismo disposto al sacrificio, nonché una indole che non rifugga da un qualche spirito guerriero.
Sullo sfondo il dibattito sul ripristino della leva obbligatoria, in varia forma e misura, tornato nell’agenda politica e nella propaganda della maggior parte dei governi europei che l’avevano abolita.
È in questo contesto e in un clima alquanto ostile che nel luglio dello scorso anno un giovane giornalista e autore tedesco, Ole Nymoen, pubblicava sul prestigioso settimanale Die Zeit un articolo intitolato «Io, combattere per la Germania? Mai».
Le reazioni di molti lettori alle posizioni antipatriottiche di Nymoen furono indignate, sprezzanti, perfino rabbiose. In buona sostanza si rimproverava all’autore, spesso estendendo l’accusa a un’intera generazione, di coltivare un egoismo viziato e poltrone, accomodandosi nelle conquiste del passato senza voler muovere un dito per difenderle. Nymoen ha così deciso di articolare e argomentare distesamente le sue posizioni in un libro uscito il mese scorso peri tipi dell’editore Rowohlt, con il titolo Perché non combatterei mai per il mio paese, rapidamente divenuto un best seller nonché oggetto di scandalizzate polemiche.
LO SCRITTO PRENDE le mosse dalla denuncia del gigantesco programma di riarmo tedesco e della martellante propaganda che lo accompagna, intenta a demolire pezzo dopo pezzo il senso comune pacifista del dopoguerra. La classe politica che oggi reclama unità nazionale e solidarietà patriottica per la difesa del paese da una presunta minaccia, sostiene Nymoen, è la stessa che per decenni, e ora più che mai, ha lavorato a demolire la solidarietà sociale, acuire le diseguaglianze, proteggere i profitti e la rendita finanziaria a spese dei più disagiati. A questa pretesa, che sospinge il male solo e comunque oltre confine, ci si deve dunque sottrarre. È una tesi classica del pensiero critico rivoluzionario e internazionalista che nell’unità fittizia della nazione, portata all’estremo da una condizione di guerra, vengano negate e occultate le diseguaglianze, le contraddizioni di classe e la gerarchia dei poteri.
Senza contare che sulla linea del fronte ci finiscono soprattutto i più poveri e socialmente marginali e chi comunque la guerra e le modalità del suo svolgimento non le ha certo decise. Sono stati segnalati non pochi casi di ferventi nazionalisti ucraini che si sono assicurati in un modo o nell’altro l’esenzione dal servizio militare, mentre le squadre di reclutatori catturavano i renitenti per strada con gli stessi brutali metodi della marina militare britannica nel diciottesimo secolo. Sul piano della costrizione a combattere e morire Nymoen non fa distinzione tra aggressori e aggrediti. Entrambi, non avendo potuto né gli uni né gli altri disporre di alcun potere decisionale, hanno il diritto di anteporre la salvaguardia della propria vita alla causa patriottica. E cioè a una difesa «non dei combattenti, né dei civili, ma del dominio statale vigente».
QUANTO A LUI medesimo non nutre dubbi: se la Bundeswehr tentasse di arruolarlo fuggirebbe e se non gli fosse possibile riuscirci cercherebbe di farsi destinare a compiti civili nelle retrovie. E ad ogni buon conto, meglio invasi che morti. Che la vittoria dello straniero comporti un passaggio dalla libertà alla schiavitù sarebbe infatti opinabile, almeno quanto l’effettività della libertà che il nostro stato ci consente. Nymoen procede per affermazioni nette e perentorie, che nei dibattiti e nelle interviste pronuncia con cortese pacatezza e alle quali gli interlocutori spesso faticano a replicare con solidi argomenti.
Alla domanda ricorrente nella retorica politica e mediatica su cosa avrebbe fatto l’autore di fronte a una invasione hitleriana, replica sottolineando il ricorso inflazionato alle reciproche accuse di nazismo e la loro vera funzione: screditare l’avversario fino al punto da escludere ideologicamente qualsiasi soluzione diplomatica del conflitto. Quella di Hitler, spiega, è stata una guerra che aveva come scopo in sé e non come mezzo lo sterminio della popolazione, l’acquisizione di territorio “ripulito” dei suoi abitanti non ariani. Non contemplando dunque la resa come possibilità di salvezza questo esempio estremo ricadrebbe del tutto al di fuori dalla sua argomentazione e dalle concrete circostanze dei conflitti in corso.
LA CRITICA DI NYMOEN ha in realtà come oggetto principale non la guerra, ma lo stato nazionale che ne è il legittimo promotore. Lo chiarisce con una esplicita avvertenza fin dall’introduzione del suo scritto: «Chi spera in appelli per la pace e consigli costruttivi rivolti ai governanti degli stati, può serenamente mettere da parte questo libro». Il rapporto con la guerra è per lui strettamente legato al rapporto con la statualità, che vede «caratterizzata da un esercizio permanente della violenza all’interno come all’esterno». La diserzione dall’esercito corrisponde dunque a una diserzione, che logicamente la precede: quella da ogni lealtà coatta nei confronti dello stato nazionale. E si può capire quanto questo punto di vista risulti urticante in un paese tutto proiettato a restaurare pienamente e senza più remore quelle prerogative sovrane (e militari) che gli esiti della seconda guerra mondiale avevano imposto alla Germania di limitare.
Gli indignati critici delle tesi di Nymoen sono soprattutto cittadini che non rischierebbero più di finire in trincea. Tuttavia i sondaggi tra i giovani tedeschi in età di leva, ma anche tra quelli del resto d’Europa, tra coloro cioè che a combattere sarebbero direttamente chiamati, sembrano invece confermare quella chiara distanza tra la propria vita, le proprie aspirazioni e lo spirito patriottico e sacrificale della propaganda governativa. Una distanza che il pamphlet di Nymoen rivendica. E se fossero allora proprio la stanchezza di guerra, l’insofferenza e la sottrazione a disseccare ed estinguere la guerra? In fondo è una eventualità non più improbabile della partita spartitoria giocata tra Trump e Putin.
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Infedeli alla linea Amici e non: i "grandi" del mondo in fila per rendere omaggio al pontefice scomparso. C’è Trump, e Meloni sogna un vertice Usa-Europa. Anche Zelensky spera di sfruttare l’occasione per riaprire il dialogo con la Casa bianca. Il presidente argentino Milei in prima fila: «Nonostante le differenze, che oggi sono poca cosa»
San Pietro si prepara ad accogliere i funerali di Bergoglio – Ansa
«Non vediamo l’ora di esserci». Con l’entusiasmo di chi ha appena accettato l’invito a un party, i coniugi Trump sono stati i primi a confermare la loro presenza ai funerali di papa Francesco, sabato, in piazza San Pietro. E dunque ci si interroga con ansia, come se fosse un G7 qualsiasi, sulle possibilità che a margine della cerimonia si possa orchestrare un vertice Usa-Ue sulla questione dei dazi, con corollario di incontri bilaterali.
MELONI padrona di casa lavora per questo, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa non escludono. Cioè ci sperano, malgrado l’agenda stretta del presidente Usa che impantanato sul fronte ucraino potrebbe-vorrebbe fare qualcosa anche su questo.
L’unica certezza è che la presenza più ingombrante sarà quella di Donald J. Trump. Per le dimensioni monstre dell’entourage, certamente. Per l’effetto glamour del primo blitz all’estero dopo la rielezione, sicuro. Per il contrasto abissale tra i due profili, venendo alla sostanza, e dunque alle orecchie-da-mercante in chief che Donald J. Trump ha sistematicamente contrapposto alle «deprecabili» idee di Francesco sui migranti e altro, già prima di insediarsi una prima volta alla Casa bianca. E tanto più oggi, fino a ieri.
POCA COSA, si dirà, rispetto al fossato ideologico tra il papa e l’attuale presidente argentino, pure ricevuto con cordialità in Vaticano nel febbraio 2024 e in partenza già giovedì con un bel pezzo del suo governo turbo-liberista al seguito. Javier Milei fu tra i primi a riservare a Bergoglio l’onore di chiamarlo «comunista», per poi dargli la responsabilità di «rappresentante in terra del maligno». Nel post in cui anche lui non vede l’ora di esserci si onora di averne conosciuto «la bontà e la saggezza». Le differenze? «Oggi risultano – appunto – poca cosa».
Al suo fianco ci saranno Karina Milei, segretaria nazionale della Presidenza per volere del fratello-presidente e la ministra della Sicurezza Patricia Bullrich, nota per lo zelo con cui si sta accanendo sulle stesse fasce sociali, le stesse periferie a cui il papa morto ha consacrato un pezzo consistente della sua vita e della sua azione pastorale. Non saranno i soli, sabato, a battersi il petto davanti al feretro di un papa come questo, cioè come non se ne dovrebbe mai più fare un altro, fosse per loro.
NON CI SARANNO i due capi di stato su cui pende un mandato di cattura internazionale emesso dalla Corte penale dell’Aja: Netanyahu non perché tema l’arresto, Vladimir Putin perché «non è nei suoi piani», ha detto ieri il portavoce Dmitry Peskov. Il “suo” pensa di averlo fatto con i superlativi di cordoglio inviati il giorno prima ai vertici vaticani. Né ci sarà il suo braccio spirituale Kirill, patriarca ortodosso di Mosca e di tutta la Russia, che ieri ha raccontato di come il pontefice abbia resistito a «forti pressioni» del suo entourage per «gelare i rapporti con la Chiesa russa».
Tra i leader che anche aspirano a cogliere l’occasione per interloquire con Trump ci sarà invece il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, reduce dalla scomoda visita in Sudafrica che lo attende domani.
SULLA GUERRA non sono state affatto «poca cosa» le parole e i fatti che Bergoglio ha impiegato per indicare la pace possibile. Inascoltato da russi, ucraini, europei e statunitensi in perfetta quadrifonia.
Altra zona sensibile del parterre funebre di sabato è quella in cui prenderà posto la delegazione «ad alto livello» di Taiwan. La Cina ha inviato le sue condoglianze solo ieri, ribadendo il clima collaborativo esistente con la Santa Sede, nulla di più per ora.
Molte altre presenze sono state confermate, aggravando i grattacapi logistici e securitari delle autorità italiane. In lista tra gli altri Lula, Macron, Starmer, Scholz e il presidente tedesco Steinmeier, i leader di Portogallo, Polonia, Austria eccetera. Sánchez si nota di più non verrà, al suo posto le due vice premier María Jesús Montero e Yolanda Díaz.
DALLA SPAGNA sono in arrivo anche Felipe e Letizia, ma l’abituale sfilata di reali include anche Filippo e Matilde dal Belgio, il principe William e il “Capo della Real Casa di Savoia e Gran Maestro degli Ordini Dinastici della Real Casa di Savoia”, detto anche principe Emanuele Filiberto. A Roma prezzi folli per una stanza, il Codacons pattuglia le strade della capitale.
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Festa della Liberazione Musumeci chiede «sobrietà» ma il tentativo non riesce: cortei confermati da Roma a Milano
Manifestazione in occasione delle celebrazioni del 25 aprile 79.mo anniversario della Liberazione svoltasi a Roma nel 2024 – LaPresse
La festa per la Liberazione è sempre fonte di imbarazzo per il governo Meloni. E dire che quest’anno lo staff della premier si era mosso per tempo per trovare un escamotage che liberasse Giorgia Meloni dall’obbligo istituzionale di celebrare il 25 aprile. L’agenda della presidente del Consiglio la vedeva in partenza per Samarcanda. «Viaggi di stato inderogabili», avevano commentato da Palazzo Chigi quando si faceva notare la fortunata, per Meloni, coincidenza. L’improvvisa morte di Bergoglio ha costretto la premier a posticipare la partenza, ma i suoi consiglieri possono lo stesso gongolare. Raro trovare migliore ribalta che i funerali di un papa con i capi di stato stranieri, inclusi il presidente degli Stati Uniti Trump e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Ancora più rara l’opportunità di oscurare la Liberazione dal Nazifascismo.
IERI IL CONSIGLIO dei ministri si è riunito per avviare la macchina organizzativa: ha deliberato cinque giorni di lutto di stato. Un afflato notevole, sembra di Meloni in persona, se si considera che per i precedenti tre pontefici erano stati solo tre. In mezzo, fatalità, c’è l’80esimo anniversario della Resistenza. E i ministri, sebbene coinvolti dal lutto, lo hanno avuto ben presente. Tant’è che alla fine del cdm il ministro per la Protezione civile, Nello Musumeci ha sottolineato che, sebbene siano state sospese le partite di calcio (ma non i concerti, Jovanotti si esibirà a Roma proprio in questi giorni), le cerimonie per il 25 aprile saranno «consentite, tenuto conto del contesto e quindi con la sobrietà che la circostanza impone». Il lutto di stato finora imponeva bandiere dei palazzi pubblici a mezz’asta e una riduzione degli eventi ufficiali del governo, non il divieto di commemorare una data fondativa della democrazia. Ma in ogni caso Palazzo Chigi ieri ha nominato il capo della Protezione civile, Fabio Ciciliano, commissario ai funerali papali e al conclave. Ciciliano potrà «operare in deroga ad atti di indirizzo che disciplinano l’organizzazione di manifestazioni pubbliche ad alto impatto».
L’INVITO ALLA SOBRIETÀ ha fatto saltare dalla sedia le associazioni antifasciste e i partiti di centrosinistra. «È più forte di loro, anche stavolta – ha accusato Nicola Fratoianni di Avs – un’allergia alla liberazione dal fascismo e dal nazismo traspare da chi in questo momento occupa Palazzo Chigi». Angelo Bonelli di EuropaVerde ha ricordato a Musumeci che il 25 aprile «non è una festa in discoteca o un happy hour». Anche Giovanni Barbera, di Prc ha attaccato: «Non accetteremo mai che chi non ha mai fatto i conti con il proprio passato provi a mettere il bavaglio alla memoria collettiva: il 25 aprile non si autorizza, si celebra». «Forse Musumeci è abituato alla sobrietà di Salvini, che fino a ieri indossava magliette anti Bergoglio, nostalgiche di Ratzinger, con scritto “Il mio Papa è Benedetto”», ha affermato il segretario di PiùEuropa, Riccardo Magi. E l’Aned (Associazione nazionale ex deportati), si è detta sconcertata: «È una cosa sfacciata, surreale, un modo assurdo di strumentalizzare un lutto vero che condividiamo».
L’ANPI, che ieri festeggiava anche l’aumento degli iscritti rispetto allo scorso anno e la buona salute dell’associazione, ha confermato gli appuntamenti previsti in tutta Italia, pur nel cordoglio per il pontefice, la cui morte è stata «una gravissima perdita per gli antifascisti che hanno condiviso le sue parole di pace e di fratellanza su scala universale».
DUNQUE IL PRESIDENTE della Repubblica, Sergio Mattarella, sarà come previsto a Genova per celebrazioni ufficiali (in forse la presenza del
Leggi tutto: Il governo usa il lutto di Stato per oscurare la Liberazione - di Luciana Cimino
Commenta (0 Commenti)Il giudice accoglie il ricorso presentato dal gruppo di cittadini: stop agli abbattimenti fino almeno a metà maggio L'esultanza del gruppo ambientalista in difesa dei pini di Lido di Savio (foto Massimo Argnani)
top agli abbattimenti, almeno fino al 15 maggio. Questo è quanto disposto dal giudice del Tar dell'Emilia Romagna rispetto all'ultimo ricorso presentato dal gruppo di cittadini "Salviamo i pini di Lido di Savio e Ravenna" per fermare gli abbattimenti di pini su viale Romagna. Esultano gli ambientalisti, sostenuti nei giorni scorsi anche da Italia Nostra e da 5 candidati sindaco di Ravenna (Ancisi, Grandi, Iannucci, Morgese e Verlicchi), che sostenevano il proprio dissenso rispetto all'ordinanza di abbattimento emanata dal Comune di Ravenna. Proprio questa mattina ambientalisti, forze dell'ordine e ditta esecutrice dei lavori erano presenti sul viale in attesa delle disposizioni del tribunale regionale.
Va avanti dunque il 'braccio di ferro' tra il gruppo di cittadini e Palazzo Merlato sui pini che sorgono nel viale principale della località, dove è in programma l'intervento di riqualificazione del Parco Marittimo. Secondo il Tar, infatti, "non sono indicate ragioni di urgenza che non consentono di differirne l’esecuzione (ovvero l'abbattimento degli alberi, ndr) all’esito della decisione collegiale" che si terrà appunto il prossimo 15 maggio. A metà del prossimo mese quindi la questione sarà nuovamente dibattuta e si deciderà del futuro degli alberi.
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Pini di Lido di Savio, accolto il ricorso contro gli abbattimenti: esultano gli ambientalisti
https://www.ravennatoday.it/cronaca/pini-lido-savio-accolto-ricorso-stop-abbattimenti.html
© RavennaToday
Chiesa L'annuncio, nel corso di una diretta da casa Santa Marta, è stato dato dal cardinale Kevin Farrell. Il Pontefice è deceduto questa mattina alle 7.35. Mattarella: "Il suo insegnamento ha richiamato alla solidarietà tra gli uomini, alla cooperazione internazionale, alla pace nell’umanità"
Un fedele tiene in mano un ritratto di Papa Francesco nella Basilica di San José de Flores di Buenos Aires, dove Bergoglio pregava da giovane – Gustavo Garello/AP
Papa Francesco è morto. Ad annunciarlo nel corso di una diretta da casa Santa Marta, è stato il cardinale Kevin Farrell con queste parole: “Carissimi fratelli e sorelle, con profondo dolore devo annunciare la morte di nostro Santo Padre Francesco”. “Alle ore 7.35 di questa mattina il Vescovo di Roma, Francesco, è tornato alla casa del Padre. La sua vita tutta intera è stata dedicata al servizio del Signore e della Sua chiesa. Ci ha insegnato a vivere i valori del Vangelo con fedeltà, coraggio ed amore universale, in modo particolare a favore dei più poveri e emarginati. Con immensa gratitudine per il suo esempio di vero discepolo del Signore Gesù, raccomandiamo l’anima di Papa Francesco all’infinito amore misericordioso di Dio Uno e Trino”.
Domenica, nel giorno di Pasqua, l’ultimo messaggio “Urbi et Orbi” di Papa Francesco è stato un monito contro le guerre e per la pace. Si è detto “vicino alle sofferenze” di “tutto il popolo israeliano e a tutto il popolo palestinese”. Ha rivolto un pensiero “alla popolazione di Gaza”. Ha fatto appello “alle parti belligeranti: cessate il fuoco, si liberino gli ostaggi e si presti aiuto alla gente, che ha fame e che aspira ad un futuro di pace!”. E ancora: ha messo al centro delle sue preghiere le violenze e i conflitti in Repubblica Democratica del Congo, in Sudan e Sud Sudan. Quindi, si è scagliato contro la “corsa generale al riarmo”.
Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo! L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo. Papa Francesco
Commenta (0 Commenti)“Ho appreso con grande dolore personale la notizia della morte di Papa Francesco, avvertendo il grave vuoto che si crea con il venire meno del punto di riferimento che per me ha sempre rappresentato”. Queste le parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un video pubblicato dal Quirinale. “La morte di Papa Francesco suscita dolore e commozione tra gli italiani e in tutto il mondo. Il suo insegnamento ha richiamato al messaggio evangelico, alla solidarietà tra gli uomini, al dovere di vicinanza ai più deboli, alla cooperazione internazionale, alla pace nell’umanità. La riconoscenza nei suoi confronti va tradotta con la responsabilità di adoperarsi, come lui ha costantemente fatto, per questi obiettivi”.
In segno di lutto, la Presidenza del Consiglio dei ministri ha disposto l’esposizione a mezz’asta delle bandiere sugli edifici della Presidenza. Contestualmente, è stata data comunicazione della disposizione agli organi costituzionali, alle prefetture, alle rappresentanze diplomatiche e consolari all’estero, nonché alle forze armate e alle forze di polizia.
Toccanti le parole di Barack Obama, che su X, postando una foto del suo incontro con Bergoglio, ha scritto: “Papa Francesco è stato il raro leader che ci ha fatto desiderare di essere persone migliori. Con la sua umiltà e i suoi gesti semplici e profondi al tempo stesso – abbracciare i malati, assistere i senzatetto, lavare i piedi ai giovani detenuti – ci ha scosso dal nostro compiacimento e ci ha ricordato che siamo tutti legati da obblighi morali verso Dio e gli uni verso gli altri”.
“Oggi, Michelle ed io – aggiunge – siamo in lutto con tutti coloro che in tutto il mondo, cattolici e non, hanno tratto forza e ispirazione dall’esempio del Papa. Continuiamo ad ascoltare il suo invito a non rimanere mai ai margini di questa marcia di speranza viva”.
A raccontarvi il manifesto di oggi è il direttore, Andrea Fabozzi. Approfondisci
É nato il primo podcast quotidiano del manifesto. Si chiama “Una mattina” (se oltre all’attacco di Bella ciao vi ricorda una nostra celebre prima pagina, siete nel giusto) e vi racconta il giornale davanti e dietro le quinte.
Ogni mattina giornaliste e giornalisti della redazione vi parleranno dei contenuti dell’edizione del giorno, a partire dalla scelta del titolo e della foto di prima pagina.
Lo registreremo a tarda sera, dopo aver mandato in stampa l’edizione cartacea, e qualche volta all’alba; voi potrete ascoltarlo su ilmanifesto.it e su tutte le piattaforme di streaming dalle prime ore del mattino.
“Una mattina” funzionerà come una rassegna stampa, parecchio informale, tutta dedicata al nostro manifesto.
Sarà un nuovo canale per seguire il nostro lavoro giornalistico ma anche l’occasione per svelare un po’ del manifesto, dall’interno del manifesto.
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