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Città Il voto del consiglio comunale di Riace

Lucano resta sindaco. No alla decadenza Mimmo Lucano – Ap

Mimmo Lucano re sta sindaco di Riace. Almeno per ora. Il consiglio comunale infatti ha respinto la pratica di decadenza del primo cittadino avviata dalla Prefettura di Reggio Calabria, dopo la condanna definitiva a 18 mesi per falso (con pena sospesa) arrivata a metà febbraio. È l’unico capo di imputazione sopravvissuto al giudizio supremo della Cassazione, alla fine di un lunghissimo processo in cui veniva messa in discussione la regolarità dell’intero sistema dell’accoglienza a Riace. Ma tanto è bastato al ministero dell’Interno per chiedere la decadenza del sindaco, provando a far rientrare il caso Lucano tra le fattispecie regolate dalla legge Severino. Per il Viminale l’eurodeputato di Avs era incandidabile. Eppure, il falso materiale per cui il sindaco è stato condannato non rientrerebbe nella casistica normata dalla Severino, a meno di eventuali forzature interpretative della legge che lascia comunque alcuni margini di manovra al ministero.

E dopo il no alla decadenza opposto dal Consiglio comunale la palla ripassa nel campo della Prefettura, che adesso potrà attivare l’azione popolare contro il sindaco in base all’articolo 70 del Tuel: un ricorso davanti al giudice civile contro il quale Lucano potrà comunque opporsi. «Spero che la vicenda si chiuda qui», commenta Lucano «ma se la Prefettura, come ha già annunciato, promuoverà l’azione popolare, ovviamente cercherò di far valere le mie ragioni in tutte le sedi opportune che la legge mi consentirà».

La battaglia a colpi di carte bollate potrebbe dunque essere appena iniziata. Ma la notizia ha già mandato in tilt le solide basi garantiste di un forzista d’eccezione: il capo dei senatori azzurri Maurizio Gasparri. «È assurdo il voto del consiglio comunale che ha bocciato la decadenza di Mimmo Lucano, sindaco di Riace. Parliamo di una persona per la quale la giustizia ha fatto tutto il suo corso, condannandola in via definitiva a 18 mesi per il reato di falso», dice il senatore. Che poi aggiunge un po’ di fantasia alle evidenze processuali: «Parliamo di un’inchiesta che ha fatto emergere la gestione, a dir poco opaca, dei fondi pubblici destinati all’accoglienza degli immigrati, con milioni di euro che il comune di Riace avrebbe versato a società non qualificate». Dunque: «Ci chiediamo se le sentenze per loro vadano rispettate solo quando colpiscono i loro avversari politici». Bisognerebbe anche chiedersi che fine abbia fatto il garantismo di Gasparri e l’altrettanto solida ostilità alla legge Severino, definita a più riprese da forzizisti di ogni latitudine: «Mordacchia giustizialista».

 

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«Pausa immediata di 90 giorni» ai super-dazi mondiali: Trump non regge, il rogo dei mercati tocca i buoni del Tesoro, dire «mi baciano tutti il culo» non basta. Sotto tiro resta il vero nemico, la Cina: «Per lei tariffe al 125%». Vola Wall Street, qualcuno ci ha fatto miliardi

Cul de sac Il rogo dei mercati tocca i buoni del tesoro, clamorosa giravolta del presidente. Che attacca solo Pechino: «Per loro tariffe al 125%»

Trump non regge più: «Pausa di 90 giorni» ai super-dazi mondial La borsa di New York – Getty Images

I Donald Trump ha annunciato 90 giorni di sospensione sui dazi per circa 75 partner commerciali (fatta eccezione per la Cina che ha «meritato» un trattamento a parte), operando un’inversione di tendenza improvvisa della sua politica commerciale che per una settimana ha scosso il mercato globale. «Bisogna essere flessibili», ha detto durante la conferenza stampa pomeridiana alla Casa bianca per giustificare l’inversione di marcia. Annunciata poche ore prima con un post su Truth Social: sospensione dei dazi del Liberation day, entrati in vigore durante la notte, a eccezione delle «tariffe di base» del 10%.

L’ANNUNCIO ha provocato un altrettanto repentino dietrofront dei mercati che stavano avendo un’ennesima giornata nera. Le azioni stavano crollando, i mercati asiatici erano scesi precipitosamente, quelli europei avevano subito la stessa sorte, l’S&P 500, indice azionario di riferimento degli Stati uniti, era quasi precipitato nel bear market (-20% in meno rispetto al picco precedente), accompagnato da una flessione del dollaro. Per tutta la mattina erano arrivate brutte notizie anche dai rendimenti dei titoli di Stato, tradizionalmente considerati un porto sicuro in periodi di incertezza, che erano notevolmente aumentati.

IN GENERE azioni, obbligazioni e dollaro non attraversano contemporaneamente momenti di crisi, ma questi non sono tempi normali.
Il crollo del mercato rifletteva la preoccupazione che i dazi potessero arrivare ad interrompere le catene di approvvigionamento alimentare globale, alzare fare alzare l’inflazione e innescare una recessione economica disastrosa.
Il tycoon intanto rimaneva pubblicamente imperturbabile: «SIATE COOL! – ha scritto su Truth Social mercoledì mattina -Tutto andrà per il meglio. Gli Stati uniti saranno più grandi e migliori che mai!».

SU DI LUI, però, iniziavano a pesare anche i primi segnali di insofferenza da parte di alcuni fedelissimi trumpiani: «Non sono un sostenitore dei dazi. I dazi sono una tassa sul popolo americano», aveva detto martedì il senatore ultra destrorso Ted Cruz. Il senatore Gop Ron Paul aveva votato simbolicamente per bloccare il potere di Trump di imporre dazi sul Canada, affermando che le turbolenze del mercato gli dimostrano di non essere l’unico a preoccuparsi per le politiche commerciali del presidente, ma «solo uno dei pochi senatori repubblicani ad aver parlato finora».

La sera prima dell’annuncio Trump, durante un discorso di 90 minuti fatto alla cena annuale di raccolta fondi del Comitato repubblicano al Congresso, aveva difeso la sua strategia dei

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Politica estera La premier negli Usa con la proposta «Dazi zero a zero»

Giorgia Meloni a Washington foto Ap Giorgia Meloni a Washington – Ap

«Le crisi sono sempre un’occasione», dice la premier rivolta ai rappresentanti delle categorie produttive che ha incontrato ieri, divisi per gruppi specifici, a palazzo Chigi. L’occasione va sfruttata su più fronti e il primo è quello interno. Giorgia Meloni propone a tutti, categorie associazioni degli imprenditori e sindacati, «un nuovo patto per fare fronte comune rispetto alla nuova delicata congiuntura». Obiettivo: «Rendere il sistema economico più produttivo e competitivo».

I convenuti, a partire dal presidente di Confindustria Emanuele Orsini, non vogliono parole ma cifre. La prima urgenza è sapere quali risorse può mettere in campo il governo. La premier snocciola miliardi. Il governo italiano chiederà «una revisione del Pnrr». È già stato fatto nel 2023 e stavolta la rimodulazione punta a recuperare 14 miliardi a sostegno di occupazione ed «efficienza della produttività». Poi c’è la riprogrammazione dei Fondi di coesione: dovrebbe portare in cassa 11 miliardi. Infine il Piano sociale per il Clima dell’Unione stanzia 7 miliardi per l’Italia. Dovrebbero servire a ridurre i costi dell’energia. Le risorse ci sono. I rappresentanti delle categorie sono stati chiamati a consulto per decidere come spenderli al meglio. Tutto però Commissione europea permettendo.

Qui interviene la seconda e altrettanto essenziale «occasione» da cogliere offerta dalla crisi, quella che riguarda non l’Italia ma l’Europa. Bisognerà chiedere l’attivazione di un regime transitorio che permetta gli aiuti di Stato alle aziende, oggi proibiti, e ovviamente la flessibilità su Pnrr e Coesione necessaria perché le cifre snocciolate in precedenza non restino un bel sogno. L’occasione non si ferma qui: «Se l’Europa pensa di sopravvivere a questa fase continuando a far finta di niente o a pretendere di iper-regolamentare tutto non sopravviverà». È il momento di far saltare le norme rigide sul Green Deal che «non erano sostenibili ieri e a maggior ragione oggi» e l’eccesso di regole che a conti fatti sono anch’esse «dazi autoimposti». Del bersaglio grosso, il patto di stabilità, Meloni non parla. Provvede il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, cauto ma chiaro: «Il Patto può essere rivisto in caso di emergenza. Non abbiamo fatto proposte ufficiali ma se ne parlerà con i commissari competenti».

Approfittiamo per togliere qui i dazi che ci siamo autoimposti. Penso alle regole ideologiche e non sostenibili del Green deal Giorgia Meloni

La premier ripete quasi parola per parola le valutazioni già esposte nei giorni scorsi: l’impatto dei dazi americani è serio ma riguarda sol o una porzione dell’export italiano. È vero però che bisogna tener conto di altri fattori, l’impatto indiretto come quello sulla produzione tedesca, fortemente interconnessa a quella italiana, e il rischio di un’invasione della produzione cinese tagliata fuori dai mercati Usa, minaccia sulla quale vigilerà una task force europea. Ma la parola d’ordine resta «Niente panico»: per Giorgia Meloni è una minaccia persino più letale dei dazi in sé.

Di sfuggita, ma non certo per distrazione, la premier pronuncia alcune parole particolarmente eloquenti: «La posizione della Ue è propedeutica a una trattativa non escalatoria. Se la posizione fosse stata quella dell’escalation l’Italia non la avrebbe supportata». È una frase che fa il paio con quella di Tajani: «Mi auguro che non si usi nessun bazooka. Dobbiamo lavorare per trovare un accordo con gli Stati uniti». Il paragone con i toni usati del presidente francese Emmanuel Macron, «l’obiettivo è che Trump torni sui suoi passi», dice tutto sulla distanza tra l’approccio dei duri come Francia e Germania e quello delle colombe, stormo guidato proprio dall’Italia.

Dove penderà la bilancia dipenderà in parte dalla missione di Meloni a Washington, fissata non per il 16 ma per il 17 aprile. La premier sarà in veste di rappresentante dell’Europa più che dell’Italia. Tajani ne descrive il compito come quello di «facilitatore» della trattativa in capo alla Commissione. L’obiettivo, riassunto due giorni fa da Meloni con la formula «zero a zero» e concordato con la Commissione europea, è l’abbattimento bilaterale di ogni dazio. Va da sé che la trattativa, se partirà e non è affatto certo, si allargherà alle richieste di acquisti massicci di merci americane: soprattutto armi e gas liquido. Non sarebbe comunque un negoziato facile. Ma se non partirà sarà il bazooka di Macron a tornare in primo piano.

 

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Striscia di sangue I funerali di Ahmed Mansour, terza vittima dell'attacco alla tenda dei reporter. Dallo studio ovale Trump e Netanyahu tornano a magnificare l’idea di pulizia etnica

Fame e bombe, Gaza stretta nella morsa di Israele conta i morti Khan Younis, una vittima dei raid israeliani estratta dalle macerie – Ap

Tantissime persone hanno partecipato, ieri, ai funerali di Ahmed Mansour, il giornalista che era stato gravemente ferito e ustionato nell’attacco israeliano alla tenda dei reporter nel cortile dell’ospedale Nasser, a Khan Younis, nel sud della Striscia. Mansour è rimasto incastrato nel rifugio, e lunghi minuti sono durati i tentativi disperati dei suoi colleghi per salvarlo dalle fiamme che ne stavano avvolgendo il corpo. È sopravvissuto per due giorni in gravissime condizioni e alla fine non ce l’ha fatta. Ahmed è la terza persona morta nell’attacco, insieme al collega Helmi al-Faqawi e a Yusuf al-Khazandar. Nove reporter sono rimasti feriti.

ISRAELE HA RIVENDICATO il bombardamento, dichiarando di aver preso di mira uno dei giornalisti presenti, Hassan Islayeh, descritto dallo stato ebraico come un membro di Hamas. Il numero dei reporter uccisi a Gaza dal 7 ottobre 2023 è salito a 211. Ieri gli attacchi di Tel Aviv hanno fatto decine di vittime, compresa una famiglia di undici persone, di cui quattro bambini, sterminata nel bombardamento all’edificio civile in cui vivevano. Un raid aereo nei pressi di un’università a sud di Gaza City ha ucciso almeno due palestinesi.

Tra lunedì e martedì, in 24 ore circa 58 persone sono state uccise e 213 ferite. Dal 18 marzo Israele ha ammazzato 1.449 palestinesi e ne ha feriti 3.647. In molti sono rimasti intrappolati sotto le macerie e la protezione civile lavora senza sosta ma anche senza mezzi.

«NEMMENO UN CHICCO di grano entrerà a Gaza», ha dichiarato il ministro israeliano delle finanze, Bezalel Smotrich, proprio mentre le organizzazioni internazionali lanciano l’allarme sulla situazione alimentare, diventata catastrofica nella Striscia a causa del blocco umanitario che va avanti da più di cinque settimane. Le scorte di farina ancora presenti non possono essere conservate in maniera adeguata e spesso le famiglie che tra enormi difficoltà riescono a riceverle sono costrette a eliminare vermi e insetti con i setacci.

Ma dove alcuni vedono morte, disumanità, fame e tormento, qualcun altro scorge guadagni e occasioni edilizie. È il caso del presidente Usa Donald Trump, che in conferenza stampa alla Casa Bianca insieme al suo omonimo Israeliano Benyamin Netanyahu, ha ribadito ieri con inquietante naturalezza il suo piano di pulizia etnica: «Sapete cosa penso della Striscia di Gaza. È un incredibile pezzo di una importante proprietà immobiliare e penso sia qualcosa in cui saremo coinvolti».

IL TYCOON ha definito gli Usa una «forza di pace» che dovrebbe possedere la Striscia, e nella rappresentazione di questo suo mondo alla rovescia ha favoleggiato di un Israele che avrebbe regalato Gaza agli abitanti palestinesi e che lo avrebbe fatto addirittura per ottenere la pace. «Non capisco perché Israele ci abbia rinunciato», ha dichiarato con anacronistica sfacciataggine dinanzi al ricercato internazionale seduto al suo fianco, «non è stato quest’uomo [Netanyahu, nda]. Lui non lo avrebbe mai fatto, lo conosco molto bene».

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Germania 1 trilione di euro di debiti per il riarmo fa crollare il consenso della Cdu che ora, secondo i sondaggi, è appaiata ai fascio-populisti di Afd

Merz non è ancora cancelliere ma è già nei guai Il cancelliere in pectore Friedrich Merz – Ap

Il ReArm Germany da 1 trilione di euro di debiti fa crollare il consenso del partito del cancelliere in pectore Friedrich Merz che deve ancora costruire il suo primo governo con la Spd eppure in meno di due mesi è già riuscito a smontare la Cdu.

SUL TAVOLO DEI MASSIMI dirigenti dell’Union democristiana piomba il sondaggio da incubo con la nitida fotografia del disastro politico dell’ex primo partito della Germania.

Secondo l’istituto Insa la Cdu ormai in caduta libera ha perso tutto il vantaggio conquistato alle urne del 23 febbraio e ora si ritrova perfettamente appaiata ai fascio-populisti di Afd: entrambi valgono il 24,5%.

Segue la Spd inchiodata al 16% davanti alla Linke cresciuta fino al 10%, un punto solo in meno dei Verdi. Mentre tutti gli altri, a cominciare dalla stella cadente Sahra Wagenknecht, rimangono al di sotto della quota di sbarramento parlamentare del 5%.

«Per noi si tratta di numeri amari» sibila a denti stretti Thorsten Frei, capo della delegazione Cdu del Bundestag. È la dichiarazione meno pesante fra i vertici del partito incapaci di nascondere il mal di pancia interno che comincia a montare anche dentro la base dopo aver covato nell’ala giovanile del partito, dove il negoziato con la Spd viene già bollato come un mezzo fallimento.

«Dove si vede la nostra firma sull’accordo?» è la domanda provocatoria degli iscritti della sezione di Colonia della Junge Union. Nella bozza preliminare del patto tra Cdu e Spd non leggono la linea dura annunciata urbi et orbi da Merz sui respingimenti collettivi alle frontiere né lo stop definitivo ai contributi statali per la svolta ecologica. Si aggiunge alla sintomatica lamentela del governatore del Saarland, Peter Müller, secondo cui «la voce della Cdu al tavolo delle trattative è troppo silenziosa»

COMPROMESSO O FORSE la solita realpolitik più o meno sottobanco. Del resto la ministra uscente dell’interno Nancy Faeser (Spd) lunedì scorso ha restituito la prova che la Germania non è più la principale meta dei richiedenti asilo: «Per la prima volta da anni non siamo il paese in cui vengono presentate più domande, a marzo ne abbiamo registrate meno di 10mila. Queste cifre riflettono in pieno le misure adottate per limitare l’immigrazione regolare verso l’Europa nel suo complesso».

A sentire il Bamf (l’ufficio tedesco per l’immigrazione) nel primo trimestre del 2025 le richieste di protezione umanitaria sono calate del 45%.

Più dei profughi in Germania fa paura il via libera al deficit pubblico praticamente illimitato. A riguardo il 73% dei tedeschi si ritiene «ingannato» dal repentino cambio di rotta a 360 gradi di Merz ora non più antistatalista di ferro.

Oltretutto nei 1.000 miliardi di euro destinati prevalentemente al riarmo della Bundeswehr sono compresi 100 per il Fondo della difesa del clima: la merce di scambio che la Cdu ha dovuto offrire ai Verdi in cambio del loro voto per affossare il tetto al debito, un doppio pugno nell’occhio per la base democristiana.

«Gli elettori Cdu sono profondamente delusi dalla mancanza di rispetto della promessa scandita nella scorsa campagna elettorale. Merz non ha mantenuto la sua parola che non avrebbe contratto nuovi debiti» sottolinea la politologa Andrea Römmele sulla tv pubblica Zdf.

In queste condizioni «Afd semplicemente non deve fare nulla. Non deve presentare alcun programma, iniziativa o nuovo concetto. In altre parole può partire serenamente per le vacanze di Pasqua, perché la Cdu sta facendo esattamente il suo gioco. È addirittura ipotizzabile che Afd a breve possa diventare la più forte forza politica del paese».

L’UNICA INVERSIONE di tendenza, in teoria, sarebbe la nascita veloce del nuovo governo. A Berlino fonti interne di Cdu e Spd fanno sapere che entro questa settimana dovrebbe concludersi il round di negoziato per la formazione della GroKo a guida Merz, anche se restano ancora molti punti da limare.

Quasi certamente nel patto bipartito sarà fissata nero su bianco anche la risposta tedesca ai dazi di Trump. La ritorsione dovrebbe fare perno essenzialmente sulla digital-tax da applicare ai tecno-oligarchi Usa padrone dei social, in primis a Elon Musk supporter diretto di Afd oltre che proprietario della Gigafactory Tesla nel Brandeburgo.

 

 

 

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Torna il lavoro minorile. In Florida si discutono due leggi per consentire mansioni usuranti e turni notturni a 13 anni. Spacciate per «avviamento» degli adolescenti ai mestieri, servono a riempire i vuoti lasciati dai migranti deportati

Adolescence Due proposte di legge per regolamentare il lavoro minorile fino a 13 anni. Per mansioni usuranti, turni notturni e oltre le 8 ore

Manca manodopera migrante. Florida: «Lavorino i bambini» Un ragazzo guida il trattore nella fattoria di famiglia – Jim Suhr/Ap

In Florida si stanno discutendo in questi giorni due proposte di legge che riguardano la regolamentazione del lavoro minorile. Secondo queste leggi, i ragazzi a partire dai quattordici anni potrebbero lavorare su turni superiori a otto ore senza pause pranzo, oppure svolgere mansioni usuranti in turni di notte, dalle undici di sera alle sei del mattino, in qualsiasi giorno della settimana anche durante l’anno scolastico. Inoltre, anche i tredicenni potranno essere assunti legalmente a patto che abbiano già finito le scuole medie e che compiano gli anni entro il 31 dicembre. Questo avviene in uno Stato in cui la media dell’abbandono scolastico è del 20% (in alcune contee supera il 40%), oltre ottantamila minori sono già impiegati come lavoratori e le violazioni delle leggi sul lavoro minorile sono più che triplicate negli ultimi sei anni.

I PROVVEDIMENTI sono stati presentati da Monique Miller, membra del Senato della Florida, come «un modo per ridurre le barriere che impediscono agli adolescenti di imparare un mestiere e di prepararsi alla vita». La stessa Miller ha dichiarato che a spingere per l’inserimento della norma sull’assunzione dei tredicenni sarebbe stato Randy Fine, repubblicano neoeletto al Congresso e fedelissimo di Trump. Secondo Miller, «la moglie di Fine ha chiamato e ha detto: “Nostro figlio vuole poter lavorare durante l’estate. Questo ha perfettamente senso, ma sfortunatamente il suo compleanno è alla fine dell’anno: è possibile permettergli non perdere l’estate per lavorare?”».

IN REALTÀ, al netto degli interessi personali di Fine, i repubblicani vedono questi provvedimenti come parte di un processo per riempire il vuoto lasciato dalle espulsioni di migranti irregolari, impiegati a migliaia in tutto lo Stato. A partire dal 2023 i datori di lavoro sono obbligati a verificare lo status di immigrato regolare dei propri dipendenti e di notificarlo al governo locale, pena una multa di mille dollari al giorno fino all’adempimento della richiesta. Questo, insieme agli ultimi provvedimenti di Trump, ha spinto ad andarsene molti fra gli irregolari non ancora deportati. L’idea dei repubblicani è di sostituire questi migranti, che spesso svolgevano lavori notturni, sottopagati, senza diritti, con giovane manodopera locale. A metterlo in chiaro è stato lo stesso Ron DeSantis, governatore della Florida, durante un incontro con Tom Homand, lo “zar del confine” di Trump, l’uomo a capo di tutto il programma di deportazioni. Ospite del New College of Florida, DeSantis ha affermato: «Perché importare stranieri, anche illegalmente, quando i ragazzi e gli studenti universitari dovrebbero essere in grado di fare questi lavori?».

DEL RESTO, la stessa Monique Miller ha un retroterra politico molto chiaro, che regala un contesto ideologico a queste proposte. La senatrice repubblicana fa

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