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Alle otto del primo gennaio è scaduto il contratto tra Russia e Ucraina per il transito del gas. Danno economico per Mosca. Ma anche per Kiev: le commissioni sono lo 0,5% del pil nazionale. Scure sulle spese energetiche europee, la Transnistria torna al carbone 

Scade l’accordo energetico fra Russia e Ucraina Si interrompe il transito attraverso Sudzha. La Transnistria torna al carbone

Foto d'archivio di un lavoratore in una stazione di servizio ucraina foto Pavlo Palamarchuk/Ap Foto d'archivio di un lavoratore in una stazione di servizio ucraina – foto Pavlo Palamarchuk/Ap

Con l’inizio dell’anno nuovo, la dimensione energetica della guerra in Ucraina compie un ulteriore salto di scala. Alle otto (orario di Mosca) della mattinata di ieri, infatti, si sono interrotte le forniture di gas russo che fino a quel momento ancora transitavano per il territorio ucraino attraverso la stazione di Sudzha (cittadina della oblast di Kursk, che si trova sotto controllo militare di Kiev dopo l’incursione nella regione dello scorso agosto). Si tratta di un passo che era stato annunciato dal presidente Zelensky circa due settimane fa, e che è entrato definitivamente in essere con la scadenza ufficiale del contratto firmato fra i due paesi prima dell’invasione. Il ministro dell’energia ucraino Herman Galushchenko lo ha definito un evento «di portata storica», che infliggerà alla Russia «perdite finanziarie».

Senza dubbio siamo di fronte alla fine di una dipendenza energetica che ha segnato ripetutamente le relazioni fra Mosca e Kiev, in una serie di dispute, controversie e ricatti reciproci per cui il gas è stato spesso utilizzato come “leva diplomatica” (nel 2009, per esempio, si verificò una delle più importanti crisi in cui le forniture russe vennero sospese per due settimane). D’altra parte l’interruzione, oltre a essere una misura annunciata, è in linea con il progressivo disaccoppiamento dalla Russia che l’intera comunità europea sta perseguendo da tre anni a questa parte (con l’inizio della guerra, è stata presa la decisione non vincolante di terminare in toto l’import di gas russo entro il 2027 e, secondo Bruxelles, le entrate da Mosca si sono già ridotte dal 40% pre-guerra all’8% sul totale). In Ucraina si è passati da 65 a 15 miliardi di metri cubi negli ultimi cinque anni.

Ma non è detto che la chiusura del rubinetto di Sudzha provocherà danni solo a Mosca e alla multinazionale russa Gazprom che ha dato seguito alla decisione. L’Ucraina, infatti, si trova costretta a rinunciare alle commissioni che derivavano

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Istituire «zone rosse» nelle città e vietarle ai «soggetti pericolosi». Con una lettera ai prefetti, il ministro Piantedosi anticipa il disegno di legge «sicurezza». Dalle feste in piazza di questa sera e per i prossimi mesi, decide la polizia chi entra nei centri storici e chi deve stare lontano

I soliti sospetti La direttiva del Viminale per Capodanno rafforza il Daspo urbano, la discrezionalità e le emergenze penali

Agenti di polizia in pattuglia durante il Capodanno a Roma foto Mauro Scrobogna/LaPresse Agenti di pattuglia a Capodanno – LaPresse

Sarà un capodanno con meno diritti, anche se la notizia viene impacchettata in mezzo all’allarme petardi e frullata nel contesto delle eterne emergenze sicurezza dichiarate di continuo, soprattutto in occasione di grandi eventi. Il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha inviato una direttiva ai prefetti per sottolineare l’importanza di individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare la presenza di «soggetti pericolosi» o con precedenti penali e poterne disporre l’allontanamento.

L’INDICAZIONE di Piantedosi serve ad estendere ad altre città il dispositivo che è in vigore a Milano per Capodanno fino al 31 marzo e che ha già avuto una prima applicazione a Firenze e Bologna. Dove negli ultimi tre mesi, si apprende, sono stati emessi 105 provvedimenti di allontanamento su quattordicimila persone controllate. A Firenze, ha fatto sapere ieri la questura tracciando un bilancio dell’anno passato, le misure di prevenzione adottate nel 2024 registrano un aumento del 37,50% rispetto all’anno precedente. In particolare, sono raddoppiati i provvedimenti di divieto di accesso alle aree urbane (previste all’articolo 13 bis del decreto emanato, nel 2017, quando al Viminale c’era Marco Minniti, governo Gentiloni) per reati contro la persona o contro il patrimonio, con estensione alla resistenza a pubblico ufficiale ed al porto di armi od oggetti atti ad offendere (fattispecie inserite da questo governo nel cosiddetto «Decreto Caivano») commessi nelle pertinenze di locali pubblici e i Daspo in ambito sportivo per condotte ritenute pericolose in occasione o a causa di manifestazioni sportive.

IL RICORSO alle cosiddette «zone rosse», dicono dal Viminale, rientra nella più ampia strategia volta a garantire la tutela della sicurezza urbana e la piena fruibilità degli spazi pubblici da parte dei cittadini. Queste ordinanze, recita la versione governativa, sono particolarmente utili in contesti caratterizzati da fenomeni di criminalità diffusa e situazioni di degrado, come le stazioni ferroviarie (vera ossessione del ministro, citate a più riprese) e le aree limitrofe, oltre che le «piazze dello spaccio». Il fatto è che le misure potranno essere applicate anche in altre zone, come quella della cosiddetta movida, «caratterizzate da un’elevata concentrazione di persone e attività commerciali e dove si registrano spesso episodi di microcriminalità, risse, vandalismo, abuso di alcol e degrado». In vista del Capodanno, recita la velina del ministero dell’interno, l’applicazione delle «zone rosse» rappresenta «un ulteriore efficace strumento per rafforzare i controlli nelle aree di maggiore affluenza».

MA CHI PRENDE di mira il provvedimento? Ciò che preoccupa è la discrezionalità delle misure, visto che

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Fate presto Contrasti tra governo e intelligence in Iran. E Roma predica ancora calma e pazienza. Caso Abedini, gli Usa chiedono l’estradizione. E anche la procura di Milano indaga

La giornalista Cecilia Sala ospite a una trasmissione televisiva foto Ansa La giornalista Cecilia Sala ospite a una trasmissione televisiva foto Ansa

A Teheran il silenzio sul caso di Cecilia Sala è totale. La notizia del suo arresto del 19 dicembre e della sua reclusione in isolamento nella prigione di Evin non è stata diffusa da nessun canale ufficiale, né è apparsa tra i lanci dell’agenzia Mizan, che normalmente funge da portavoce del sistema giudiziario iraniano. Così come il ministero degli Affari esteri si rifiuta di commentare, e così le notizie che filtrano sui media di lingua persiana all’estero, al massimo, si limitano a riportare la versione italiana della storia.
La voce più ricorrente, come sempre quando in Iran le comunicazioni tardano ad essere diffuse, è che ci siano disaccordi tra la classe politica e i servizi di sicurezza: un’impressione che pare confermata dai recenti contrasti emersi tra il presidente Masoud Pezeshkian, che voleva allentare le maglie della censura online, e gli apparati di intelligence, che si sarebbero messi di traverso rispetto a questa decisione.

CHE IN IRAN non si parli della vicenda di Cecilia Sala – prima giornalista straniera arrestata nel paese, negli altri casi si trattava di persone di origine iraniana o con la doppia nazionalità – significa inoltre che il governo avrebbe deciso di mantenere un profilo basso e che ci sono state interlocuzioni con la Farnesina. E se ancora non si sa nulla su quali siano le accuse che hanno portato all’arresto della giornalista italiana, resta in sospeso anche un’altra domanda, forse anche più pesante: chi ha dato l’ordine di fermarla? L’esecutivo o i servizi di sicurezza?
Nelle ultime settimane, vista e considerata l’alta tensione sul fronte mediorientale, la diplomazia di Teheran è molto impegnata a stemperare i toni e, di certo, il caso Sala non va in quella direzione. Sembrerebbe escluso, comunque, che l’arresto sia legato al lavoro che la voce del podcast Stories stava facendo nel paese dal 12 dicembre, data del suo arrivo. L’unico elemento in qualche modo problematico per il governo potrebbe essere l’intervista fatta a Hussain Kanani Moghaddam, ultraconservatore e sostenitore delle ambizioni nucleari del regime, ma nel colloquio si parla per lo più di eventi passati, senza particolari agganci con l’attualità. Più caldeggiata, anche dai media in lingua farsi, è l’ipotesi di un nuovo episodio di «diplomazia degli ostaggi», dottrina che l’Iran utilizza a fasi alterne da quasi mezzo secolo. E qui arriva la coincidenza con l’arresto in Italia del ricercatore Mohamed Abedini, 38 anni, avvenuto il 16 dicembre scorso (tre giorni prima di quello di Sala, dunque) su mandato degli Stati Uniti, che lo accusano di aver fornito componenti per droni al Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche.

GLI ARRESTI di scienziati e ricercatori iraniani all’estero hanno registrato un aumento significativo negli ultimi anni: un dettaglio che a Teheran non si può di certo ignorare e che rimanda a un caso avvenuto nel 2019, quando lo studente di Princeton Xiyue Wang, imprigionato in Iran, venne scambiato con il ricercatore Masoud Soleimani, detenuto negli Usa. Alla Casa Bianca c’era Donald Trump – che, per così dire, tornerà a spadroneggiare tra pochi giorni – e il negoziato venne condotto da un team di diplomatici svizzeri.

IL CASO ABEDINI, in tutto questo, appare però più complicato: la red notice nei suoi confronti è stata emessa dagli Stati uniti il 13 dicembre e l’uomo è stato preso all’aeroporto di Milano-Malpensa il 16. La decisione, pressoché obbligata, di arrestarlo e poi di tenerlo in carcere è stata presa sulla base di un affidavit dell’Fbi e solo nel pomeriggio di ieri è arrivata la richiesta di estradizione da parte degli Usa. Adesso il procuratore generale della Corte d’appello competente, quella di Milano, dovrà produrre una requisitoria scritta sulla vicenda, poi, nel giro di dieci giorni, dovrà tenersi un’udienza in seduta camerale per stabilire se ci sono o no i requisiti per la consegna a Washington del ricercatore. La decisione finale, infine, spetta al ministero della Giustizia. Intanto, già all’inizio della prossima settimana, l’avvocato italiano di Abedini, Alfredo De Francesco, presenterà il suo ricorso contro la convalida dell’arresto, nel tentativo di ottenerne l’uscita dal carcere di Opera dove è attualmente detenuto. «Dall’analisi dei documenti in mio possesso, la posizione del mio assistito risulta molto meno grave di quanto può sembrare. Lui respinge le accuse e non riesce a capire i motivi dell’arresto», dice De Francesco, annunciando anche che si opporrà alla richiesta di estradizione.

SU TUTTO QUESTO incombe anche l’apertura di un fascicolo «modello 45» (senza indagati né ipotesi di reato) della procura di Milano, che, per cominciare, ha intenzione di focalizzarsi sulle modalità con cui la digos ha prelevato l’uomo a Malpensa, ma non è escluso che si deciderà di approfondire anche gli eventuali profili penali specifici legati alle sue attività. Cioè se ci sono motivi per indagarlo anche in Italia. Naturalmente i tempi della macchina giudiziaria non sono quelli della diplomazia e l’obiettivo italiano resta quello di riportare Cecilia Sala a casa a prescindere dagli sviluppi dell’affaire Abedini, che potrebbe andare per le lunghe. Non sarà facile: le autorità iraniane, nei giorni intorno a Natale, hanno espresso formale protesta ai diplomatici di Roma per quello che ritengono essere un arresto «ingiusto e ingiustificato», una posizione che in ogni caso ha un suo peso sulla trattativa diplomatica.

È SOPRATTUTTO per questo motivo che il ministro degli Esteri Antonio Tajani continua a predicare la massima calma e la più assoluta prudenza, anche perché le accuse verso la reporter sono ignote persino al governo italiano – che, come da stringata nota di palazzo Chigi, «segue con costante attenzione la complessa vicenda» – e si attende che l’avvocato della giornalista possa averne notizia quanto prima. «Cecilia Sala sta bene e il governo lavora con discrezione per riportarla presto a casa», ha scritto Tajani su X. Quanto presto, però, ancora non si può dire.

 

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Chiusa senza discussione la legge di bilancio, si riapre lo scontro nella maggioranza. La Lega alza il tiro sul governo: dall’autonomia alle armi alle imprese del nord. Soprattutto chiede il rimpasto. Salvini: sogno ancora il Viminale. Palazzo Chigi: non se ne parla

MANOVRA DI ALLONTANAMENTO Chiusi i conti in senato con la fiducia, non protesta solo l’opposizione. La Lega calca su tutto quello che non gradisce e apre il fronte interno

Bilancio con scontro, ora il governo litiga. Salvini vuole il rimpasto

 

Nessuna sorpresa né potevano essercene. Il Senato era chiamato a ratificare la legge di bilancio, non a discuterla. Ha vistato e approvato come da copione con unica protesta sonora quella del relatore Liris, FdI, che ha mandato la premier su tutte le furie. Insieme ai voti a comando non è mancata la abituale apologia di se stesso cantata dal governo: la «manovra di grande equilibrio che sostiene i redditi medio-bassi» della premier, che peraltro in aula non c’era, il «valore della prudenza» del meno iperbolico Giorgetti.

Serviva maggiore attenzione alle industrie del Nord. E adesso bisogna prendere le distanze dai paesi più bellicosi Romeo, capogruppo Lega


I SOLI BRIVIDI sono arrivati con Renzi. Il leader di Iv si è beccato a microfoni accesi con il presidente del Senato: «Camerata La Russa, deve abituarsi a rispettare le opposizioni». «E lei deve abituarsi a non sfuggire la verità». Scambio di cortesia natalizie ma il leader di Iv è imbufalito davvero per quella norma che lo costringe a scegliere tra il seggio al Senato e le conferenze ben pagate all’estero: «Ve ne pentirete. Io sono come il Cavaliere nero di Proietti», minaccia. E promette pirotecniche manovre per il futuro prossimo: «Compio 50 anni, poi mi rimetto a fare sul serio».

Capita che buona parte della maggioranza, sulla norma, sia d’accordo con lui. «Il senatore Renzi non ha tutti i torti, per usare un eufemismo», va giù piatto nella dichiarazione di voto il capogruppo leghista Romeo. Dalle parti di Forza Italia basta chiedere per sapere che la pensano allo stesso modo e anche tra i Fratelli di Giorgia la norma ad personam anti-Renzi ha un indice di gradimento decisamente basso. «L’hanno voluta Giorgia e Arianna», sibila il conferenziere ex premier.

LA STILETTATA sulla norma Renzi, però, non è l’unica vibrata dal leghista. Impiega metà della sua dichiarazione di voto per magnificare la manovra, l’altra metà per elencare tutto quel che non è stato fatto e che la Lega si aspetta per l’anno che verrà, dall’avvio del federalismo fiscale ai Lep, da una «maggiore attenzione» per le

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Il Kamal Adwan, unico presidio sanitario rimasto a Gaza nord, non esiste più: dopo tre mesi di assedio, Israele ha lanciato l’assalto finale. 50 palestinesi uccisi, reparti dati alle fiamme, staff e pazienti spogliati e portati via verso le prigioni dove i gazawi spariscono per mesi

Striscia di sangue Attacco dei soldati all’ultimo ospedale ancora operativo nel nord di Gaza. 350 pazienti, medici e sfollati sono stati cacciati via

Medici e pazienti costretti a lasciare l'ospedale kamal adwan di Gaza durante un raid israeliano Medici e pazienti costretti a lasciare l'ospedale kamal adwan di Gaza durante un raid israeliano

«Siamo stati portati in una sala dell’ospedale, i soldati israeliani ci hanno ordinato prima di togliere il velo (islamico) poi di spogliarci, le donne alcuni indumenti, gli uomini quasi completamente. Li hanno portati via seminudi, con le mani alzate. A noi hanno intimato di andare alla scuola Al Fakhoura». Mentre Shurooq Al Rantisi, operatrice di laboratorio, raccontava ai giornalisti quanto accaduto alle prime ore del giorno all’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahiya, colonne di fumo nero si alzavano dalla struttura ospedaliera, l’unica operativa nel nord di Gaza. Prima del raid, un attacco aereo aveva centrato un edificio nei pressi dell’ospedale facendo una strage: circa 50 i morti, quasi tutti civili secondo i dati riferiti dalle autorità sanitarie.

«Gli occupanti sono ora all’interno dell’ospedale e lo stanno bruciando», ha lanciato l’allarme il direttore del ministero della Salute, Munir Al Bursh. Il viceministro Youssef Abu El Rish ha aggiunto che il fuoco appiccato dalle forze israeliane ha bruciato il dipartimento di chirurgia, il laboratorio, un magazzino, le ambulanze per poi diffondersi ovunque. Il portavoce militare israeliano ha replicato che l’esercito entrato per «arrestare terroristi di Hamas» avrebbe cercato di limitare i danni ai civili e «ha agevolato l’evacuazione sicura di pazienti e del personale medico prima dell’operazione», ma non ha fornito prove di questo. Ha quindi negato che i soldati abbiano dato fuoco intenzionalmente all’ospedale.

Poco si sapeva ieri sera della sorte di 185 medici, infermieri e pazienti nelle mani delle forze israeliane. A cominciare del direttore, Hossam Abu Safiyeh. Nei giorni scorsi Abu Safiyeh aveva lanciato una richiesta di aiuto e chiesto alla comunità internazionale di intervenire per fermare Israele. Giovedì notte invece aveva annunciato che cinque membri del suo staff erano stati uccisi da attacco aereo: un pediatra, un tecnico di laboratorio, due operatori di ambulanze e un addetto alla manutenzione. I militari israeliani gli hanno mandato un messaggio inequivocabile prima di fare irruzione: «questa volta ti arrestiamo».

L’evacuazione con la forza del Kamal Adwan è avvenuta, come Israele minacciava di fare da mesi. Nel nord di Gaza non ci sono più strutture in grado di fornire un minimo di

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Crisi ucraina Dopo i pesanti bombardamenti russi della notte di Natale, continuano gli attacchi dalla distanza. Ieri colpiti un F-16 e una raffineria. Baku accusa Mosca di aver causato lo schianto dell’aereo civile in Kazakistan

Soccorritori al lavoro dopo un attacco aereo russo a Kharkiv foto Ansa Soccorritori al lavoro dopo un attacco aereo russo a Kharkiv – ANSA

«Come bere il miele con le tue labbra» dicono in Russia, ovvero: troppo bello per essere vero. Così ha risposto Vladimir Putin ai giornalisti che gli chiedevano della fine della guerra in Ucraina durante una conferenza stampa da San Pietroburgo, a conclusione del Consiglio economico supremo eurasiatico. E il piano di Donald Trump per congelare il conflitto? «Cerchiamo di porre fine al conflitto, non solo di congelarlo» ha sentenziato il presidente.

Sarà l’aria pre-natalizia (per il calendario ortodosso la natività si celebra il 7 gennaio), il nemico in crisi sul campo di battaglia o Donald Trump che rilancia su un incontro bilaterale «il prima possibile», ma a Mosca negli ultimi tempi sono insolitamente loquaci. Si parte dalla consueta propaganda governativa: la Russia nel 2025 «porterà a termine tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale», tra i quali il primo è «raggiungere il successo sul fronte di battaglia». Inoltre, i raid devastanti lanciati sulle città ucraine, come l’ultimo durante la notte del 25 dicembre con oltre 70 missili e 100 droni «sono una risposta speculare agli attacchi di Kiev». Se la situazione lo richiedesse, il Cremlino si dice pronto a usare i nuovi missili balistici ipersonici Oreshnik, ma al momento questa eventualità non sembra impellente, «senza fretta», specifica il capo di stato. Tra l’altro, proprio ieri, il presidente bielorusso Lukashenko ha annunciato di essere «pronto a schierare sul suo territorio circa 10 sistemi Oreshnik». In futuro «se i russi vorranno piazzarne di più, ne posizioneremo di più».

LA CONFERENZA STAMPA di ieri ha fornito anche qualche elemento inedito. Primo fra tutti il luogo del possibile tavolo negoziale tra Russia e Ucraina. Per Putin «andrebbe bene» la Slovacchia, dato che nella sua recente visita a Mosca il presidente slovacco Fico si è offerto di ospitare il summit. Il presidente russo ha anche rispolverato l’antica arma commerciale delle forniture di gas: «siamo pronti a fornire gas attraverso l’Ucraina a chiunque, ma è impossibile alle condizioni di Kiev».

E poi c’è il solito retroscena sul doppiogiochismo dell’Occidente. Rispondendo a una domanda sul presunto congelamento della guerra in Ucraina paventato da Trump, Putin ha raccontato: «nel 2021 [il presidente in carica, Joe Biden] mi offrì esattamente questo: posticipare l’adesione dell’Ucraina alla Nato di 10-15 anni, perché non era ancora pronta». Il che lascia intendere che i vertici russi non accetterebbero una soluzione simile ora.

IN OGNI CASO, per il primo incontro ufficiale tra il tycoon e lo zar i funzionari russi stanno iniziando a vagliare le opzioni praticabili. Per ora la rosa delle località possibili è ristretta a Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e a non meglio specificati «Paesi neutrali» (Turchia?) che non hanno aderito alla Corte penale internazionale (che contro Putin ha spiccato un mandato d’arresto).

Intanto al fronte e nelle retrovie continuano gli attacchi. Il colpo più eclatante di ieri, se confermato, è l’abbattimento di uno degli F-16 made in Usa in forza all’Aeronautica ucraina da parte della contraerea russa nella zona di Zaporizhzhia. D’altro canto, Kiev rivendica la distruzione dell’ennesimo deposito di idrocarburi nella regione russa di Rostov.

SEBBENE non legato direttamente alla guerra, anche lo schianto del volo di Azerbaijani airlines ad Aktau, in Kazakistan, il giorno di Natale, in cui hanno perso la vita 38 persone, sembra sempre di più un «effetto collaterale» del conflitto in Europa dell’Est. Ieri il governo azero ha dichiarato alla testata Euronews che «un missile terra-aria dei sistemi di difesa russi è stato lanciato contro il volo 8432 durante un’attività di droni ucraini sopra Grozny [in Cecenia, ndr], e le schegge hanno colpito i passeggeri e l’equipaggio della cabina esplodendo accanto all’aereo. All’aereo danneggiato non è stato permesso di atterrare in nessun aeroporto russo, nonostante la richiesta dei piloti di un atterraggio di emergenza, e gli è stato ordinato di volare attraverso il Mar Caspio verso Aktau, in Kazakistan» dove alla fine il velivolo è precipitato. Per il Cremlino si tratta di «ipotesi premature».

 

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