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Niente dazi su Iphone, computer e altra elettronica: l’ennesima giravolta tariffaria di Trump è un risarcimento a molti zeri per Apple e altre big tech bastonate in Borsa. Mentre crescono le denunce per insider trading

Il tempo della mela Nota (retro-datata) delle dogane Usa: niente tariffe a cellulari, computer e altra elettronica. Esultano Apple, Ndivia e le altre

Una linea di produzione di componenti elettronici in una fabbrica a Longyan, in Cina foto Zhang Bin/Getty Images Una linea di produzione di componenti elettronici in una fabbrica a Longyan, in Cina – foto Getty Images

L’amministrazione Trump ha annunciato che smartphone, computer e altri componenti elettronici sono esentati dai dazi reciproci. La direttiva, emessa dalla U.S. Customs and Border Protection, prevede quasi due dozzine di esenzioni. L’ennesimo cambio di rotta arriva solo pochi giorni dopo l’imposizione da parte degli Stati Uniti dei dazi più alti in un secolo su dei beni stranieri.

L’ANNUNCIO del dietrofront americano è arrivato dopo la risposta cinese all’escalation della guerra commerciale innescata da Donald Trump, nella forma di un dazio del 125% su tutti i prodotti statunitensi, in risposta a quello del 145% voluto dal tycoon. Queste percentuali avevano sparso il panico negli Usa dove continuavano a rincorrersi voci di iPhone di prima fascia destinati ad essere venduti a più di 2.000 dollari.

La decisione di esentare i materiali elettronici è stata presa per evitare un’impennata dei prezzi dei prodotti tecnologici di più largo consumo, che sarebbe inevitabilmente ricaduta sui consumatori e sollevare aziende come Apple, Samsung, HP, Dell e Microsoft che producono parti dei loro prodotti elettronici al di fuori dei confini statunitensi. Il Financial Times ha sottolineato che nonostante Apple stia lavorando per spostare parte della produzione in India, al momento la sua catena di approvvigionamento è ancora concentra in Cina, tanto che l’80% degli Iphone sono un prodotto made in China.

Le esenzioni, però non rappresentano una tregua totale: all’inizio di quest’anno l’amministrazione Trump aveva già applicato un dazio del 20% sui prodotti cinesi, a causa del ruolo che, secondo Trump, la Cina starebbe svolgendo nel commercio di fentanyl negli Usa. Oltre a questo dazio che resta comunque in vigore, l’amministrazione Trump potrebbe ancora decidere di aumentare i dazi sui semiconduttori, un componente vitale degli smartphone e di altri dispositivi elettronici.

PER ORA QUESTO cambio di marcia dell’ultimo minuto rappresenta un contenimento del danno che permette a giganti della tecnologia come Apple, Dell e Nvidia di evitare una fetta sostanziale di tasse punitive, e una drastica riduzione dei loro profitti. Anche i consumatori eviteranno potenziali aumenti stellari su smartphone, computer e gadget tecnologici vari, e queste esenzioni potrebbero frenare l’inflazione e le turbolenze che molti economisti temono possano portare a una recessione, di cui ormai si perla apertamente.

Ciò che non smette di provocare instabilità è il continuo cambio di rotta della Casa Bianca che non sembra avere un vero piano ma che stia improvvisando le proprie mosse al momento, tra una cena di finanziatori e l’immancabile partita a golf. Almeno per quanto

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Ambiente Sei anni dopo il primo sciopero, il movimento è tornato a manifestare in tutta Italia: «La pandemia e poi la guerra hanno portato l’ambiente in fondo all’agenda politica»

Fridays for future in piazza: «Resistiamo per il clima» Manifestazione di Fridays for Future a Roma – Marco Di Gianvito/Zuma Press

428cf640-f09e-451a-a1b1-5b5a71915cf4.jpeg Manifestazione dei Fridays for Future a Faenza

Sono passati oltre sei anni da quando il 15 marzo 2019 Fridays for future conquistò per la prima volta le piazze di tutto il mondo, Italia compresa. Decine di scioperi dopo, ieri sono tornati a manifestare, mentre gli sconvolgimenti globali che hanno attraversato il pianeta da quel primo venerdì hanno ridisegnato l’agenda politica. «La cornice generale del presente è l’instaurazione di un’economia di guerra» hanno scritto gli attivisti nel comunicato di lancio della mobilitazione, elencandone i punti focali: no al riarmo, transizione energetica pianificata dal basso e stop alla repressione e al consumo di suolo.

«SIAMO A UN GIRO DI BOA indubbiamente per il movimento, le questioni sociali attuali impongono anche a noi un ripensamento, di collegare sempre di più il globale e il locale» spiega Marzio Chirico, rappresentante nazionale di Fridays for future. Prima la pandemia e poi la guerra hanno gettato la transizione ecologica non solo in fondo alle agende dei decisori politici, dal cui pantano difficilmente e in rari casi erano riuscite a emergere, ma anche al dibattito pubblico: «Se per un momento l’ambiente è stato sempre a pagina uno nel dibattito, è lentamente scivolato dietro fino quasi a scomparire. Per questo manifestiamo ancora, per mostrare che resistiamo e che dobbiamo tornare a occuparcene» prosegue Chirico.

MANIFESTAZIONI si sono avute in tutta Italia, ognuna con le proprie specificità locali nella cornice più ampia della giustizia climatica. Come hanno spiegato insieme agli operai della Gkn di Campi Bisenzio alla vigilia delle manifestazioni, «la convergenza è nelle cause della catastrofe». «Sicuramente la questione ha perso popolarità e appeal mediatico, ma i fenomeni meteorologici estremi aumentano e continuano a peggiorare la vita delle persone, mentre i governi di ultradestra aggravano il tutto», dice Letizia De Simone dei Fridays di Roma. Qui per riportare a terra le istanze ambientali il movimento ha scelto di imbracciare una campagna contro il consumo di suolo, che rischia di aumentare con le nuove norme di attuazione al piano regolatore e la costruzione dello stadio della Roma sul parco di Pietralata, a nordest della Capitale.

MA LE BATTAGLIE sposate sono state diverse in tutto il paese: dall’Ilva della manifestazione di Taranto, alla cementificazione del parco di Cibali a Catania, alla nuova autostrada Pedemontana tra Milano e la Brianza. A Torino ha partecipato al corteo anche la Fiom Cgil: «Nella battaglia che stiamo facendo per il rinnovo del contratto ci sta anche l’idea di uno sviluppo giusto, equo e sostenibile, che sono le vostre parole d’ordine» ha detto Edi Lazzi, segretario della Fiom torinese, intervenendo davanti alla sede dell’Unione degli industriali. Il corteo è poi passato davanti al grattacielo di Intesa Sanpaolo, dove attivisti di Extinction rebellion si sono tinti di vernice nera petrolio e hanno strisciato fino davanti l’ingresso: «Siamo oppressi e sommersi» hanno gridato, protestando contro gli investimenti nell’industria fossile del gruppo bancario.

OGGI LE PROTESTE continueranno a Torino e Bologna. Dal capoluogo piemontese la manifestazione si sposterà a Chieri, pochi chilometri di distanza, dove è in programma la costruzione di un nuovo tratto di tangenziale, opera giudicata «anacronistica oltre che ambientalmente devastante». A Bologna andrà in scena invece il Climate Pride, animato da decine di realtà, tra cui Legambiente e Greenpeace, dopo la prima apparizione a Roma nei giorni della Cop29 a novembre.

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Andrà tutto bene Il premier spagnolo vola in Cina per rafforzare i legami bilaterali e fluidificare i rapporti con Bruxelles. Pechino in cerca di alleati per la guerra commerciale scatenata da Trump apprezza. E investe in Spagna. Da ieri in vigore i controdazi cinesi sui prodotti Usa al 125%. E tariffe zero per i paesi vicini che cooperano

Chinese President Xi Jinping, right and Spanish Prime Minister Pedro Sanchez arrive for a bilateral meeting at Diaoyutai Guest House in Beijing, China, Friday, April 11, 2025. (Andres Martinez Casares/Pool Photo via AP) Pedro Sánchez ieri a Pechino con Xi Jinping – Ap

Mentre infuria la guerra commerciale e Donald Trump esulta per i paesi che fanno la corsa a «baciargli il culo», a Pechino inizia la “processione” dei leader europei.
 
Ieri, Xi Jinping ha ricevuto Pedro Sánchez. L’incontro ha un tempismo rilevante, visto che il premier spagnolo è il primo leader europeo a recarsi in Cina dopo i dazi reciproci imposti da Donald Trump e dopo l’inizio della nuova guerra commerciale tra Pechino e Washington. Tanto che il segretario al tesoro degli Stati uniti, Scott Bessent, ha accusato Sánchez di voler allineare Spagna ed Europa alla Cina.
 
«VOGLIAMO UNA RELAZIONE positiva con Washington, ma anche una relazione solida con Pechino», ha detto il premier spagnolo, che è alla terza visita in Cina in meno di tre anni, a testimonianza di un rapporto solido. Nel colloquio di ieri, Sánchez ha chiesto maggiore cooperazione nelle aree di interesse comune e ha definito la Cina un «partner dell’Unione europea». Significativo che manchi invece la definizione di «rivale strategico» usata da Bruxelles negli ultimi anni.
 
Xi ha risposto elogiando il ruolo di tramite della Spagna nei rapporti tra Europa e Cina. Il presidente cinese ha poi chiesto di «resistere insieme» contro quelle che ha definito «prepotenze unilaterali». Si tratta di un appello rivolto a tutti i leader europei, con Xi che prova a sfruttare il malcontento verso Trump per incunearsi tra Europa e America.
 
LA SENSAZIONE è che la Cina voglia usare il viaggio di Sánchez come una sorta di modus operandi per il miglioramento dei rapporti con l’Europa. Madrid vuole spingere l’Europa a creare un rapporto fluido con Pechino, autonomo dai legami con gli Stati uniti.
 
Pechino apprezza e garantisce che faciliterà l’ingresso delle aziende spagnole sul mercato cinese, in particolare quelle agricole, sanitarie, energetiche e cosmetiche.
 
Dall’altra parte, dovrebbero arrivare nuovi investimenti cinesi in Spagna. Lo stesso era accaduto dopo la visita dell’anno scorso, quando Sánchez aveva annunciato un cambio nella posizione spagnola sui dazi contro i veicoli elettrici cinesi. Da allora, il produttore di batterie Catl ha investito in Spagna per una fabbrica di batterie, mentre il colosso dell’energia Envision lavora a un impianto di elettrolizzatori per idrogeno verde. La casa di veicoli elettrici Leapmotor, il produttore di batterie al litio Sematec e il player dell’energia Hygreen starebbero valutando altri progetti “spagnoli”. Tutti settori strategici dell’industria tecnologica verde.
 
LA CINA, che ieri ha ulteriormente alzato i dazi sulle importazioni di prodotti statunitensi dall’84 al 125%, cerca alleati o quantomeno sponde nella guerra commerciale che sta suo malgrado combattendo contro gli Stati uniti. Pechino e l’Europa si studiano, provando a capire come venirsi incontro. Non mancano certo gli ostacoli, a partire dai timori europei per la sovrapproduzione cinese e il possibile flusso di merci a basso costo.
 
Ma c’è anche la sensazione che si voglia provare a iniettare qualche oncia di stabilità in un mondo che la Casa bianca ha reso ancora più turbolento coi suoi dazi.
 
Un segnale in tal senso arriva non solo dai numerosi colloqui di questi giorni, ma anche dall’indiscrezione del South China Morning Post, secondo cui a fine luglio si dovrebbe tenere un vertice tra Xi Jinping, la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa.
 
TEORICAMENTE, l’incontro dovrebbe tenersi a Bruxelles senza Xi, ma col premier Li Qiang. Lo spostamento a Pechino darebbe un segnale chiaro della rilevanza politica che entrambe le sponde intendono dargli. Solo tattica o anche sostanza? I prossimi passi lo chiariranno. Prima di allora, comunque, Xi ospiterà anche il presidente francese Emmanuel Macron, atteso a Pechino tra fine maggio e inizio giugno.
 
Nel frattempo, Xi andrà in tour nel Sud-est asiatico. Ieri è arrivato l’annuncio ufficiale: da lunedì a venerdì il leader cinese sarà in Vietnam, Cambogia e Malaysia. Obiettivo: ricerca di condivisione sulla formula dei «valori asiatici» di ostilità al protezionismo e a favore al libero commercio.
 
LA CINA PUNTA A PROPORSI come garante di stabilità regionale, anche tramite l’azzeramento dei dazi sui prodotti dei paesi vicini a fronte di qualche garanzia di cooperazione. Un passaggio fondamentale non solo sul fronte bilaterale, ma anche per garantire il funzionamento dei canali che in questi anni hanno garantito la triangolazione commerciale tra Cina, Sud est asiatico e la stessa America. Malgrado Trump.

 

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Scendono con i polsi legati dalla enorme nave militare che li ha trasportati in Albania. Sono appena in 40, raccolti come pacchi nei Cpr solo per riempire un po’ le gabbie al di là del mare. È la prima deportazione di migranti dal territorio italiano

La scenda del crimine La nave Libra è arrivata ieri a Shengjin. Sul mezzo militare c’erano un’ottantina di agenti. Ad attendere in banchina i reparti anti-sommossa. Nessuna comunicazione ufficiale su nazionalità e status giuridico. Opposizioni all’attacco, maggioranza in silenzio

Ammanettati e “scaricati”. I primi 40 deportati dall’Italia Migranti trasportati dalla nave militare italiana Libra nel porto di Shengjin, in Albania – Malton Dibra / Epa

La prima deportazione collettiva di migranti dal territorio italiano al Cpr in Albania è andata in porto. Intorno alle 16 di ieri la nave militare Libra, che qualche ora prima aveva mollato gli ormeggi da Brindisi, è arrivata nel porto di Shengjin. Ad attenderla sul molo c’erano una quarantina di agenti di polizia, carabinieri e guardia di finanza. Scudi in mano e caschi al lato, in assetto anti-sommossa. Altri 80 erano a bordo. I cittadini stranieri sono stati fatti scendere con le fascette ai polsi, un agente davanti, uno accanto e uno dietro con una sacca in mano, contente forse gli oggetti personali del trattenuto.

«LA SCENA ci ha fatto subito pensare alle deportazioni ordinate da Trump. C’è stata una dimensione simbolica più esplicita delle altre volte», afferma Francesco Ferri, del Tavolo asilo e immigrazione (Tai). «Immagini vergognose che mostrano quello che l’Italia sta facendo alle persone e ai diritti fondamentali», commenta l’eurodeputata Cecilia Strada, eletta da indipendente con il Pd. Sui migranti ammanettati non ha voluto rilasciare alcun commento la Commissione Ue, che ribadisce di non ritenere il progetto albanese in contrasto con il diritto comunitario e di stare accelerando per arrivare presto alla lista comune dei paesi sicuri.

Sull’operazione di ieri le autorità italiane non hanno dato comunicazioni ufficiali. Quaranta persone sono state prelevate da molti dei Cpr operativi sul territorio nazionale, ma non da quelli di Trapani e Macomer. Non si conoscono però le nazionalità, né i dettagli dello status giuridico. Tutte informazioni che verificherà oggi Strada in un’ispezione a Gjader per parlare con i trattenuti. «Ci è stato detto che i rispettivi avvocati non sono stati informati di nulla», afferma l’europarlamentare. «Per i trasferimenti dei detenuti tra i penitenziari non c’è l’obbligo di comunicazione alla difesa, ma visto che in questo caso lo spostamento è avvenuto verso l’estero sarebbe stato corretto informare i legali affinché il diritto di difesa fosse stato tutelato dall’inizio», dice l’avvocato Gennaro Santoro, di ritorno dall’Albania.

A QUANTO RISULTA al manifesto – in attesa di conferma ufficiale – almeno tre persone sarebbero state prelevate dal

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La giravolta sui dazi ha premiato i suoi protagonisti Regalo miliardario alle "7 sorelle" hi tech e a tutti i ribassisti. E il Trump Media Group sale del 19%. I democratici: ora inchiesta

Trader della borsa di New york ascoltano le dichiarazione di Trump Trader della borsa di New york ascoltano le dichiarazione di Trump foto Justin Lane /Ansa

Altro che operai: i dazi hanno fatto bene finora solo a chi vive di plusvalenze sui titoli azionari. Un’operazione di manipolazione del mercato in grande stile, coerente con la stagione di gangsterismo economico inaugurata dal nuovo inquilino della Casa Bianca.

Prima il post sul «grande momento per comprare» firmato “Djt” (le iniziali di Trump ma anche la sigla della sua società in borsa), e quattro ore dopo l’annuncio di uno stop di 90 giorni per le cosiddette «tariffe reciproche» (esclusa la Cina, per la quale i dazi sono saliti addirittura al 145%), con la regia del gestore di hedge fund promosso a segretario del Tesoro Scott Bessent, sentito il segretario al Commercio Howard Lutnick, già capo della società di servizi finanziari Cantor Fitzgerald, tra i 24 operatori «primari» che possono negoziare titoli di Stato con la Federal Reserve. Chi ha seguito il consiglio di The Donald, quando le quotazioni erano basse, ha realizzato così guadagni d’oro. Anche tra deputati e senatori, a quanto pare. «Qualunque membro del Congresso abbia acquistato azioni nelle ultime 48 ore – ha affermato al riguardo la deputata Alexandria Ocasio-Cortez – dovrebbe renderlo noto ora. Ho sentito delle cose interessanti in aula. È ora di vietare l’insider trading al Congresso». I democratici sembrano essersi svegliati e chiedono una vera indagine.

«Chi ha comprato azioni lo dica subito, stop all’insider tradingAlexandria Ocasio Cortez

IL RIMBALZO di mercoledì è stato, in ogni caso, una pasqua di resurrezione per banchieri e tecnologici, dopo lo tsunami dei giorni precedenti, quando sono andati in fumo quasi 10 trilioni di dollari. Un rialzo guidato soprattutto dai «Magnifici 7», i gioielli dell’hi tech che più di altri hanno investito nella rielezione del tycoon. I numeri sono davvero notevoli: +20% Tesla, +18% Nvidia, +15% Meta, +15% Apple, +12% Amazon, +10% Microsoft, +10% Alphabet. Elon Musk, il fustigatore dei dipendenti pubblici, ha raccolto in poche ore ben 6 miliardi di dollari per la sua nuova impresa xAI. Parliamo, comunque, di titoli già molto sopravvalutati rispetto ai fondamentali delle aziende, a proposito dei quali molti analisti hanno evocato la bolla speculativa dei Dot-com degli anni Novanta, legata non a caso alle nuove tecnologie informatiche.

FESTA ANCHE per i titoli del settore dei semiconduttori, come Broadcom, Amd, Micron e Applied Materials, con l’indice Phlx Semiconductor che è salito addirittura del 19%. Per non parlare di banche e fondi speculativi: +9% Citigroup, +8% JP Morgan, +6% Bank of America, +7% Wells Fargo. Tra questi, non tutti hanno recuperato ancora quanto hanno perso negli ultimi giorni, ma il rimbalzo ha premiato gli investitori scaltri, quelli che sanno approfittare dei crolli borsistici momentanei. Come chi ha comprato titoli di BlackRock, saliti in un solo giorno del 9,97%. Tra i miliardari che hanno beneficiato di questo rimbalzo, spicca Warren Buffett, ceo di Berkshire Hathaway, una delle holding più grandi del mondo, con un fatturato di oltre 250 miliardi di dollari. Le azioni di classe A di questa società hanno raggiunto il massimo storico due giorni fa, dopo aver guadagnato perfino nella tempesta dei giorni precedenti.

MA IL NOME che fa più rumore è proprio quello di The Donald. Le azioni di Trump Media & Technology Group hanno registrato un incremento del 19,3% dopo l’annuncio sulla sospensione dei dazi fatto non a caso su Truth Social, che dello stesso gruppo fa parte.

Cosa insegna questa vicenda? Che il problema della classe operaia e dell’industria americana non sono il vino italiano o la lana cinese, ma l’ipertrofia della «sovrastruttura finanziaria» rispetto all’economia reale. La capitalizzazione del principale indice di Wall Street, lo S&P 500, è pari al doppio del Pil del paese: sono le oligarchie finanziarie che tengono in pugno gli Stati Uniti d’America. Quelle che Trump mai e poi mai metterà in discussione, essendo egli stesso espressione di quel mondo.

IERI TUTTE le borse del mondo sono andate bene, tranne Wall Street, per i dati sull’inflazione. Ma non è un problema, per ora. La bolla è ancora molto grossa e per tanti, ancora una volta, sarà un’occasione per speculare. Resta il monito di Jeffrey Sachs: «Quella dei dazi è una guerra che tutti perderanno, miliardari compresi». Chissà.

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Non c’è nessuna tregua in Ucraina, nessun accordo Usa-Russia e nessun piano europeo se non armarsi fino al collo. A vuoto anche la nuova riunione dei «volenterosi» di Starmer e Macron: senza l’impegno di Trump non si può andare avanti. Ammesso che qualcuno ancora gli creda

Stallo e strisce Ieri vertice Washington-Mosca a Istanbul e coalizione per l’Ucraina a Bruxelles. Oggi gruppo di contatto Nato a Ramstein. Ufficializzate le dimissioni di Bridget Brink, ambasciatrice americana a Kiev. Kallas: «Dobbiamo chiarire i nostri obiettivi, perché un conto è il peace-keeping, un altro la deterrenza»

La coalizione dei volenterosi riunita al Palazzo dell’Elysee a Parigi a marzo foto Ludovic Marin/Ansa La coalizione dei volenterosi riunita al Palazzo dell’Elysee a Parigi a marzo – Ludovic Marin /Ansa

Senza la copertura degli Stati uniti la coalizione dei volenterosi è su un binario morto. È questa la vera notizia uscita dal vertice che si è tenuto ieri al quartier generale della Nato di Bruxelles al quale hanno partecipato i ministri della Difesa di 30 Paesi. Un gruppo riunito da Francia e Gran Bretagna, fondatori e presidenti di questo formato, che si è dato come obiettivo la difesa dell’Ucraina post-bellica. Ma a quale prezzo? Domanda amletica, alla quale gli alti funzionari riuniti ieri non sono riusciti neanche stavolta a dare una risposta.

«DOBBIAMO chiarire quali sono i nostri obiettivi in Ucraina perché un conto è una missione di peace-keeping, un altro il monitoraggio o la deterrenza: i vari Paesi hanno sensibilità diverse su questo punto» ha dichiarato Kaja Kallas, l’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera. Il piano che porta il suo nome per l’invio di forniture militari a Kiev su base volontaria si era già arenato durante l’ultima riunione del gruppo e ieri non se ne è parlato per niente.

Ma il punto resta: se l’Ue, Parigi e Londra non avranno assicurazioni da Washington, i «volenterosi» dovranno sciogliersi, o perlomeno ridimensionarsi fortemente. Non sarebbe una novità, si tratta di una pratica che in inglese si definisce Backstop, ovvero, come si legge sul sito della Treccani, «Il sistema di sicurezza e di garanzia costituito dall’attività militare e di intelligence statunitense a sostegno di truppe appartenenti a nazioni europee, impegnate in operazioni di pace o di stabilizzazione in un contesto di conflitto internazionale».

In altri termini: la Casa bianca accetterà di condividere le informazioni provenienti dai suoi satelliti con il comando della coalizione? Gli altri mezzi «strategici» saranno messi a disposizione dei reparti occidentali e in caso di attacco russo scatterà la copertura aerea dell’aeronautica e del sistema missilistico a stelle e strisce? Se si passeranno tutte le linee rosse, Trump si impegnerà in una guerra diretta con Mosca? Tutte domande alle quali, al momento, la Casa bianca non ha

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