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Bolletta di guerra Nonostante il conflitto, i consumi europei nel corso del 2024 sono addirittura aumentati toccando quota 17% di import dalla Russia. In Transnistria restano in funzione solo le attività del settore alimentare per il sostentamento della popolazione

Kiev vuole lo stop anche al gas liquido da Mosca Moldavia, gasdotto – Ap photo

Chiusi definitivamente i rubinetti del gas, proseguono le polemiche. A rincarare le recriminazioni retoriche di Mosca sulla decisione da parte di Kiev di non rinnovare il contratto con Gazprom, e dunque di sospendere le forniture russe attraverso l’ultima conduttura attiva sul territorio ucraino, ci ha pensato ieri la portavoce del ministro degli esteri Maria Zacharova: «È una mossa che diminuisce il potenziale economico dell’Europa e che andrà a intaccare la qualità della vita dei cittadini europei. Dietro la decisione dell’Ucraina ci sono ovviamente gli Usa, principali beneficiari della redistribuzione del mercato energetico sul territorio europeo».

È VERO che, per quanto si trattasse di uno sviluppo atteso da settimane, lo stop drastico del primo gennaio sta causando diverse difficoltà sui mercati e presso alcuni paesi limitrofi al teatro di guerra, come la Moldova. Qui a risentire dell’assenza del gas russo è soprattutto la regione indipendente de facto della Transnistria, che era fortemente dipendente da Mosca e la cui centrale di Kuchurgan produce l’80% dell’elettricità di tutto il paese. Non a caso, la repubblica centro-orientale ha dichiarato lo stato di emergenza lo scorso 19 dicembre per fronteggiare la crisi energetica in arrivo e aveva provato a negoziare con Gazprom il mantenimento della fornitura (la quale, invece che dall’Ucraina, sarebbe potuta passare per il gasdotto di Turkstream). Tuttavia, l’esistenza di un contenzioso di lunga data fra Moldova e Russia rispetto ai debiti accumulati dal 1991 al 2021 per l’approvvigionamento di gas (sarebbero oltre 700milioni di dollari, che però Chisinau riconosce solo in parte) è servita da pretesto a Gazprom per opporre un netto diniego.

COSÌ IN TRANSNISTRIA sono iniziati disagi e carenze energetiche: le autorità locali riferiscono di numerosi edifici senza riscaldamento, abitazioni disconnesse dal sistema e dell’interruzione di diverse attività produttive (sarebbero rimaste in funzione solo quelle legate al settore alimentare, per garantire il sostentamento della popolazione). Inoltre, ieri, anche dodici cittadine sotto il controllo del governo centrale sono rimaste senza gas naturale. Un reportage di Radio Free Europe parla di situazione «non critica» ma riferisce che le persone si stanno adattando a una nuova realtà fatta di maggiori privazioni. Nonostante i rapporti non idilliaci, Chisinau e Tiraspol stanno dunque provando a collaborare per ridurre l’impatto del disaccoppiamento dal gas russo. Le aziende energetiche delle due parti hanno fatto sapere che sono pronte a trovare nuove fonti di approvvigionamento, è già stato effettuato un test per il transito dal Balkan Gas Hub della Bulgaria. La Romania, inoltre, ha annunciato che ci sarebbe il via libera dall’Europa per raddoppiare la quota di import verso la Moldova mentre a Bruxelles si è tenuta una riunione straordinaria del gruppo di coordinamento sul gas, da cui sono arrivate ulteriori rassicurazioni: «Non sussistono difficoltà di approvvigionamento o di sicurezza». Ma la «controffensiva ucraina» sul gas russo potrebbe non limitarsi alla chiusura del gasdotto.

SE L’EUROPA ha effettivamente ridotto la propria dipendenza energetica da Mosca nel corso del guerra, le importazioni di gas liquefatto dalla Federazione sono invece addirittura cresciute nel corso del 2024, toccando la cifra record del 17% sul totale della risorsa. Il ministro degli esteri ucraino Andrii Sybiha l’aveva definita qualche giorno fa una «situazione inaccettabile», chiedendo pubblicamente che si ponesse fine anche a quest’altra forma di sostegno finanziario al paese aggressore. Sullo sfondo, speculazioni e fluttuazioni internazionali: sul mercato di Amsterdam il prezzo del gas naturale si è alzato del 4%, toccando un nuovo picco dallo scorso ottobre.

 

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Medio oriente Un comitato ministeriale chiude in Cisgiordania la tv accusata di istigare contro l’Anp. Raid colpisce il capo della polizia di Hamas

A Gaza 43 uccisi. E Abu Mazen mette a tacere Al Jazeera

 

Al Jazeera è ufficialmente una nemica dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente Abu Mazen. La rete televisiva grazie alla quale, per oltre 20 anni, la giornalista Shireen Abu Akel, aveva riferito dai Territori palestinesi sotto occupazione militare prima di essere uccisa nel 2022 da colpi sparati da un soldato israeliano, non potrà lavorare più in Cisgiordania. Ampia la condanna della decisione – presa da un comitato ministeriale dell’Anp e valida fino a quando sarà chiarito lo «status legale» della tv – da parte di movimenti politici, partiti, ong, centri per i diritti umani e semplici cittadini, per questo attacco alla libertà di stampa e di opinione, simile a quello attuato lo scorso anno da Israele nei confronti dell’emittente qatariota.

Non tutti i palestinesi partecipano alla condanna di questa mossa liberticida. Il partito Fatah, spina dorsale dell’Anp, ha già ostacolato nei giorni scorsi il lavoro dei reporter di Al Jazeera nel nord della Cisgiordania. Incerta la posizione del Sindacato dei Giornalisti Palestinesi (Pjs) che pure, appena lo scorso novembre, aveva organizzato una importante iniziativa internazionale a sostegno dei colleghi a Gaza dove circa 200 operatori dell’informazione sono stati uccisi dai raid israeliani e Al Jazeera è stata più volte presa di mira. Se da un lato il Pjs chiede all’Anp di annullare la sua decisione e di rispettare la libertà di informazione, dall’altro esorta la tv qatariota «a cessare la sua politica di istigazione…e a interrompere qualsiasi pratica che possa danneggiare l’unità palestinese, la pace civile e l’armonia sociale». Il PJS ha fatto sue le ragioni dell’Anp, pur sapendo che «l’unità nazionale palestinese» di cui parla viene erosa da alcune settimane dall’«operazione di sicurezza» che i reparti speciali agli ordini di Abu Mazen stanno attuando a Jenin tra le contestazioni di buona parte dell’opinione pubblica palestinese. «Mentre Israele attacca e distrugge Gaza e uccide migliaia di civili tra cui giornalisti, l’Anp ha scelto di colpire la resistenza a Jenin e di chiudere Al Jazeera», diceva ieri al manifesto un reporter cisgiordano che ha chiesto di rimanere anonimo alla luce delle decisioni liberticide prese dal comitato ministeriale. «Non c’è alcuna istigazione nel raccontare ai palestinesi e al resto del mondo quanto accade in questa terra, il punto vero è che Al Jazeera è considerata da Israele e anche dall’Anp un mezzo d’informazione che simpatizza con Hamas e per questo vogliono bloccarla», ha aggiunto il reporter.

Se Jenin nel 2022 fu la scena in cui si materializzò l’omicidio di Shireen Abu Akel, Jenin è ora la ragione dell’attacco ad Al Jazeera da parte dell’Anp. La «colpa» della tv è quella di aver criticato l’operazione delle forze di sicurezza dell’Anp a Jenin contro i combattenti armati palestinesi di varie fazioni. Secondo il comitato ministeriale, formato dal premier Mohammed Mustafa, Al Jazeera diffonderebbe informazioni che «istigano contro l’Anp» attraverso «resoconti parziali e materiale controverso», fino ad «interferire negli affari interni della Palestina». Al Jazeera ha replicato accusando l’Anp di aver agito «in linea con le azioni dell’occupazione israeliana contro il suo personale» e per «provare a dissuadere il canale dal coprire gli eventi in rapida escalation che si stanno verificando nei Territori occupati». Ha quindi chiesto di consentire ai suoi giornalisti di riferire liberamente dalla Cisgiordania senza intimidazioni. «Quando Israele ha bandito AJ mesi fa, ho sollecitato le autorità interessate a revocare quella decisione. Ora chiedo lo stesso all’Anp. Il giornalismo non è un reato», ha scritto su X Francesca Albanese, Relatrice dell’Onu per i diritti umani nei Territori occupati. L’Associazione della stampa estera (Fpa) ha espresso «grave preoccupazione». «Questa azione solleva seri interrogativi sulla libertà di stampa e sui valori democratici nella regione. Al Jazeera è stata una preziosa fonte di informazioni sulla situazione nei territori palestinesi, tra cui Gaza», ha scritto in un comunicato.

Come sottolinea la Fpa, i giornalisti di Al Jazeera ieri a Gaza hanno continuato ad operare in condizioni di pericolo e ambientali molto difficili – già costate la vita a diversi dei loro colleghi – per riferire al mondo ciò che accade nella Striscia. Tra mercoledì e ieri, almeno altri 43 palestinesi sono stati uccisi da raid aerei israeliani in tutta Gaza. Alcuni in un’area, Al Mawasi, designata come umanitaria, dove Israele ha colpito il capo della polizia, Mahmoud Salah, e il suo vice, Husam Shahwan, e altre nove persone. Tel Aviv le ha descritte come «terroristi di Hamas». Dopo il bombardamento i soccorritori hanno trovato, oltre ai morti, molti bambini feriti. «Almeno dieci tende sono state danneggiate ed erano visibili incendi» ha raccontato Salim Abu Sabha, un paramedico.

L’accordo per un cessate il fuoco a Gaza sarà al centro di nuovi negoziati oggi in Qatar: Hamas si mostra ottimista, Israele è scettico. Intanto tregua in Libano è sempre più fragile. Ieri l’aviazione israeliana ha colpito presunte rampe di lancio di missili a Iqlim al Tuffah.

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Trattativa in salita per il caso della reporter Cecilia Sala, detenuta in condizioni difficili a Teheran. Il regime degli ayatollah parla esplicitamente di «reciprocità» con la vicenda del ricercatore Abedini arrestato a Malpensa. Ma Washington non la pensa così e stronca qualsiasi ipotesi di scambio

Fate presto L’Iran parla di «reciprocità» con Abedini, ma gli Usa insistono: «No ai domiciliari, potrebbe fuggire». E Roma finisce in un vicolo cieco. Il pg di Milano sul ricercatore: «Resti in carcere». La decisione non arriverà prima di due settimane

Manifestazione per chiedere la liberazione della giornalista Cecilia Sala detenuta in Iran dal 19 dicembre 2024 nel carcere di Evin. Torino, Italia - Domenica, 29 dicembre 2024 - Cronaca - Foto Andrea Alfano / LaPresse Manifestazione per chiedere la liberazione della giornalista Cecilia Sala detenuta in Iran dal 19 dicembre 2024 nel carcere di Evin. Torino, Italia - Domenica, 29 dicembre 2024 - Cronaca - Foto Andrea Alfano / LaPresse

I La parola chiave è «reciprocamente». Compare nelle ultime righe del comunicato con cui la rappresentanza diplomatica iraniana a Roma ha dato notizia dell’incontro tra l’ambasciatore della repubblica islamica Mohammad Reza Sabouri e il segretario generale della Farnesina Riccardo Guariglia. Oggi succederà la stessa cosa a Teheran, cioè l’ambasciatrice Paola Amadei sarà ricevuta al ministero degli esteri. Se tutti ufficialmente continuano a negare che l’arresto di Cecilia Sala a Teheran sia stato una risposta a quello del ricercatore Mohammed Abedini a Malpensa, i due casi corrono in parallelo e quando si parla di trattative per liberare l’una, inevitabilmente si finisce anche con il parlare dell’altro. E viceversa.

L’USO CHE L’IRAN fa del principio di reciprocità, va da sé, è strumentale, ma nella palude della diplomazia rappresenta uno scoglio difficile da aggirare. Quindi il gioco delle parti prevede che se da parte italiana si chiede l’immediato rilascio della reporter arrestata il 19 dicembre, la risposta è di «accelerare la liberazione del cittadino iraniano» preso tre giorni prima.

Stesso discorso per le condizioni detentive: nelle sue telefonate a casa (sempre controllate dalle autorità locali) Sala ha raccontato di star vivendo in maniera terribile, costretta a dormire per terra, con la luce accesa a tutte le ore del giorno e della notte, senza poter incontrare nessuno e senza aver ricevuto i beni di conforto che le erano stati inviati. E ad Abedini, si ribatte, è stato concesso di sentire i suoi familiari solo la mattina del 31 dicembre, quindi dopo due settimane di custodia, e, prima di essere trasferito a Opera, ha dovuto passare alcuni giorni nel carcere di Rossano, in Calabria, dove i detenuti sono quasi tutti lì perché accusati di terrorismo internazionale e molti sono vicini all’Isis, cioè sono sunniti, mentre lui è sciita. Una situazione potenzialmente pericolosissima, sostengono gli iraniani, che assicurano poi di aver fornito alla loro prigioniera «tutte le agevolazioni necessarie».

C’È INFINE IL NODO sulle accuse: quelle rivolte a Sala sono ignote, si parla di «violazione delle leggi della repubblica islamica», senza però dire quali. E l’Iran ribatte: anche Abedini in Italia non è accusato di nulla, eppure è lo stesso in prigione. Il fatto è che al tavolo delle trattative c’è un convitato di pietra, gli

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Cuba nei Brics Una possibilità di mercati in paesi lontani dagli Usa meno condizionati dalle minacce del "bloqueo" ora che inizia l’era Trump 2 con il suo governo di falchi cubano-americani

Marcia di fronte all'ambasciata degli Stati Uniti a L'Avana, Cuba, contro l'embargo economico degli Stati Uniti foto Ernesto Mastrascusa/Ansa Marcia di fronte all'ambasciata degli Stati Uniti a L'Avana, Cuba, contro l'embargo economico degli Stati Uniti foto Ernesto Mastrascusa/Ansa

Nel rendiconto di fine anno di fronte all’Assemblea nazionale del Poder popular, il premier Manuel Marrero ha riconosciuto la sua “insoddisfazione perché non si è realizzato il necessario.. in riferimento a quanto chiede la popolazione”.

Ovvero di poter vivere decentemente col proprio lavoro. L’anno appena trascorso è stato duro per tutti. Per la popolazione che ha visto ancor più ridotti sia le entrate, sia i servizi -, trasporti e soprattutto elettricità (con ben due apagón, blackout, nazionali)- mentre crescevano i prezzi dei generi di prima necessità.

Duro per il governo che ha dovuto affrontare una severa crisi macroeconomica derivata da una tremenda combinazione: lo strangolamento economico imposto all’isola dagli Usa e per errori nelle scelte economiche per cercare di contrastarlo, come, fatto del tutto inusuale, ha riconosciuto il premier.

ANNO DURO per gli “attori economici”-sia statali che privati- chiusi in una gabbia di regole e dall’assenza di una legge sulle imprese, di nuovo posposta- difficili da capire.
La dichiarazione di Marrero significa che il governo cubano è concentrato in un compito enorme ma necessario: ordinare le finanze, diminuire il denaro circolante -700 miliardi di pesos, la gran parte fuori del circuito bancario- e attaccare l’inflazione (a due cifre), instaurare una certa disciplina tributaria, flessibilizzare l’uso di differenti monete circolanti. Il tutto mentre inizia l’era Trump 2 con il suo gabinetto composto in gran parte da falchi cubano-americani.

E con l’urgenza di un malcontento che cresce dopo la poca capacità ( o fallimento) delle misure governative di affrontare la crisi.

Di fronte a questa situazione il governo ha ribadito la necessità di avanzare nell’applicazione del programma di stabilizzazione macroeconomica «con azioni che portino alla decisa riduzione dei squilibri esistenti». Un programma che però ripete in gran parte la strategia anticrisi varato l’anno appena trascorso: incrementare le entrate del paese e la produzione nazionale, recuperare il sistema di produzione elettroenergetico nazionale, dare priorità alla politica sociale – salute, educazione , protezione sociale- procedere nelle innovazioni tecnologiche. Come afferma l’economista Juan Triana, la popolazione però ha visto «gocciolare ben poco nella tavola da pranzo» degli effetti di tale programma. Specie nella produzione di alimenti, visto che in varie province tale produzione è stata inferiore alla pianificata; in particolare quella dello zucchero.

CHE COSA PUÒ CAMBIARE quest’anno? Il governo punta sul fatto che dall’inizio di gennaio Cuba – assieme ad altri 8 paesi- entra nel gruppo dei Brics (originariamente Brasile, India, Cina, SudAfrica). Con i nuovi ingressi, i Brics rappresenteranno il 36% del Pil mondiale, il 37% del commercio mondiale e una quota della popolazione mondiale che si avvicina alla metà (3,5 miliardi).

Dunque una possibilità di nuovi mercati per i prodotti cubani in paesi lontani dagli Usa, meno condizionati dalle (pesanti) minacce extraterritoriali dell’embargo Usa. Anche la decisione dei Brics di misure monetarie per sostituire il dollaro come moneta di scambio possono favorire l’isola caraibica. Una delle misure annunciate dal premier Marrero è infatti la decisione di passare da gennaio dal cambio fisso peso-dollaro a un cambio fluttuante. In sostanza, le case di cambio (Cadeca) del governo proporranno un cambio che dovrebbe avvicinarsi a quello oggi applicato nel mercato nero, al quale si rivolgono soprattutto i privati delle Mypimes (micro-piccole e medie imprese) per comprare all’estero i prodotti necessari.

OGGI QUESTO “MERCATO parallelo” è deciso in sostanza dalla piattaforma di opposizione El Toque (basata in Florida) mediante un algoritmo che esamina le offerte di compravendita on line. Un meccanismo manipolabile e che comunque fino a oggi sfugge al controllo dello Stato cubano. Il quale propone invece ben due cambi fissi, uno per le imprese di 24 pesos per dollaro, l’altro per turisti e persone di 124 pesos per dollaro. Il mercato “parallelo” ha visto un abbassamento del valore del dollaro e dell’euro dopo questo annuncio. Ma nelle ultime ore l’euro è tornato sopra i 300 pesos. Dall’ingresso nei Brics, Cuba si attende anche maggiori aiuti e investimenti dei due principali partner, la Russia (che ha annunciato investimenti in vari settori e cruciale per le forniture di greggio) e la Cina ( che ha appena varato un pacchetto di aiuti per soccorrere l’obsoleto sistema di produzione elettrica e nel settore di produzione di energia fotovoltaica).

Ma per gli economisti amici il punto nodale è che «non si possono ottenere cambiamenti applicando le stesse formule». Il dilemma resta, la strategia proposta è economia di guerra o guerra all’economia?

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Il discorso di Capodanno «Raccogliere l’invito del Papa, eccessiva sproporzione tra i fondi per le armi e per il clima». Il presidente elogia il «patriottismo» di medici, insegnanti e migranti che «amano l’Italia». E denuncia le «condizioni inammissibili» delle carceri. Plauso bipartisan, Meloni gongola per i riferimenti al patriottismo, Schlein loda le parole su giustizia sociale e clima

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante il discorso di fine anno foto LaPresse Sergio Mattarella – LaPresse

La pace che «grida la sua urgenza» di fronte ai gravi conflitti in atto è stata uno dei pilastri del discorso di fine anno di Sergio Mattarella, il decimo del suo doppio mandato al Quirinale (oltre 10 milioni i telespettatori). E ieri il Capo dello Stato è tornato sul tema nel messaggio di auguri a papa Francesco, auspicando che tutti accolgano il suo appello a «gesti urgenti e coraggiosi» in direzione della fine delle guerre. E ha aggiunto: «L’Italia, che ha nel ripudio della guerra e della pena di morte, nel riconoscimento dei diritti e delle libertà fondamentali, e nel perseguimento di pace e giustizia tra le Nazioni i capisaldi della sua Carta costituzionale, non potrà che contribuire a favorire la soluzione pacifica dei conflitti in atto».

NON SONO SOLO PAROLE di consonanza con l’instancabile sforzo diplomatico di Francesco, ribadito ieri durante l’Angelus. Ma anche un invito al nostro paese, al governo e all’Ue che è «una storica espressione di pace», a fare di più per aprire canali diplomatici, in Ucraina come in Medio Oriente. Mattarella ha ricordato anche la «crescita record» della spesa in armamenti, schizzata dopo l’invasione russa dell’Ucraina fino a 2443 miliardi di dollari. «Otto volte più di quanto stanziato alla Cop 29 per combattere i cambiamenti climatici, una sconfortante sproporzione».

Breve ma intensa la citazione per Cecilia Sala, detenuta in Iran: Mattarella esprime «l’angoscia di tutti» per lei, «le siamo vicini in attesa di rivederla al più presto in Italia». E ricorda «il valore della libera informazione», il prezzo pagato dai giornalisti nel racconto delle guerre, il servizio che «rendono alla comunità»,

SULL’ITALIA IL PRESIDENTE evidenzia le «luci» e le «ombre», e tra le seconde cita le lunghe liste di attesa nella sanità che portano molti italiani a «rinunciare alle cure», le «condizioni inammissibili» di vita nelle carceri, con i numerosi suicidi: una situazione ben lontana dalle «norme imprescindibili» che la Costituzione prevede per la detenzione: che deve consentire ai detenuti di respirare «un’aria diversa da quella che li ha condotti all’illegalità e al crimine». Con buona pace di chi in Fdi, il sottosegretario Delmastro, auspica che ai detenuti manchi l’aria.

A fronte di «dati incoraggianti» su occupazione ed export, il presidente prosegue il suo cahier de doléances ricordando la fuga dei giovani all’estero per trovare lavoro, l’abbandono delle aree interne, il perdurante squilibrio di opportunità e servizi tra nord e sud, il disagio giovanile che si manifesta con atti di bullismo, violenze, abuso di droghe e alcol. Un disagio che «va ascoltato e richiede risposte concrete», per ridurre la precarietà del lavoro l’incertezza delle vite che favorisce il calo delle nascite. E ancora, le morti sul lavoro, ultimo il caso di Calenzano, di fronte a cui «non bastano parole di sdegno», ma occorre «agire con responsabilità e severità. E così le alluvioni che non si possono più considerare «fatti straordinari e vanno quindi prevenute con lungimiranza».

MATTARELLA CITA LA PAROLA dell’anno indicata dalla Treccani, «rispetto»: in primo luogo della vita, della libertà e dignità delle donne, troppo spesso vittime della barbarie dei femminicidi. «Non vogliamo più dover parlare delle donne come vittime. Vogliamo e dobbiamo parlare della loro energia, del loro lavoro, del loro essere protagoniste».

C’è nel suo discorso la ricerca di esempi positivi, di cittadini comuni che nel loro agire mostrano come sia possibile reagire a «egoismo, rassegnazione e indifferenza»: persone che mostrano una «tensione ideale», una speranza collettiva che può tenere insieme la comunità. Una trama che «ci consentirà di evitare quelle divaricazioni che lacerano le nostre società producendo un deserto di relazioni».

Il presidente elenca esempi di «patriottismo»: quello dei «medici dei pronto soccorso, che svolgono il loro servizio in condizioni difficili»; degli insegnanti; di chi fa impresa «con responsabilità sociale e attenzione alla sicurezza»; dei giovani che studiano e degli anziani che «assicurano sostegno alle loro famiglie». E anche il patriottismo dei migranti che «amano l’Italia e ne fanno propri i valori costituzionali e le leggi, arricchendo la nostra comunità».

Chiude ricordano che quest’anno sarà l’ottantesimo anniversario della Liberazione. «Siamo chiamati a consolidare e sviluppare le ragioni poste dalla Costituzione alla base della comunità nazionale». E la speranza, dice, «non può tradursi soltanto in attesa inoperosa». Dipende «dalle nostre scelte».

MELONI, CHE HA SENTITO Mattarella la sera del 31 per gli auguri, fa sapere di aver apprezzato «il richiamo al valore fondante del patriottismo», ma anche il riferimento alla necessità di affrontare il disagio giovanile. Schlein invece sottolinea le parole «sulla pace, sulle diseguaglianze, sull’emergenza climatica, sulla precarietà: un richiamo potente alla responsabilità collettiva». Conte e Avs apprezzano in particolare l’alert sulle spese militari. Mentre Salvini affida ogni speranza di pace all’azione di Trump. Un plauso bipartisan, ma è solo di facciata. Come da tradizione.

 

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Israele/Palestina Il direttore del Kamal Adwan, Hussam Abu Safiya, è a Sde Teiman, la prigione delle torture. Appelli internazionali per il suo rilascio. Pioggia e vento distruggono centinaia di tende. Cinque prigionieri palestinesi muoiono in custodia israeliana

Forti venti e piogge hanno allagato diversi campi profughi a Gaza foto Mohammed Saber/Ansa Gli effetti delle forti piogge sulla tendepoli di Deir al-Balah, nel centro di Gaza – Epa/Mohammed Saber

«Dall’inizio della guerra su Gaza, nostro padre ha compiuto sforzi enormi per sostenere un sistema sanitario in rovina. È stato un pilastro per i pazienti e le famiglie del nord di Gaza…ha perso il suo amato figlio, Ibrahim, e lui stesso è stato ferito, ne soffre ancora le conseguenze. Nonostante ciò ha continuato ad adempiere ai propri doveri». È un estratto della lettera con cui ieri i familiari di Hussam Abu Safiya hanno fatto appello alle organizzazioni internazionali e all’Oms perché ne chiedano il rilascio.

IL DIRETTORE del Kamal Adwan Hospital è stato arrestato venerdì, durante l’assalto finale sferrato dalle truppe israeliane al suo ospedale, dopo tre lunghissimi mesi di assedio che nemmeno l’Organizzazione mondiale della Sanità è riuscito a rompere. Nella lettera la famiglia Abu Safiya scrive della detenzione nella famigerata base militare israeliana di Sde Teiman, a poca distanza dalla linea di demarcazione con Gaza.

A darne notizia, in mattinata, era stata la Cnn dopo aver raccolto le testimonianze di tre prigionieri gazawi rilasciati nelle ore precedenti: due di loro hanno detto di averlo visto, un terzo di aver sentito chiamare il suo nome durante una delle numerose conte quotidiane. Israele non conferma il luogo di detenzione, limitandosi a definire Abu Safiya un «sospetto» membro di Hamas, e il Kamal Adwan un centro di comando del movimento islamico, senza fornire prove in merito.

Sui social intanto, dopo la pubblicazione della foto del direttore che in camice bianco cammina verso un carro armato israeliano, svariati account rilanciano un breve video in cui lo si vede entrare nel tank e salutare i soldati, stringendogli la mano. Non mostrano il motivo: il tentativo fallito di «negoziato» per risparmiare pazienti e sfollati, come raccontano i testimoni. Da quel momento iniziano ore di inferno con centinaia di persone – tra cui lo stesso Abu Safiya – spogliate, perquisite e picchiate, per poi essere divise in due gruppi.

Una parte trascorrerà un’intera nottata a un checkpoint prima di essere mandata all’ospedale Indonesiano. Un’altra (tra cui il dottor Hussam come mostrano foto pubblicate dallo stesso esercito israeliano) verrà condotta nel cortile di una scuola dell’Onu svuotata da tempo della sua popolazione rifugiata: nudi e inginocchiati a terra, da lì saranno distribuiti nelle prigioni israeliane.

«Ho sentito chiamare il suo nome durante la conta», ha raccontato Yahya Zaqout, rilasciato domenica. Che a Sde Teiman si trovi lo staff del Kamal Adwan lo conferma Alaa Abu Banat, anche lui liberato domenica: «Li hanno trattati veramente male, specialmente i medici». Ha detto che Abu Safiya è stato picchiato duramente, «che un occhio gli sanguinava».

 

DA DOMENICA sono iniziati ad arrivare gli appelli internazionali, da Amnesty International all’Oms. Il direttore dell’Organizzazione mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha descritto gli ospedali di Gaza come «campo di battaglia», in una dichiarazione facilmente profetica: nelle stesse ore sono finiti sotto i raid israeliani l’Al-Ahli Hospital e lo Wafaa, entrambi a Gaza City. Almeno sette i palestinesi uccisi.

Ieri la relatrice speciale dell’Onu per i Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, ha chiesto alle istituzioni mediche di tutto il mondo di interrompere i rapporti con Israele «come strumento concreto per denunciare la distruzione del sistema sanitario palestinese di Gaza».

La Striscia è un luogo invivibile. Ieri il sesto neonato è morto per il freddo. Ali al-Batran aveva appena un mese, il giorno prima a spegnersi per ipotermia era stata la gemellina Jumaa. Si muore di freddo perché non ci sono protezioni, le tende a disposizione sono poche e sono ormai deteriorate dal tempo, dal vento e dall’acqua: da due giorni una forte pioggia ha allagato le tendopoli, da Deir al-Balah ad al-Mawasi, centinaia i ripari andati distrutti.

«Le persone tremano per il gelo – scriveva ieri la giornalista Hind Khoudary – Parliamo di palestinesi che sono sfollati da oltre 14 mesi. Usano le stesse tende da allora. Non ce ne sono di altri tipi…ed è difficile anche trovare vestiti invernali e coperte. I genitori sono terrorizzati che i loro figli muoiano congelati».

SI MUORE anche in galera: ieri il Palestine Prisoner’s Society ha annunciato la morte di ben cinque prigionieri di Gaza: Ashraf Abu Warda, 51 anni, Mohammad Rashid Okkeh, 44, Samir Mahmoud Al-Kahlout, 52, Zuheir Omar Al-Sharif, 58, e Mohammad Anwar Labad, 57. Non è dato sapere al momento le ragioni. L’Afp ha chiesto spiegazioni alle autorità israeliane, senza ricevere risposta.

Dal 7 ottobre sono almeno 50 i detenuti palestinesi morti in custodia israeliana e oltre 10.300 i prigionieri politici tuttora in cella, tra loro 345 bambini, 89 donne e oltre 3.400 in detenzione amministrativa, senza accuse.

 

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