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Ambiente Nel sito dovrebbero finire i rifiuti radioattivi di tutti gli impianti italiani dismessi più quelli prodotti dal settore medico, dalla ricerca e dall’industria

Manifestazione nel parco archeologico naturalistico di Vulci nel viterbese Manifestazione nel parco archeologico naturalistico di Vulci nel viterbese

Il Parco naturalistico archeologico di Vulci nella Maremma viterbese ha visto sfilare domenica scorsa migliaia di persone (cittadini, comitati, istituzioni, biodistretti, esperti) nella manifestazione organizzata dal comitato Tuscia in movimento – No scorie per dire no al Deposito nazionale e parco tecnologico (Dnpt) destinato a mettere in sicurezza i rifiuti radioattivi di tutta Italia derivanti dagli impianti nucleari dismessi (Caorso, Latina, Trino vercellese e Garigliano), dai settori della medicina, della ricerca, dell’industria.

Alla provincia di Viterbo appartiene il 40% dei 51 siti italiani che la Sogin (la società pubblica che si occupa dello smantellamento delle quattro centrali nucleari italiane e della gestione dei rifiuti radioattivi di varia fonte) ha inserito nella proposta di una Carta nazionale delle aree idonee (Cnai), pubblicata alla fine del 2023 dal ministero dell’Ambiente. La decisione è attesa per il 2026. Nel viterbese, il no è corale. Oltre alla cittadinanza, alla manifestazione erano presenti tutti i sindaci dei territori interessati e di quelli limitrofi, il presidente della Provincia, il vicepresidente della Regione e consiglieri regionali.

La provincia di Viterbo ha presentato ricorso contro la Carta dei siti e anche la Regione è contraria al deposito su tutto il territorio laziale. La protesta unitaria è cresciuta grazie ad assemblee ed eventi, a partire dal corteo spontaneo del febbraio 2024 a Corchiano, dove l’11 maggio si terrà un nuovo appuntamento. Come ha spiegato Famiano Crucianelli, presidente del biodistretto della via Amerina e delle Forre, «il movimento di resistenza è solido, reattivo, senza divisioni e si è sviluppato sulla base di una consapevolezza anche scientifica e tecnica». Sono intervenuti a Vulci, fra gli altri, il geologo Antonio Menghini e l’oncologo Angelo di Giorgio.

Comitati e istituzioni, oltre a sottolineare la mancanza di una vera consultazione delle comunità locali al momento dell’individuazione dei siti, hanno già motivato in più sedi la propria opposizione al deposito nazionale. Tante le ragioni: l’incompatibilità ambientale, culturale ed economica con il territorio e un cammino verso la sostenibilità (i biodistretti sono ben cinque); la necessità di una valutazione dei rischi per la salute delle popolazioni interessate, visti i problemi già presenti (presenza di radon e arsenico) e l’alta incidenza di tumori; le falde idriche a bassa profondità che in caso di incidenti verrebbero contaminate.

In generale, poi, si contesta il previsto stoccaggio delle scorie ad alta pericolosità in un deposito in superficie. Crucianelli indica l’ipotesi sulla quale bisognerebbe operare: «Le scorie ad alta pericolosità dovranno essere destinate a un sito geologicamente sicuro ed europeo; in Italia non è stato possibile individuarne uno in profondità che abbia le garanzie necessarie. In attesa, debbono essere messe in sicurezza dove stanno. Per quelle a bassa intensità, come i rifiuti di origine sanitaria, si può avere una gestione regionale».

 

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E fu sera e fu mattina, terzo giorno: sotto i dazi biblici di Trump le borse crollano di nuovo, già bruciati 10mila miliardi. «Siate coraggiosi, ci arricchiremo»: il presidente tira dritto, minaccia la Cina, attacca i primi prudenti contro-dazi della Ue. L’escalation è già in corso

Andrà tutto bene S&P crolla (e poi recupera), miliardi bruciati con una fake news sull’intenzione del presidente di mettere in pausa le tariffe per 90 giorni

Un trader della borsa di New York foto Seth Wenig/Ap Un trader della borsa di New York foto Seth Wenig/Ap

La settimana azionaria ha registrato il terzo giorno consecutivo di disastro economico, e dopo aver visto precipitare le borse asiatiche ed europee,anche le azioni americane sono crollate durante un lunedì frenetico. Per tutto il giorno Wall Street è entrata ed uscita dal rosso mentre disordini causati dall’attacco di Donald Trump al commercio mondiale entravano nella seconda settimana di instabilità.

L’S&P 500 ha oscillato per tutto il giorno verso il bear market mentre Trump ripeteva di non avere alcuna intenzione di fare marcia indietro sulla guerra commerciale dichiarata al mondo intero la scorsa settimana. A mezzogiorno ora di New York l’S&P, che già usciva dalla sua settimana peggiore da marzo 2020, quando il Covid aveva iniziato a far crollare l’economia globale, era sceso dell’1,4% nelle contrattazioni, il Dow Jones dell’1,9%, e il Nasdaq dell’1,1%.

UNO DEGLI SCOSSONI maggiori è arrivato dopo l’annuncio di Trump, che ha cominciato la giornata minacciando di imporre un ulteriore dazio del 50 % sulla Cina, alzando l’asticella dello scontro in rappresaglia con la risposta cinese alla tassa sulle importazioni messa in atto della Casa bianca . «Se la Cina non ritira il suo aumento del 34% rispetto ai suoi abusi commerciali entro domani, 8 aprile 2025, gli Stati uniti imporranno tariffe aggiuntive alla Cina del 50%, a partire dal 9 aprile», ha affermato Trump su Truth Social.

Il messaggio del tycoon ha dato una nuova accettata al mercato: il Dow Jones, l’S&P 500 e il Nasdaq, che erano già tutti in ribasso, ma avevano recuperato un po’ di terreno dopo il forte calo all’apertura, hanno visto evaporare quel piccolo recupero.

In realtà i mercati avevano recuperato anche a causa di un malinteso causato da una dichiarazione di un certo Walter Bloomberg, che non ha niente a che spartire con l’agenzia di notizie tranne l’omonimia, e che ha fatto il giro dei social. Citando il direttore del Consiglio economico nazionale Usa Kevin Hassett, Bloomberg ha affermato che Trump fosse pronto a uno stop di 90 giorni nei dazi. In risposta, il mercato è salito vertiginosamente, registrando un’impennata dell’8,5% in 34 minuti. In realtà Hassett, intervistato dalla Fox aveva usato «si» come intercalare a una domanda su una pausa di 90 giorni. La smentita lapidaria («Sbagliato. Notizia falsa») è arrivata a tempo record dalla Casa Bianca attraverso Rapid Response 47, l’account social media dell’amministrazione Trump su X, e i mercati sono tornati a crollare. «Un’azione di mercato folle – ha scritto Joe Weisenthal, che gestisce il podcast Odd Lots di Bloomberg (quello vero) – Il mercato è esploso salendo dopo un’affermazione attribuita a Kevin Hassett. Ora che nessuno riesce a capire da dove provenga l’affermazione, i mercati stanno di nuovo crollando.

Un’impennata dell’8% e poi un crollo del 3,5% nel giro di pochi secondi».

QUESTO EPISODIO è il termometro del caos e della disperazione che serpeggia nei

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Un cartello contro i dazi spicca nella manifestazione di New York del 5 aprile contro l'amministrazione Trump

Nella foto: Un cartello contro i dazi spicca nella manifestazione di New York del 5 aprile contro l’amministrazione Trump (Katie Godowski/MediaPunch/IPx)

Oggi un Lunedì Rosso dedicato alla ferocia delle destre al governo. Gli Stati Uniti chiudono lo spazio commerciale.

Il governo Meloni chiude quello democratico. Il tema dei dazi da un lato, quello di un ddl (sicurezza) trasformato in decreto legge per accontentare Salvini dall’altro.

Le destre continuano a mostrare il loro volto più feroce a scapito di tutto e tutti. Zero strategia da parte dell’amministrazione Usa, con il dollaro prossima vittima dei giochi proibiti, mentre l’Ue è in confusione e la Cina già si muove.

Totale rifiuto della Costituzione da parte di Meloni, che sul populismo penale ha costruito il nuovo modello di sicurezza.

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America oggi Oltre mille manifestazioni, la più grande a Washington. Intanto entrano in vigore i «dazi di base» al 10% - nessuno escluso

Gli Usa scendono in piazza: Giù le mani dalla democrazia La manifestazione a Bryant Park (New York) – Marina Catucci

Il giorno dopo il crollo delle borse globali più drammatico dai tempi del Covid, dagli Stati uniti arriva la prima protesta di massa contro Donald Trump (e il suo vice ombra Elon Musk). Più di mille piazze in tutto il Paese, da New York alla California, mentre l’evento principale si è svolto nella città sede del governo – Washington D.C. – dove erano attese 500.000 persone. E dove i manifestanti sono stati raggiunti anche da parlamentari democratici, fra cui Ilhan Omar, Jamie Raskin e Maxwell Frost: «Questa ascesa insidiosa dell’autoritarismo – ha detto Frost – è alimentata da miliardari corrotti e mega corporation che credono di avere il diritto di controllare ogni aspetto delle nostre vite». Il nome della piazza (e di quelle in tutti gli Usa) è Hands Off: giù le mani, a cui ciascuno aggiunge da cosa – gli studenti, i migranti, la sanità, le istituzioni.

L’EVENTO è organizzato da decine di organizzazioni per i diritti umani e della società civile, da MoveOn a Women’s March: «Hanno paura di ciò che stiamo costruendo. E fanno bene ad averne. Non è finita qui, abbiamo appena cominciato – scrive l’organizzazione femminista che ai tempi del primo mandato Trump aveva organizzato una delle più grandi manifestazioni di protesta della storia Usa. Non a caso nella piazza di New York, a Bryant Park, in molti indossano il cappellino rosa di quella storica Women’s March. «Sono qui a protestare per quello che l’amministrazione Trump sta facendo agli studenti. Non ero d’accordo con le manifestazioni dell’anno scorso nelle università, ma è intollerabile che vengano perseguitati per aver espresso il loro pensiero», dice al manifesto Rachel. Edward ha un cappellino rosso Make America Great Again, ma è scritto in cirillico: «Perché Trump – dice – vuole rendere l’America come la Russia di Putin».

LE FERMATE della metropolitana e i treni diretti verso Bryant Park straripavano di persone, nonostante la pioggia che ieri cadeva su New York. Ogni autobus di passaggio suonava il clacson in sostegno ai manifestanti, e quando il guidatore di una Tesla ha avuto la cattiva idea di passare davanti alla piazza è stato accolto da una marea di boati.
Contemporaneamente, a Washington i manifestanti hanno esposto davanti alla sede dell’Ice (Immigration and Customs Enforcement) centinaia di scarpine vuote, a rappresentare i bimbi palestinesi uccisi dalla guerra a Gaza. Mentre sul National Mall i manifesti proclamavano che «L’America non ha re – e non ne ha bisogno».

NELLA NOTTE, prima che si cominciasse a manifestare, è intanto scattata la scure: a mezzanotte e un minuto i dazi di base (baseline tariffs) del 10% hanno iniziato a essere imposti su quasi tutte le merci in ingesso alle dogane portuali e aeroportuali degli Stati uniti. Nessuno sconto neanche per le navi cargo che avevano raggiunto il porto di destinazione entro la mezzanotte – nonostante il Customs and Border Protection avesse concesso un «periodo di grazia» di 51 giorni su carichi a bordo di aerei o navi il cui transito verso gli Stati uniti fosse iniziato prima della deadline di sabato.

Nel frattempo il Senato approvava il piano di budget voluto dai repubblicani (tutti i senatori Gop tranne due, Rand Paul e Susan Collins) diretto ora alla Camera, che sancisce tagli alle tasse mentre sugli americani si stanno per abbattere tasse ben più gravose sotto forma di prezzi gonfiati dai dazi. A scontare le tariffe anche gli accordi su Tik Tok: poco prima della ritorsione di Pechino era stata decisa un’ulteriore proroga di 75 giorni per la piattaforma di proprietà cinese negli Usa. Ma dopo i dazi annunciati da Trump tutte le trattative sono in stand-by.

A INCASSARE il colpo c’è lo stesso segretario del Tesoro nominato da Trump, Scott Bessent, che secondo delle fonti della giornalista Msnbc Stephanie Ruhle starebbe cercando una via di fuga dal suo incarico: «Mi hanno detto che sta cercando una via d’uscita per entrare alla Fed, perché negli ultimi giorni la sua credibilità è stata distrutta». «Quanti Scaramucci è durato?» ci si chiede sui social, usando come unità di tempo la permanenza alla direzione delle comunicazioni della Casa bianca di Anthony Scaramucci, licenziato da Trump durante il suo primo mandato dopo appena 11 giorni.

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STRISCIA DI SANGUE Presi, giustiziati e gettati in una fossa comune, poi dall’esercito solo bugie. La verità riemerge dal telefono di una delle 15 vittime

Strage di soccorritori a Gaza, ecco il video  che inchioda Israele

Le menzogne dell’esercito israeliano sono state smascherate e questa volta nessuno potrà fingere di non vedere. O di non sentire. La voce di un uomo che per cinque minuti e mezzo si prepara ad essere ucciso, prega, chiede perdono e ricorda a se stesso che morirà perché ha scelto di aiutare. È quella di un paramedico, uno dei 15 soccorritori che sono stati giustiziati dai militari di Tel Aviv a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.

IL SUO CORPO, insieme a quello dei suoi colleghi, è stato recuperato alla fine di marzo, dopo una settimana di angoscia e preoccupazione durante la quale non si avevano notizie della squadra inviata a soccorrere le vittime degli attacchi israeliani. Erano partiti il 23 marzo ma giunti nel quartiere di Tal al-Sultan avevano avuto solo il tempo di comunicare alla sala operativa di essere circondati e attaccati dai militari. Poi nessuna notizia. Per otto giorni Israele si è rifiutato di dare informazioni sulla sorte del gruppo, anche solo di comunicare se fossero vivi o morti. Quando finalmente ha consentito l’ingresso, i soccorsi hanno dovuto recuperare i resti dei colleghi da una fossa comune. Alcuni sono stati ritrovati legati e con un colpo di pistola alla testa.

TEL AVIV NON HA NEGATO di aver aperto il fuoco, ma ha dichiarato di averlo fatto contro «veicoli sospetti» che avanzavano «senza fari o segnali di emergenza». Sono state queste le parole di Nadav Shoshani, un portavoce dell’esercito dello stato ebraico.

Eppure, dal cellulare di una delle vittime è stato rinvenuto un video (diffuso ieri dal New York Times) che riprende il convoglio proprio nel momento in cui arriva sul posto e che smonta completamente la versione israeliana. Un mezzo dei vigili del fuoco e diverse ambulanze percorrono la via di Tal al-Sultan alle prime ore dell’alba, hanno tutti i lampeggianti e i fari accesi, le scritte di segnalazione sono perfettamente visibili. Quando sul lato sinistro della carreggiata si vede la carcassa di un’altra ambulanza, la carovana si ferma per controllare. Prima di scendere, il paramedico con il cellulare si accorge che tutt’intorno ci sono i soldati. Un membro della Mezzaluna palestinese si avvicina al mezzo danneggiato, indossa la divisa rossa catarifrangente con il simbolo del soccorso. Fa solo pochi passi prima che inizino gli spari. Lunghe raffiche, mentre il paramedico continua a registrare. Anche se ora si vede solo buio, si sente la sua voce che recita le preghiere e chiede perdono: «Scusami mamma, questa è la strada che ho scelto per salvare le persone». Urla, ordini gridati in ebraico, mentre le raffiche si diradano, diventano più brevi ma più vicine.

DALLE IMMAGINI SATELLITARI recuperate dai media internazionali poco dopo la strage, si scorgono i veicoli sepolti dalla sabbia, tre bulldozer militari e un escavatore e due barriere di terra ai lati di quella che si sarebbe rivelata essere una fossa comune. Israele ha affermato di aver ucciso nove uomini armati di Hamas e del Jihad Islami, ma nella fossa non vi erano corpi di combattenti, solo quelli dei soccorritori. Un membro della squadra è ancora disperso e Tel Aviv si rifiuta di far sapere se sia stato arrestato o ammazzato. La protezione civile palestinese ha chiesto una commissione di inchiesta internazionale per indagare sul massacro. Anche la Mezzaluna rossa, aggiungendo che «L’impunità in un singolo luogo genera impunità in ogni luogo del mondo».

Tel Aviv ha dichiarato che starebbe indagando sull’accaduto. Ma solo in casi rari il Meccanismo di accertamento e valutazione dei fatti dello Stato maggiore (Ffam) ha consentito la prosecuzione delle inchieste sui crimini israeliani e ancora più raro è stato l’avvio di un procedimento penale.

La portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Tammy Bruce, ha già sposato la versione dell’esercito: «per troppo tempo Hamas ha abusato delle infrastrutture civili per proteggersi». Domani il premier israeliano Netanyahu volerà negli Stati Uniti per il suo secondo incontro con il presidente Donald Trump, durante il quale discuteranno di Gaza e della guerra.

INTANTO, A GAZA continuano i massacri. Almeno 30 persone sono state uccise dall’alba al tramonto. Le Nazioni Unite hanno informato che 142mila persone sono state sfollate solo tra il 18 e il 23 marzo. In occasione della Giornata del bambino palestinese, il 5 aprile, l’Ufficio centrale di statistica ha riportato che 17.954 bambini sono stati uccisi dal 7 ottobre 2023, 274 sono nati e morti in guerra. 876 avevano meno di un anno. Il direttore degli ospedali da campo di Gaza, Marwan al-Hams, ha dichiarato ieri che il tasso di mortalità tra i pazienti affetti da insufficienza renale è salito al 42% dei malati totali, a causa della situazione terribile della sanità e dell’embargo di medicinali impostto da Tel Aviv.

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La manifestazione convocata dai 5 Stelle contro il riarmo è un successo. Corteo e piazza gremita, assai più di quella del 15 marzo «per l’Europa». Sfilano i movimenti per la pace e tanta sinistra. Conte, padrone di casa, azzecca la mossa e parla a nome dell’opposizione

Arcobaleno Alla manifestazione di Roma si ritrova un popolo variegato Il leader pentastellato ringrazia «chi c’è e non la pensa come noi»

La piazza piena del Conte pacifista: «Siamo centomila»

«Siamo centomila», dice Giuseppe Conte salutando la folla. La piazza contro il riarmo e per le spese sociali indetta dal Movimento 5 Stelle è un successo. Al di là dei numeri, la scommessa di portare a Roma il popolo della pace, oltre e a prescindere dell’appartenenza al M5S, è riuscita. Lungo il fitto serpentone che da piazza Vittorio raggiunge i Fori si riconoscono molte delle diverse anime del mondo pacifista. E si intravedono le facce di tanti di quelli che in questi anni si sono mobilitati contro la deriva bellicista. La ricomposizione che non era riuscita allo scoccare del conflitto in Ucraina e che ha faticato a mettersi all’opera di fronte al massacro infinito che ha seguito il 7 ottobre in Palestina, sembra materializzarsi sotto le insegne di un redivivo Movimento 5 Stelle.

Che evidentemente (si sa: in politica la necessità diventa virtù) sono apparse ospitali e non respingenti anche per gran parte di quel popolo della sinistra diffusa che da tempo cercava il modo di incontrarsi, manifestare e rendersi visibile.


DA QUESTO PUNTO di vista, il pieno della manifestazione del Movimento 5 Stelle è il frutto di altri vuoti. È fatto del vuoto, parziale eppure tangibile, del Partito democratico, che del no al riarmo ha fatto una lacerante discussione interna e che solo in seguito a una riflessione degli ultimi giorni ha accettato di rispondere all’invito di Conte inviando al corteo una delegazione capitanata dal capogruppo al senato Francesco Boccia. Ed è il frutto della mancanza di uno spazio indipendente e plurale proprio del movimento italiano contro la guerra. Ci ha provato la Cgil, lo scorso 29 marzo, a mettere tutti attorno a un tavolo per discutere di Europa, riarmo, modello sociale e transizione ecologica anziché riconversione militare, ma da troppo tempo manca qualcuno che lanci il cuore oltre l’ostacolo e renda palese l’esistenza di una sfera pubblica di critica alla deriva guerrafondaia.

LA CATTIVA NOTIZIA è che questa occasione è stata colta da una singola forza politica, che ieri è stata in grado di rivestire del suo brand la composizione arcobaleno dei contrari alla guerra. Quella buona, ci sentiamo di dire, è che questa compagine che si palesa nelle strade di Roma è abbastanza irriducibile alla monorappresentanza: non fidatevi di chi si ergerà, da domani in poi, a portavoce di un popolo che è fatto di tante anime e che vuole dire la sua in prima persona e non farsi parlare addosso nel dibattito permanente.

CONTE SEMBRA esserne cosciente quando dal palco dei Fori diffonde parole ecumeniche che sarebbero state impensabili per il M5S di un tempo. «Grazie a chi è in piazza con idee diverse dalle nostre. Vi rispettiamo», dice il leader pentastellato. Il M5S pare consapevole della sua scelta di campo, sul fronte progressista. Prima che sul piano nazionale, questa collocazione ha riflessi sulle interlocuzioni che si sono avvicendate sopra e sotto il palco dell’evento romano, tra i relatori e in mezzo alla gente: i 5 Stelle di Conte, alla prima grande uscita pubblica dopo l’avvio della fase post-Grillo, sembrano avere introiettato la loro collocazione a sinistra e la casa comune del gruppo The Left in Unione europea. Ecco dunque Nicola Fratoianni col verde Angelo Bonelli, il comunista Maurizio Acerbo e Marc Botenga del Partito del lavoro belga. Servirà ancora una buona dose di coraggio per rompere l’ultimo tabù, e magari schierarsi anche a favore del referendum sulla cittadinanza di giugno, ma la piazza contro il riarmo è apparsa solidamente, e con pochissime sbavature che non vale neanche la pena di evidenziare, come una piazza che interloquisce a sinistra.


SCORRENDO gli slogan e le parole del 5 aprile, sorge un’altra domanda, da leggersi come opzione relativa alla grammatica politica e non come giudizio di merito. Questa: esiste uno

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