Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

Due mesi fa l’annuncio di Meloni di un «piano casa» per l’emergenza abitativa. Poi più niente e ora tocca a Salvini ammettere che nella legge di bilancio c’è zero. Solo tagli, ma non al ponte sullo Stretto. La manovra divide ancora la destra che litiga sul mini sacrificio delle banche

Manca un piano Al meeting di Cl il leader leghista aveva assicurato un intervento già nella manovra di dicembre. Ma Giorgetti rimanda al 2027

 

Matteo Salvini durante la visita al cantiere della quinta corsia A8 Linate Matteo Salvini durante la visita al cantiere della quinta corsia A8 Linate – (Ansa/Sergio Pontoriero)

Ci ha pensato il ministro Salvini a far capire che il Piano casa del suo governo è senza risorse e senza idee. Annunciato in pompa magna lo scorso agosto al Meeting di Rimini dalla premier Meloni, consiste in appena 660 milioni previsti dalla legge di bilancio per il 2027.

RISORSE che il leader leghista ha ammesso essere sufficienti solo per «un progetto pilota in ogni regione», di cui peraltro l’esecutivo non ha ancora fissato le linee guida che avrebbero dovuto arrivare entro l’estate. Non solo: «Ho bisogno che i soldi vengano in parte anticipati al 2026», ha detto ieri a Milano il ministro delle Infrastrutture, a cui è stata affidata la gestione del piano. Peccato che Salvini sieda al dicastero che ha subito più tagli in finanziaria, per volere del suo ministro Giorgetti: 1,3 miliardi nel prossimo triennio, 520 milioni solo nel 2026.

Niente Piano casa né metropolitane ma il Ponte sullo Stretto (circa 13,5 miliardi) non si tocca. Salvini si è giocato una carta ormai consunta: «Chiederò che una parte dei fondi arrivi con gioia ed entusiasmo dalle banche» dato che «negli ultimi tre anni hanno fatto 112 miliardi di utili». Salvini ha specificato che «non c’è nessun accanimento» contro di loro: l’invocazione populista gli è servita per prendere applausi, nonostante dimostri che le casse pubbliche sono drammaticamente vuote anche per un’emergenza primaria come quella abitativa.

MA IL PIANO CASA è insufficiente anche per i contenuti, oltre che per le risorse. Un vero e proprio piano in realtà non esiste, trattandosi solo di un vago annuncio per dare «case a prezzo calmierato» alle giovani coppie e famiglie. A quelle parole, pronunciate dalla premier a Rimini e ripetute anche ieri come un disco rotto, non è mai seguita l’approvazione del dpcm che avrebbe dovuto essere emanato entro il 30 giugno 2025. Da quando l’ultima legge di bilancio ha stanziato i 660 milioni, Salvini e Meloni non fanno altro che parlare del Piano casa senza averne deciso i contenuti. Qualcosa si aspettava in questa manovra, invece non c’è nulla.

Giorgetti ha detto che sarà finanziato col Fondo sociale per il clima, ma nemmeno lui ha precisato i dettagli

Commenta (0 Commenti)

America oggi Tre socialisti newyorkesi alla guida dell'ala sinistra del Partito Democratico americano: un ebreo, una cristiana e un musulmano

Bernie Sanders, Zohran Mamdani e Alexandria Ocasio-Cortez al comizio di Forest Hills, foto Daniel Perkins Bernie Sanders, Zohran Mamdani e Alexandria Ocasio-Cortez al comizio di Forest Hills – foto Daniel Perkins

Durante il comizio di domenica allo stadio Forest Hills, nel Queens, preceduto dagli interventi di Alexandria Ocasio-Cortez e di Bernie Sanders, il candidato democratico a sindaco di New York City, Zohran Mamdani, si è assicurato un posto tra le grandi star socialiste del Paese. Nello stesso stadio dove sessant’anni prima avevano suonato i Beatles, 15.000 persone sono accorse, in un pomeriggio che di ora in ora si è fatto sempre più freddo, iniziando a mettersi in fila alle 15 e restandoci fino alle 21, per ascoltare quello che ormai è il trio più carismatico della politica Usa, scandendo in coro lo slogan di Mamdani: New York non è in vendita.

Non è comune che per una campagna elettorale locale si riempia uno stadio e accorrano i media internazionali, anche se la città in questione è New York. Ma questa non è una campagna elettorale normale, è un movimento. Fino ad ora Sanders, Ocasio-Cortez e gli altri socialisti democratici eletti in cariche pubbliche avevano elaborato leggi, spinto a sinistra il partito democratico e periodicamente guidato il dibattito politico nazionale. Ma non avevano mai conquistato una carica esecutiva con tanto potere quanto quella di sindaco di New York City, per di più in un momento in cui la Casa Bianca ha un inquilino di estrema destra, anche lui newyorkese. «Noi siamo l’incubo peggiore di ogni fascista – ha detto dal palco Ocasio-Cortez – Dobbiamo ricordare che in un momento come questo, non siamo noi i pazzi, New York City. Siamo sani di mente a chiedere alloggi a prezzi accessibili e dignitosi, un salario dignitoso, il diritto all’assistenza sanitaria, che paghiamo per prenderci cura della nostra gente, invece di radere al suolo i palestinesi e le persone oppresse all’estero».

Prima di lei comici, poeti e attivisti avevano portato la loro testimonianza, circondati da cartelli con le scritte “assistenza all’infanzia universale”, “congelare gli affitti” e “rendere gli autobus veloci e gratuiti”, i tre punti principali del pericoloso programma socialista di Mamdani, tutti accolti da applausi scroscianti. La folla ha invece fischiato ogni volta che è stato menzionato Trump, specialmente quando ad intervenire è stato Brad Lander, revisore dei conti di New York e alleato di Mamdani, che ha dichiarato: «Non è Donald Trump contro Zohran Mamdani, è Donald Trump contro i newyorkesi».

La super moderata governatrice di New York Kathy Hochul, che a settembre ha dato il suo endorsement a Mamdani e non a Cuomo, di cui è stata la vice, ha dovuto incassare un po’ di fischi e di rimproveri da chi le ha ricordato, gridandoglielo, che avrebbe il potere di tassare i ricchi. Ma questi fischi erano messi in conto, visto che le posizioni dei 15.000 accorsi, non erano ne’ centriste ne’ moderate, ma fieramente socialiste. «Socialista non è più una brutta parola – dice Amina, 58enne del Bronx – Non avrebbe mai dovuto esserlo. Vuol dire che ti interessi agli altri, ai loro diritti, al loro benessere, e non solo a ciò che ti riguarda personalmente».

L’accoglienza più calorosa, il pubblico l’ha riservata all’84enne Sanders, che la sera era in Indiana con Ocasio-Cortez per un comizio e per ritirare un premio intitolato a Eugene Debs, il leader sindacale e candidato alla presidenza a cui Bernie attribuisce il merito di aver sviluppato la sua visione politica. «In un momento in cui gli americani sono estremamente preoccupati per la situazione attuale della nazione, economicamente e politicamente – ha detto Sanders – una vittoria qui a New York darà speranza e ispirazione alle persone in tutto il nostro Paese e in tutto il mondo».

È da quando si era ritirato dalle primarie del 2016 che Sanders aspettava un momento come questo. In quell’occasione aveva lanciato la sua no profit Our Revolution, con lo slogan «le campagne finiscono, un movimento resta», chiedendo alla sua base di non smettere con l’impegno, ma di mettere in atto «una rivoluzione politica per sfidare il potere dei plutocrati e dare priorità ai bisogni delle persone e del nostro pianeta». La richiesta era stata accolta da Ocasio-Cortez, come ha raccontato più volte lei stessa, e il suo esempio da Mamdani: «Il senatore» Sanders «ha osato combattere da solo per così tanto tempo – ha detto Mamdani durante il comizio – Io parlo il linguaggio del socialismo democratico solo perché lui l’ha parlato per primo». E questo è stato il primo comizio di tutti e 3 insieme: «Quando abbiamo lanciato questa campagna un anno e tre giorni fa – ha continuato Mamdani – non c’era una sola telecamera a riprenderla. Il mio nome era un’anomalia statistica in ogni sondaggio. Quattro mesi dopo il nostro sostegno aveva raggiunto livelli impressionanti: l’1%. Ero conosciuto come ‘altri candidati’».

A turno tutti gli interventi hanno ricordato che bastano pochi voti a cambiare il risultato di un’elezione («A Burlington sono diventato sindaco per 15 voti», ha detto Sanders) ed hanno esortato tutti a portare quante più persone possibile a votare per Mandami. La vittoria di Mamdani a New York, non solo invierebbe un messaggio di sfida a Trump, ma rafforzerebbe l’idea che il modello socialista può essere replicato in tutto il paese.

Il manifesto dell’evento che campeggiava sul palco evocava una nuova troika, con i tre socialisti alla guida dell’ala sinistra del Partito Democratico: un ebreo, una cristiana e un musulmano. Ma tutti newyorkesi.

Commenta (0 Commenti)

Hero image

Oggi un Lunedì Rosso dedicato al rapporto tra passato e futuro.

Due studiosi, Bashir e Goldberg, a partire dai traumi storici di israeliani e palestinesi, Olocausto e Nakba, prefigurano la possibilità di un binazionalismo egualitario.

Il potere monarchico e imperiale che faceva sfoggio della ricchezza commissionando fastosi e pacchiani gioielli torna oggi attuale grazie a un’altra, seppur poco nobile arte, quella della rapina.

La possibilità di viaggiare nel tempo e cambiare il passato per determinare il futuro per ora rimane un argomento dei film, ma la fisica quantisca sta ampliando gli orizzonti di ciò che chiamiamo reale.

Nella foto: Javier Milei ottiene un successo alle elezioni legislative di medio termine, Argentina, via Ap

Per iscriverti gratuitamente a tutte le newsletter del manifesto vai sul tuo profilo e gestisci le iscrizioni.

https://ilmanifesto.it/newsletters/lunedi-rosso/lunedi-rosso-del-27-ottobre-2025

 

Commenta (0 Commenti)

29/05/2024

La separazione delle carriere dei magistrati (Pm che fanno indagini e giudici che emettono sentenze) è un punto, controverso, che ritorna ciclicamente ogni volta che si parla di riforme della giustizia. Cerchiamo di capire che cosa è e se davvero converrebbe a noi comuni cittadini

  Elisa Chiari Giornalista, a Famiglia Cristiana dal 2001. Si occupa  in prevalenza di sport e giustizia, con qualche incursione nella cultura.

La separazione delle carriere dei magistrati (Pm che fanno indagini e giudici che emettono sentenze) è un punto, controverso, che ritorna ciclicamente e viene a galla da decenni ogni volta che si parla di riforme della giustizia. Cerchiamo di capire che cosa è e se davvero converrebbe a noi comuni cittadini.

CHE COSA SI INTENDE PER SEPARAZIONE DELLE CARRIERE
In Italia magistrati requirenti (Pubblici ministeri, quelli che fanno le indagini) e magistrati giudicanti (giudici di Tribunale e Corti) appartengono alla stessa carriera, nel senso che sono selezionati da un unico concorso e dei loro trasferimenti e dei loro procedimenti disciplinari si occupa il Consiglio superiore della magistratura. La Costituzione stabilisce che la magistratura è autonoma e indipendente ed è soggetta soltanto alla legge. E i magistrati si distinguono tra loro soltanto per funzioni. Chi chiede la separazione delle carriere vorrebbe (sulla carta) imporre all’inizio della carriera una scelta radicale e definitiva tra una funzione e l’altra, un programma tra le altre cose presente nel disegno sovversivo del piano di Rinascita di Licio Gelli.

DA PM A GIUDICE E VICEVERSA, QUANTE VOLTE ACCADE NELLA REALTÀ
Nel corso del tempo le funzioni sono state sempre più rigidamente separate, a partire dalla riforma Castelli del 2006, che ha reso il passaggio
dal ruolo di Pm a quello di giudice e viceversa parecchio scomodo e quindi poco ambìto, tanto da renderlo marginale: tra il 2011 e il 2016, per dire, il passaggio ha riguardato rispettivamente lo 0,21% dei requirenti e lo 0,83 dei giudicanti, laddove nella seconda metà degli anni Novanta erano nell’ordine rispettivamente del 6/8,5% e del 10/17% (dati ufficio statistico Csm). Se ne evince che con la riforma dell’ordinamento il problema è divenuto numericamente sempre meno significativo. Sono numeri destinati a ridursi ancora da quando la riforma Cartabia (2022) ha ridotto la possibilità del passaggio da quattro a una sola volta in carriera, nei primi dieci anni. Anche perché già da prima servivano cinque anni di permanenza nel ruolo e un concorso di idoneità ogni volta, ma soprattutto perché si tratta di cambiare distretto e anche Regione e a volte nemmeno basta, perché è precluso anche l'ufficio competente per legge a occuparsi di indagini che coinvolgono magistrati del distretto di provenienza (quindi un Pm di Torino non può fare il giudice - e viceversa - nel distretto di Milano, uno di Roma nel distretto di Perugia e così seguitando). Per cambiare funzione bisogna andare più lontano: vuol dire cambiare città, terremotare vite e infatti lo si chiede sempre più di rado. A meno che non si cambi proprio mestiere passando dal civile al penale e viceversa, il che è improbabile e molto raro.

PERCHÉ SE NE PARLA SPESSO
Chi chiede carriere separate sostiene che la modalità attuale renderebbe meno paritarie le parti del processo (Pm e avvocato) davanti al giudice. Ma in Italia il Pm non è un avvocato dell’accusa, non ha il dovere di portare a casa la condanna (come invece l’avvocato ha il dovere di fare il possibile per ottenere la sentenza più favorevole al suo cliente), ma ha l’obbligo di indagare per la verità, cioè cercando anche le prove a favore dell’indagato, se ce ne sono che lo scagionano, tanto che se si convince che l’indagato sia innocente deve chiedere l’archiviazione in Udienza preliminare e, pure, se al termine del dibattimento si convince che la prova che si è formata davanti al giudice non confermi l’ipotesi della pubblica accusa, anche se il suo compito è stato di sostenerla in udienza, deve chiedere l’assoluzione dell’imputato.
Tutto questo a maggiore garanzia dell’imputato di come sarebbe se il Pm fosse un avvocato dell’accusa, parte tout court e non parte imparziale come è ora. Sotto la richiesta delle carriere separate in realtà si nasconde il sospetto che l’appartenere alla stessa carriera determini un giudice meglio disposto verso Pm che verso l’avvocato difensore. Ma le
statistiche (fonte inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 in Cassazione) smentiscono questo pregiudizio, se è vero che in primo grado le assoluzioni sono il 50%. Il problema in questo caso potrebbe venire dal fatto che una parte di questi dibattimenti che finiscono in assoluzioni potrebbe essere evitata se fosse più robusto il filtro in udienza preliminare: è questo un tema già affrontato nel 2022 dalla riforma Cartabia che ha rafforzato il filtro del Gip. Ma questo non ha nulla a che fare con la separazione delle carriere. Chi non condivide l’idea della separazione nota tra l’altro che curiosamente nessuno di quelli che temono giudici appiattiti sul Pm ha mai chiesto, invece, di separare le carriere di giudici di primo e di secondo grado e gli stessi dalla Cassazione. Eppure anche loro giudicano sull’operato di altri giudici con cui condividono Csm, concorso e cultura.

CARRIERA COMUNE O SEPARATA, CHE COSA GARANTISCE DI PIÙ IL CITTADINO
Chi sostiene l’importanza di mantenere come da Costituzione le carriere, il concorso e la formazione unite, lo fa in nome dell’importanza di mantenere una comune cultura della giurisdizione tra giudice e Pm. Cerchiamo di capire che cosa significa: se un Pm ha in comune il metodo di ragionamento con il giudice, sa ragionare come lui, ne condivide la formazione, si rischia meno che diventi un super poliziotto, sarà più affidabile nel verificare la saldezza della propria ipotesi di accusa prima di portarla al vaglio del giudice. Perché poi è anche da questo che si giudica un Pm: come diceva Falcone, andare a dibattimento contro i mafiosi con prove che non reggono è un regalo che si fa alla mafia, quindi meglio saper fare un passo indietro prima, al momento di verificare la saldezza delle prove e la tenuta del rispetto delle regole formali.
Non per caso, proprio per quella cultura comune tra Pm e giudice, come vediamo anche nei telefilm e nei legal thriller costruiti sul modello italiano, il Pm è quello che “rompe le scatole” sulle regole al Montalbano di turno, impedendogli fughe in avanti quando il commissario è tentato di andare per le spicce alla sostanza. Anche perché la polizia giudiziaria dipende funzionalmente dal Pm che è tenuto a sorvegliare sul rispetto delle norme. Nella realtà questo aspetto, che unisce il Pm alla cultura del giudice più che a quella del poliziotto, garantisce meglio chi si trova sotto accusa, specie se non è di quelli che possono pagarsi difensori principi del foro.

UN TEMA TECNICO CHE NE NASCONDE UNO POLITICO
Spesso accade che il dibattito sui temi della giustizia, come affermava Giovanni Maria Flick nell’intervista pubblicata sul numero 21/2021 di Famiglia Cristiana, sulla carta molto tecnici nascondano in realtà divergenze tutte politiche. Il tema della separazione delle carriere, da trent’anni lacerante, è uno di questi: il tema è tecnico, è delicato valutare le conseguenze della riforma, non è qualcosa di cui il comune cittadino possa facilmente afferrare le ricadute al di fuori degli slogan. Ma sono in molti a ritenere che dietro il tema tecnico, ormai statisticamente marginale, di permettere o non permettere a Pm e giudici di passare da una funzione all’altra e quanto, si nasconda in realtà l’intento politico di cominciare da qui per assoggettare progressivamente l’ufficio del Pm all’esecutivo, col risultato che a quel punto sarebbero i Governi a decidere di volta in volta (a seconda del colore e del consenso) quali cassetti un Pm può aprire e quali no.
Ma in questo caso il rischio è che un cittadino, uguale agli altri davanti alla legge secondo l’articolo 3 della Costituzione, possa diventare un po’ meno uguale e che il divario tra potenti e comuni cittadini si stringa o si allarghi, a seconda che il Governo di turno decida che i cassetti del potere possano essere aperti o debbano restare chiusi.
CHE COSA DICE L'ESPERIENZA PASSATA E PRESENTE
La storia e anche il presente (in Polonia, in Ungheria, in Turchia) insegnano che meno è indipendente la giurisdizione, più è attratta sotto l’egida dei Governo, meno garanzie si danno al cittadino nelle maglie della giustizia. Anche per questo il Consiglio d’Europa non per caso almeno dal 2000 – vedi Rec. (2000) 19 ¬– nei documenti in cui si ragiona di armonizzazione dei sistemi giudiziari europei, suggerisce di favorire cultura comune tra giudici e Pm e di non impedire il passaggio tra le funzioni e indica la indipendenza del Pubblico ministero come il modello cui tendere per l’Ue.

RIFORMA CARTABIA, UN SOLO PASSAGGIO
Con la riforma Cartabia, giunta a destinazione dopo una complicata mediazione politica tra posizioni molto distanti nel governo di larghe intese con a capo Mario Draghi, i passaggi di funzioni sono stati ridotti nel corso del 2022 da 4 a 1, cosa che dovrebbe nei fatti ridurre ai minimi le effettive richieste di transizione da una funzione all'altra. Nel 2022 le richieste di passaggio di funzione sono state 25, nel 2023 34 forse lievemente accresciute dal fatto che se passasse la riforma non sarebbe più possibile cambiare (dato Csm, allegato al parere sulla riforma del gennaio 2024) su un organico di quasi 10.000 magistrati, con le nuove regole in vigore questi numeri marginali sono destinati a ridursi ancora perché la legge prevede che il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa (art. 12) possa avvenire soltanto una volta nel corso della carriera entro 10 anni dalla prima assegnazione delle funzioni. Trascorso tale periodo, è ancora consentito, per una sola volta, il passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, purché l'interessato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali; il passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti civili o del lavoro, in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, purché il magistrato non si trovi, neanche in qualità di sostituto, a svolgere funzioni giudicanti penali o miste. Nella pratica il secondo passaggio implica che si cambi lavoro, cioè si finisca ad agire su un diverso rito procedurale, passando dal penale al civile o al diritto del lavoro. Una cosa difficilissima e assai improbabile perché implica la fatica improba di acquisire gli automatismi di un rito processuale diversissimo.
Al momento i numeri fanno pensare che i rari casi di richiesta di cambio di funzioni riguardino casi quasi estremi: o chi ha accettato, non avendo più altri posti disponibili, una prima nomina molto lontana dalla propria residenza e voglia riavvicinarsi o chi si trovi per contingenze che si modificano nel corso della vita in una situazione di incompatibilità "ambientale". (Es. Un figlio diventato avvocato nello stesso foro..., l'aver sposato nel mentre un collega con funzioni incompatibili o un avvocato della stessa città...e magari per non finire in una sede troppo lontana ci si adatta a cambiare funzione per averne una più comoda).
Neppure questo, che è una separazione delle funzioni nei fatti, però è bastato a togliere la questione dal dibattito, cosa che dimostra che il tema è nella realtà più politico che tecnico. Non per caso era oggetto di uno dei referendum indetti nel 2022 con il sostegno inedito di Lega e Radicali, che non hanno raggiunto il quorum. Non per caso è tuttora uno dei cavalli di battaglia del ministro della Giustizia del Governo Meloni Carlo Nordio e torna d'attualità con più forza ogni volta che sale la tensione tra potere esecutivo e potere giudiziario.

IL DDL PER LA SEPARAZIONE TARGATO MELONI COMINCIA IL SUO ITER

La bozza di disegno di Legge targato Governo Meloni in tema di separazione delle carriere entra ufficialmente in Consiglio dei Ministri il 29 maggio 2024, citato all'ordine del giorno con queste parole: «Schema di disegno di legge costituzionale: Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare». La tempistica, molto vicina a una tornata elettorale, finisce per evidenziare la valenza politica della questione. La calendarizzazione è solo l'inizio del complesso iter previsto per le norme che modificano la Costituzione.
Facile prevedere che il tema, non di poco momento per le sue implicazioni, farà discutere a lungo. Anche la citazione all'ordine del giorno dell'istituzione di una Corte disciplinare, che si vorrebbe a sostituire la sezione disciplinare del Csm che attualmente si occupa dei procedimenti disciplinari dei magistrati, è destinata a tenere banco nel dibattito. Non nuova come idea, già ventilata in passato anche in punti diversi dell'arco parlamentare, pone infatti il complesso problema di come disegnarla in modo da garantire l'autonomia e l'indipendenza della Corte, perché a cascata, data la delicatezza del potere decisionale in ambito disciplinare, potrebbe ripercuotersi indirettamente sull'indipendenza e l'autonomia della magistratura previste dalla Costituzione. Il Ddl approvato in Commissione Affari costituzionali alla Camera il 3 dicembre 2024, approdato "blindato" in aula a Montecitorio l'8 gennaio 2024, ne è uscito con l'approvazione alla prima lettura il 16 gennaio, non senza polemiche per la cosiddetta blindatura del testo, senza cioè possibilità di apportare modifiche tramite emendamenti. Trattandosi di riforma costituzionale richiederà una doppia lettura in entrambe le Camere e, in mancanza di maggioranza dei due terzi, un referendum confermativo.

LA FORMA E LA SOSTANZA
Il Governo Meloni nel sostenere la separazione asserisce di non avere alcuna intenzione di ridurre l'indipendenza del Pm, formalmente è possibile che questo sia vero come primo passaggio, ma la preoccupazione principale viene dal fatto che l'approvazione della riforma porterebbe a un ufficio di Pm separato, e come tale troppo forte e troppo vicino alla Polizia e dunque meno garantista, e che una qualche forma di assoggettamento all'esecutivo, in conseguenza dell'effetto della modifica della separazione, possa avvenire in un secondo momento a breve scadenza o da parte di un Governo successivo.

Un adagio, citato spesso dai costituzionalisti, vuole che "le Costituzioni siano le regole che i popoli si danno da sobri, perché valgano anche nel caso in cui si cada in preda ai fumi dell'alcol", il suo significato sta a indicare che per precauzione sarebbe il caso usare la massima cautela nel modificare le Carte costituzionali, nei punti che impattano su principi democratici (l'indipendenza della magistratura è uno di questi), perché i Governi passano, mentre le Costituzioni restano e nessun governo, quand'anche possa garantire sulla propria sobrietà - fuor di metafora sulle proprie inappuntabili intenzioni -, potrà prendere impegni contro l'ebbrezza dei governi successivi e per conto di chi verrà dopo.

CHE COSA PREVEDE IL DDL COSTITUZIONALE IN DISCUSSIONE

1. La separazione delle carriere di pm e giudici da selezionarsi con due diversi concorsi, senza più possibilità di passare da una funzione all’altra nel corso dell’attività lavorativa.

2. La divisione e duplicazione del Consiglio superiore della magistratura (Csm), l’organo di autogoverno previsto dalla Costituzione. Ora è unico e composto per 2/3 di magistrati (“togati”) eletti dalla magistratura e per 1/3 di giuristi eletti dal Parlamento in seduta comune (“laici”). Con la riforma si sdoppierà, mantenendo le proporzioni: un Csm per i pubblici ministeri e uno per i giudici. Cambia radicalmente il modo di entrare a farne parte: i togati saranno scelti con un sorteggio puro tra tutti i magistrati; i “laici”, con un sorteggio “temperato”, su un elenco di nomi eletti dal Parlamento. Insomma, sui togati decide il caso; sui laici la politica si riserva un margine di scelta. Entrambi presieduti dal presidente della Repubblica, i due Csm conservano i compiti attuali (nomine, trasferimenti, valutazioni di professionalità di magistrati e pareri consultivi al Governo), ma perdono la competenza disciplinare.

3. La riforma affida, invece, i processi disciplinari per i magistrati a una, tutta nuova, Alta corte, composta da 15 giudici: tre nominati dal presidente della Repubblica (che ne fa parte con il primo presidente e il procuratore generale della Cassazione); tre sorteggiati da un elenco predisposto dal Parlamento; sei tra magistrati giudici e pm estratti a sorte. Il Csm ha dato alla riforma parere contrario.

Commenta (0 Commenti)

Presidenziali Contro il genocidio di Israele, per la riunificazione dell’isola. Sostenuta da tutta la sinistra, vince con uno schiacciante 63%

Catherine Connolly lascia in bicicletta la Claddagh National School nella città di Galway dopo aver votato Catherine Connolly lascia la Claddagh National School nella città di Galway dopo aver votato – Foto di Brian Lawless/PA Images via Getty Images

«Vogliamo una repubblica di cui essere orgogliosi, una repubblica che non chiuderà mai un occhio di fronte alla normalizzazione del genocidio, alla normalizzazione della questione dei senzatetto o delle oscene liste d’attesa». Sono parole di Catherine Connolly, la neoeletta Presidente d’Irlanda (questo il titolo costituzionale di chi vince le presidenziali indette nella Repubblica). Connolly succede a Michael D. Higgins, il poeta presidente che conclude in questi giorni il suo secondo mandato, e indubbiamente il più amato e rispettato capo di stato irlandese degli ultimi decenni.

L’elezione è avvenuta con una percentuale schiacciante del 63% contro il circa 30% della sua competitor. Si registra però un astensionismo record. L’affluenza al voto è sotto il 46% e la percentuale dei voti nulli è altissima, quasi l’8%.

CONNOLLY, COME HIGGINS, è stata iscritta al Labour Party. Ne è poi uscita per concorrere da candidata indipendente in parlamento, dove si è sempre distinta per le sue battaglie per la giustizia sociale, contro le diseguaglianze e contro l’interventismo occidentale nei conflitti in corso.

Inizialmente, quando ha annunciato la sua candidatura, è stata sostenuta soltanto dai partiti a sinistra del Labour, i Social Democrats e People Before Profit. Solo in un secondo momento si è unito anche il suo vecchio partito. Così ha fatto anche Sinn Féin, cambiando decisamente le sorti della sua candidatura.

Alcune dichiarazioni di Connolly nelle settimane precedenti il voto non lasciano adito a fraintendimenti circa la sua collocazione a livello internazionale. Su Israele, protettorato e avamposto del potere statunitense, ha affermato che «il genocidio è stato consentito e finanziato dal denaro americano», e ha espresso tutta la sua preoccupazione per l’industria militare e i suoi enormi profitti. Ha criticato, ad esempio, la Germania, che «sta ridando vita alla sua economia attraverso l’industria militare», e spiegato che la plurisecolare storia di colonizzazione subita dall’Irlanda «ci consente di avere una prospettiva unica sul mondo, e dobbiamo usare la nostra voce per la pace». Sulla Nato ha dichiarato, «non abbiamo niente da guadagnare e tutto da perdere nell’unirci ai poteri forti. Possiamo parlare di pace solo se manteniamo la nostra credibilità di stato neutrale».

I CRITICI L’HANNO SPESSO sollecitata sul suo presunto antiamericanismo, e negli ultimi giorni di campagna elettorale le è stato chiesto come si sarebbe comportata se avesse dovuto accogliere Trump in visita in Irlanda, dove possiede un golf resort. Connolly, impassibile, ha spiegato che l’avrebbe accolto cordialmente, salvo poi aggiungere che, se l’eventuale discussione verterà sul genocidio, «allora sarà tutta un’altra storia».

Questa e altre dichiarazioni hanno irritato non pochi in Irlanda, in primis tra i banchi del governo di centrodestra, che subisce una chiara lezione da queste presidenziali. I due partiti di cui si compone non hanno saputo esprimere un candidato unico. All’inizio i concorrenti erano due, Jim Gavin di Fianna Fail, costretto a ritirarsi per uno scandalo riguardante una proprietà in affitto (sebbene il suo nome sia rimasto sulla scheda e abbia ottenuto il 7% delle preferenze), e Heather Humphreys di Fine Gail, protestante originaria di una zona al confine tra Sud e Nord, rimasta in corsa fino alla fine ma senza mai suscitare davvero empatia con gli elettori.

La vittoria di Connolly, oltre alla inedita “riunificazione” delle sinistre, si deve senza dubbio al sostegno di Sinn Féin. Non a caso la presidente, nelle settimane passate, ha fatto spesso riferimento alla questione nazionale, e in termini inequivocabili. Ha detto di considerare la riunificazione irlandese una «conclusione scontata», anche perché «l’articolo 3 della costituzione dà voce alla ferma volontà del popolo irlandese di avere un’Irlanda unita». Non ha mancato, poi, di augurarsi di vedere questo scenario, già durante il suo settennato.

Connolly è una figlia del popolo cresciuta in una famiglia proletaria nel sobborgo di Galway. Il padre, carpentiere e impiegato nelle costruzioni navali, ha dovuto crescere una famiglia di 14 figli, dopo la scomparsa della moglie. Trasferitasi in Inghilterra, Connolly ha ottenuto un master in psicologia e una laurea in legge. E prima di dedicarsi interamente alla politica è stata avvocata e psicologa clinica.

SEBBENE DAL PUNTO di vista istituzionale sembrerebbe non esserci stato alcuno scossone, una delle partite più difficili, per Connolly, sarà proprio quella di confrontarsi con l’eredità immensa di Higgins, un presidente artista che, come e più di lei, negli ultimi quattordici anni non ha mai lesinato feroci critiche all’ordine mondiale, scagliandosi, ad esempio, sin dall’inizio contro le politiche genocidarie di Israele, di cui ha ricevuto gli strali.

Altra incognita per lei sarà il momento di grande complessità sociale in cui avviene il passaggio di consegne. Ad esempio, nei giorni passati a Dublino si sono viste proteste violente nei pressi di un albergo che ospita immigrati e richiedenti asilo. I tumulti, scatenati dalla presunta notizia di una violenza sessuale subita da una giovane nelle vicinanze dell’hotel, sono stati sedati con fermezza dalla polizia, bersagliata però da sassaiole e lanci di petardi. Le forze dell’ordine sono state costrette a presidiare per giorni il sito.

SI TRATTA DI EVENTI non più così rari in Irlanda, alimentati dalla destra pro Brexit alleata delle frange oltranziste del Nord. Nulla sembra suggerire che l’atmosfera si alleggerirà a breve. Soprattutto dopo che Sinn Féin in settimana ha proposto a governo e parlamento una mozione per iniziare a pianificare formalmente un processo che, nei loro auspici, dovrebbe portare alla riunificazione.

Commenta (0 Commenti)

La manifestazione Landini non scioglie i nodi sullo sciopero che i sindacati di base hanno già proclamato

"Democrazia al Lavoro" Manifestazione Nazionale indetta dalla CGIL © Andrea Sabbadini "Democrazia al Lavoro" Manifestazione Nazionale indetta dalla CGIL – Andrea Sabbadini

Non abbiamo scritto Jo Condor sulla fronte». Il riferimento di Landini al personaggio delle pubblicità di Carosello tradisce la sua età e difficilmente è stato colto dai giovani in corteo ma, nel giorno della manifestazione della Cgil, il segretario generale, pur senza voce, può tirare un sospiro di sollievo.

La partecipazione è altissima. Forse non le 200 mila persone che annunciano dal palco, ma di certo più del triplo dei manifestanti previsti dalla questura, 30 mila. Quando la testa del corteo è arrivata a piazza San Giovanni, la coda si era appena mossa dal punto di partenza: il percorso è stato un unico manto rosso intervallato dal bianco nero delle kefiah e dalle bandiere palestinesi. «E siamo solo noi», è il commento fiero di un delegato della Basilicata. Intendendo dire che al corteo non ci sono i movimenti, come in quelli dei primi di ottobre, perché era una manifestazione esclusivamente sindacale e nonostante questo i numeri ci sono. «Le prove di esistenza in vita ci riescono bene – ironizza una militante – l’organizzazione Cgil è imbattibile».

GLI ATTACCHI CONTINUI della maggioranza al sindacato di corso Italia hanno contribuito a serrare le fila. Le polemiche interne seguite alla sconfitta ai referendum e alla titubanza nell’aderire alla mobilitazione contro il genocidio (chiamata prima dai sindacati di base) rimangono sullo sfondo davanti alla necessità di difendere la Cgil dalle accuse della premier. Meloni ha individuato in Landini il nuovo nemico e questo è un colpo di fortuna: anziché indebolire la leadership del segretario generale l’ha rafforzata.

«È in atto una campagna esplicita contro la Cgil, siamo descritti come quelli che non fanno sindacato, che vogliono fare politica. Ma questa piazza dimostra come fa sindacato la Cgil, difendendo le persone, rilanciando un’altra idea di paese – ha attaccato Landini nel suo intervento conclusivo -. Le piazze piene sono cose nuove che vengono dal basso, dal popolo, c’è chi non le vuole vedere e anzi demonizza chi manifesta perché ha paura della democrazia, perché chi manifesta colma l’incapacità della politica di dare una risposta a una disuguaglianza che non ha precedenti, chi manifesta non si è voltato davanti al genocidio di Gaza». Sul palco si alternano le testimonianze dei lavoratori come il docente precario che denuncia il definanziamento della scuola pubblica. L’operaio del distretto del divano racconta le condizioni para schiavistiche del suo comparto: «Turni massacranti tutta la settimana ma siamo venuti lo stesso a Roma».

INTERVENTI anche da Maria Elena Delia, portavoce italiana della Global Sumud Flotilla («l’economia di guerra è alla base di ogni problema di questo paese: inflazione, blocco dei salari, sanità e scuola») e dal giornalista di Report minacciato dalla criminalità, Sigfrido Ranucci. Salvini ha accusato il segretario della Cgil di parlare da ministro di un eventuale governo Schlein, Landini ha replicato: «È lui che non parla da ministro. Ma non era Salvini a dire in campagna elettorale che avrebbe cambiato la legge Fornero? Oggi l’Italia è il paese con l’età pensionabile più alta di tutta Europa, in gara con la Grecia, aridatece la Fornero!».

QUELLA CHE MANCA in piazza è proprio la segretaria dem, che ha mandato una delegazione: alla spicciolata si sono fatti vedere Bonafoni, Casu, Corrado, Cuperlo, D’Attorre, Scotto e Zingaretti. Non c’è neanche il presidente del M5S, Conte, che in queste ore sarà riconfermato dal voto on line della sua base. Ci sono invece Fratoianni e Bonelli di Avs che commentano: «C’è un’Italia che dice stop alle bugie di Meloni, all’aumento della povertà assoluta e della la pressione fiscale, ai tagli al trasporto pubblico per finanziare il ponte sullo Stretto e il mercato delle armi». Ha aderito anche Rifondazione Comunista, di solito considerata più vicina ai sindacati di base che, anche questa volta, hanno anticipato la Cgil convocando uno sciopero generale per il 28 novembre.

Dopo Usb e Cub, hanno aderito Cobas, Adl, Clap e Sial, lasciando ancora il cerino in mano al sindacato di corso Italia. Che sul punto rimane vago: «Avanzeremo al parlamento e al governo le nostre richieste di modifica alla manovra, che è una truffa per estorcere miliardi al lavoro dipendente e ai pensionati – ha dichiarato Landini – e lo diciamo in modo chiaro anche a tutte le altre organizzazioni sindacali, perché vogliamo proseguire andando avanti insieme: non ci fermeremo e se non ci saranno date le soluzioni che chiediamo siamo pronti a mettere in campo tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione».

LA UIL, PERÒ, non è più della partita: il segretario Bombardieri si è già smarcato dagli scioperi contro il genocidio e intende continuare a farlo, per non rimanere schiacciato tra la Cgil di piazza e la Cisl di governo. A meno di un’accelerazione per incrociare la mobilitazione degli studenti del 14 novembre, non rimangono molte altre date, oltre a quella del 28. E a Landini non conviene arrivare ancora una volta ultimo.

Commenta (0 Commenti)