Diritti Maratona oratoria in piazza: un popolo si ritrova e si mescolano lotte e campagne
Chissà se i magici poteri della porta alchemica appoggiata un po’ clandestina a un angolo dei giardini di piazza Vittorio sarà di buon auspicio per i cinque sì che chiede la Cgil l’8 e 9 giugno prossimi. Di certo il sindacato ha scelto di tenere nel quartiere che fu sabaudo, poi multietnico e ora anche gentrificato, la sua maratona oratoria a sostegno dei referendum. Le regole sono uguali per tutti: tre minuti a intervento. Le regole sono uguali per tutti: tre minuti a intervento. E qui, oltre ai leader delle opposizioni, si ritrova un popolo variegato di oratori istantanei (incredibile per gli usi della sinistra: quasi tutti riescono a stare nel tempo) consapevole della difficoltà di raggiungere il quorum. Ma l’appuntamento è un terreno ormai imprescindibile per costruire l’opposizione sociale alle destre.
SOPRA E SOTTO IL PALCO c’è un seggio simbolico. Ogni relatore, prima di guadagnare il pulpito, mette la scheda nell’urna con fare plateale. La normalità del voto diventa un gesto di sfida, quasi di disobbedienza. «Chiedendo di non andare a votare hanno fatto un errore politico – dice il segretario generale Cgil Maurizio Landini – Molta gente lo ha capito e andrà a votare proprio per questo». Il primo intervento è dedicato, in maniera eloquente, al sesto referendum: quello che non ci sarà (e che secondo molti avrebbe potuto trainare più facilmente il voto verso il quorum). Marina Boscaino del comitato contro l’autonomia differenziata dice che «bisogna esserci a qualunque costo senza farsi influenzare da chi ha giurato sulla Costituzione ma la viola ad ogni passo». Il filo conduttore di molti interventi è anche il ragionamento che Landini sta portando in questi giorni in giro per il paese: senza partecipazione la democrazia si indebolisce e vincono sempre le destre. Per Giampiero Cioffredi di Libera «la democrazia costituzionale nata dalla Resistenza non è soltanto a rischio: è già stata ferita. Ma c’è un popolo che si attrezza per una nuova pedagogia della democrazia». «Questi referendum ci riguardano perché riguardano la vita concreta e il modo in cui vogliamo vivere» aggiunge Maura Cossutta della Casa internazionale delle donne.
«LA SPOLITICIZZAZIONE del paese è avvenuta» constata, citando una cupa profezia pasoliniana, Pierluigi Sanna, sindaco di Colleferro, presidente della provincia di Roma e volto emergente del Pd laziale. Questa è l’altra faccia della medaglia: lo spettro di un’Italia che ha perso ogni fiducia nella politica e che nel gorgo della disillusione ha trascinato anche i referendum, nati come istituto di democrazia diretta ma troppo spesso disattesi (in molti citano il precedente prima travolgente e poi disperante del voto sull’acqua pubblica del 2011). Landini indica l’obiettivo, consapevole che queste ultime tre settimane saranno fondamentali. «In questi giorni girando per l’Italia osservo un clima che sta crescendo – dice ai suoi – C’è una reazione a chi vuole togliere i diritti».
IL CLIMA DI CUI PARLA il leader Cgil riguarda anche il dipanarsi di un’agenda in cui l’8 e il 9 giugno sono momenti chiave che rimandano ad altre alleanze e al mutuo appoggio tra battaglie diverse. «Siamo consapevoli dei limiti del referendum – dice ad esempio il costituzionalista Gaetano Azzariti – Dopo il referendum si tratterà di cambiare molto più di quanto non si pensi, ma questo voto apre una strada per far prevalere le ragioni delle persone su quelle del mercato». Ad esempio c’è la rete nazionale contro il Dl sicurezza, che prepara l’appuntamento del corteo nazionale del 31 maggio. Spiega così il metodo di questa lotta Valentina D’Amore: «Stiamo facendo una cosa semplice e rivoluzionaria: costruire convergenza». «La piazza e le persone che animano la campagna referendaria stanno dando una prova di orgoglio a questo paese – fa notare Amedeo Ciaccheri, presidente del municipio Roma VIII – Non sarà facile, come sempre le cose dobbiamo conquistarcele. L’8 e il 9 giugno daremo alla destra una lezione di democrazia, ma sappiamo che non finirà in quell’occasione». «Questo referendum è parte anche di un grande progetto educativo, perché – riflette il docente e scrittore Christian Raimo – Molta gente non sa più cos’è l’uguaglianza o come si sciopera. E questo progetto educativo deve proseguire».
PRIMA PERÒ c’è da rivendicare l’informazione corretta: ieri mattina si è ma nifestato davanti a tutte le sedi regionali della Rai. «I tg hanno dedicato lo 0,62% del tempo ai referendum», sciorina i dati Vincenzo Vita. «La Rai non può stare su questi temi con chi chiede alla gente di starsene a casa» reclama il segretario Usigrai Daniele Macheda. «Abbiamo davanti ancora una ventina di giorni – è l’invito di Landini – Questi giorni vanno usati nel modo migliore, perché è chiaro a tutti che il referendum non è semplicemente un voto per qualcuno. È un voto per cambiare leggi balorde. E per ridare un futuro al nostro paese».
Commenta (0 Commenti)Silenzio di bomba Il frastuono incessante dei raid a poca distanza, aiuti bloccati, fame e burocrazia come arma di guerra. Reportage dal valico di Rafah. Il progetto di Israele resta la privatizzazione e la militarizzazione dell’assistenza
I confini non sono tutti uguali, alcuni sono fortezze invisibili. Definiscono la linea immateriale che c’è tra vivere e morire. Il valico di Rafah è un guscio vuoto da un anno esatto: era il 6 maggio 2024 quando i tank israeliani presero possesso dell’unica porta sul mondo che Gaza conosce da decenni. Si posizionarono sulle macerie una manciata di ore dopo il lancio dell’offensiva finale contro la città di Rafah. Quel giorno i palestinesi hanno perso un valico fisico e un’idea: quella di una libertà in potenza, come lo può essere il cancello di una prigione.
La presa del confine ha significato anche la riduzione graduale e mortifera all’ingresso degli aiuti. Prima entravano a Gaza da due punti, Karem Abu Salem a est e Rafah a sud. È rimasto solo il primo. Non lo sapevamo ma era il primo passo verso il blocco totale: Israele lo ha imposto il 2 marzo scorso, in pieno cessate il fuoco. Le bombe sarebbero tornate dopo, il 18 marzo.
IL LATO EGIZIANO del valico di Rafah è cambiato. Non ci sono palestinesi in uscita e non ci sono più i minibus dell’agenzia Hala, la società egiziana che ha fatto profitto dal genocidio: 5mila dollari a testa e famiglie dissanguate per passare dall’inferno a un esilio disperato, senza diritti.
C’è un pezzo di muro in più, proprio davanti all’ingresso pedonale, embrione – chissà – di una barriera senza brecce possibili.
Soprattutto non ci sono camion di aiuti. Non li si vede più attraversare i checkpoint del Sinai militarizzato da un buon decennio di “lotta al terrorismo”. Sono spariti anche dai parcheggi intorno Rafah, tramutati quasi in cittadine: i ritardi imposti da Israele, i rifiuti, la burocrazia come arma di guerra hanno costretto centinaia di autisti egiziani ad attendere settimane, mesi, per consegnare aiuti salvavita alla popolazione palestinese. Nel parcheggio a poca distanza dal valico, una spianata di terra gialla rovente, erano comparsi persino una moschea e un minimarket.
Di camion ne restano un migliaio. Gli altri 9-10mila accumulati nei mesi di blocco sono stati svuotati dalla Mezzaluna rossa egiziana, i carichi riposti nel magazzini. Costava troppo: «Cento dollari per camion al giorno. Alcuni aspettavano da due mesi: il costo del camion era più alto del valore del prodotti che conteneva». Lofty Gheit è il capo delle operazioni della Mezzaluna, si dice orgoglioso del sistema che l’associazione si è inventata: qrcode, catene del freddo mobili per i vaccini, freezer per le medicine, nuovi compound dove stoccare decine di migliaia di tonnellate di aiuti.
QUANDO PARLA, davanti al valico fantasma, lo interrompono le bombe. Cadono ogni pochi minuti. Una, due, tre, dieci. È la mattina del 18 maggio 2025, una delle più feroci: dal sorgere del sole l’aviazione israeliana ha ucciso 120 palestinesi. «A ottobre 2023 potevamo mandare 20 camion al giorno, all’apice abbiamo raggiunto i 300. Ma di là ci sono due milioni di persone, è una goccia nell’oceano». Snocciola la procedura – come arrivano gli aiuti, via aerea, via terra, via mare, come sono tracciati – e sembra quasi che racconti una quotidianità scontata. Parla al presente, ma a Gaza non entra niente dal 2 marzo. «Siamo pronti in qualsiasi momento a ripartire, il problema è il blocco dall’altra parte», dice alla fine.
QUALCHE ORA DOPO, domenica sera, arriva il comunicato stampa di Benjamin Netanyahu anticipato dalla stampa israeliana: il governo ha approvato la ripresa immediata dell’assistenza umanitaria a Gaza. I dettagli scarseggiano. Il premier israeliano ieri ha tenuto a precisare che si tratterà di aiuti «minimi» e che lo sblocco è stato frutto delle «pressioni degli alleati» stanchi «di vedere la fame».
Ha detto anche che la decisione servirà a garantire il successo dell’operazione Carri di Gedeone. A metà tra la rassicurazione all’ultradestra e a un’opinione pubblica anestetizzata e una considerazione reale: «Per ottenere la vittoria dobbiamo in qualche modo risolvere il problema», ha detto Netanyahu citando governi occidentali non identificati che avrebbero “minacciato” il ritiro del supporto.
RESTA LA QUESTIONE di chi e come consegnerà gli aiuti e il processo ormai in corso di privatizzazione e militarizzazione dell’assistenza. Ieri pomeriggio l’ufficio Onu per gli affari umanitari, Ocha, ha fatto sapere di essere stata «contattata dalle autorità israeliane per riprendere una consegna limitata». Il piano israelo-statunitense seguirà a breve, forse già dal 24 maggio: sei, forse otto centri di distribuzione concentrati a sud, dice l’Onu, «a sostituire i 400 punti gestiti dal World Food Programme e distribuiti in tutta la Striscia». Chi vuole mangiare deve spostarsi.
I centri saranno affidati alla neonata Gaza Humanitarian Foundation, che – secondo fonti diplomatiche – ha nel suo board ex funzionari delle Nazioni unite e del Dipartimento di Stato. Saranno circondati dall’esercito israeliano, la sicurezza interna gestita da contractor privati. I beneficiari – uno solo per nucleo familiare – dovranno ricevere un’autorizzazione e sottoporsi a controlli biometrici per accedere e ricevere pacchi per la famiglia. Solo alimenti e solo le calorie utili a sopravvivere; esclusi medicinali, tende, kit igienici e tutto quel che serve a una vita dignitosa. Lo strumento migliore per la pulizia etnica di tre quarti di Gaza: saranno i palestinesi ad andarsene seguendo il cibo.
L’ONU SARÀ tagliata fuori, insieme al piano in cinque fasi che Ocha ha presentato venerdì: ingresso da corridoi umanitari in Giordania, Egitto e Israele; ispezione; trasporto monitorato per evitare saccheggi; arrivo nei grandi hub di Gaza; e distribuzione nei centri presenti su tutto il territorio. «Il meccanismo si fonda sulla risoluzione 2720 del Consiglio di Sicurezza, ci spiegano fonti Onu in Egitto: «Con il piano israeliano cambia il paradigma: il passaggio dal principio umanitario al profitto privato e l’uso dell’assistenza umanitaria come strumento politico, o addirittura di guerra».
INTANTO IN NORD SINAI, i due grandi magazzini della Mezzaluna strabordano. Nel primo un gruppo di operai è al lavoro per costruire altri compound. «Occupa un’area di 50mila metri quadrati – dice Mostafa Ibrahim, capo missione della Mezzaluna rossa egiziana – Ne abbiamo un altro, più piccolo, di 30mila».
QUI UNO DEI TENDONI custodisce le merci rifiutate. Rispetto a un anno fa, quando lo visitammo, i prodotti rigettati dall’esercito israeliano sono di meno: donatori e Mezzaluna hanno ormai capito su cosa viene scritta la lettera X, rejected, e non li inviamo più. È comunque un tour dell’orrore. Lofty indica ciò che a Gaza è proibito: «Pannelli solari, stampelle, sedie a rotelle, giocattoli rifiutati per il tipo di contenitore, tende se c’è del metallo, sacchi a pelo per il colore militare, generatori, torce solari, bombole di ossigeno, kit da cucina perché contengono coltelli e cucchiai, kit di pronto soccorso a causa delle forbicine, frigoriferi per i vaccini». Il confine tra la vita e la morte.
Commenta (0 Commenti)In una lunga telefonata con Trump, Putin parla di «compromessi che vadano bene a entrambe le parti» per fermare l’aggressione all’Ucraina. Annuncia un «memorandum» che Zelensky «valuterà». Niente tregua, ma il presidente Usa informa i leader Ue per intestarsi il timido passo in avanti
Un filo Lunga telefonata tra Casa bianca e Cremlino, la pace in Ucraina è una cosa a due. Solo «informati» Zelensky e gli alleati europei
«Ho appena concluso la mia chiamata di due ore con il Presidente Vladimir Putin della Russia. Credo che sia andata molto bene». Inizia così il lungo post pubblicato da Donald Trump su Truth, il suo social network. Il presidente degli Stati uniti aveva bisogno di tornare protagonista dopo settimane di attese e rimandi, dopo l’aumento dei malumori nella sua stessa amministrazione per l’attendismo sfacciato di Putin.
E IL CREMLINO si è mostrato ricettivo alle necessità del tycoon: «Siamo sulla strada giusta» per giungere a un cessate il fuoco in Ucraina, replica Mosca. Quale strada? Le fonti del Cremlino non lo specificano ma chiariscono che per la fine delle ostilità sarà necessario un lavoro «minuzioso e forse lungo», pur dichiarandosi «aperti a compromessi». Il colloquio con Trump è stato «franco e molto utile» e Putin si è anche detto «pronto a lavorare con Kiev su un memorandum per una pace futura». Allo stesso tempo, il portavoce del presidente, Dmitry Peskov, ha dichiarato alla stampa russa che al momento «un incontro diretto con Trump non è in preparazione». Persino Zelensky si è detto «pronto a studiare l’offerta russa su un memorandum», ma al momento Kiev afferma di non aver ricevuto alcun dettaglio.
In altri termini, le parti coinvolte si sono affrettate a dire la loro sulle dichiarazioni di Trump, ma se ci sia stato un avanzamento concreto non è dato saperlo. «Russia e Ucraina inizieranno immediatamente negoziati verso un cessate il fuoco e, cosa più importante, verso la fine della guerra», ha scritto il presidente Usa. Non è proprio così, le parti hanno già iniziato a trattare, o meglio: si sono accordate su uno scambio di liste di priorità per giungere a un cessate il fuoco. Il Cremlino sta preparando la sua, ha dichiarato ieri il portavoce Peskov. E sappiamo che al centro c’è la questione dei quattro territori occupati dall’inizio della guerra più la Crimea.
ANCORA PESKOV non ha «escluso» che
Leggi tutto: Trump chiama e Putin risponde: «Negoziati subito, forse dal papa» - di Sabato Angieri
Commenta (0 Commenti)Nella foto: Manifestanti si riposano durante il corteo per commemorare il 77° anniversario della Nakba palestinese, a Kuala Lumpur, in Malesia via Getty
Oggi un Lunedì Rosso dedicato all’ultima chiamata di Gaza al mondo.
Come le video chiamate tra la giornalista iraniana esiliata a Parigi Sepideh Farsi e una giovane fotografa della Striscia, Fatma Hassouna, nel documentario presentato a Cannes: Put your soul on you hand and walk.
Conversazioni virtuali tra le due donne in cui emerge la verità quotidiana dell’orrore, della morte e della fame che colpisce la popolazione, ma anche una commovente dignità, umana forza che si rifiuta di soccombere.
La proiezione ha suscitato fortissime reazioni nel pubblico e tra i critici anche per la notizia sopraggiunta nei giorni precedenti che la fotografa protagonista del video racconto e la sua famiglia sono stati uccisi in un raid israeliano.
Israele intanto ha dato avvio a una nuova operazione militare da terra chiamata Carri di Gedeone.
Chiara Cruciati ne racconta i suoni che si possono udire al di là del valico di Rafah dove oltre a migliaia di camino di aiuti bloccati si trova anche una delegazione internazionale che chiede il cessate il fuoco.
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Palestina La carovana solidale arriva nel luogo che più di altri simboleggia il genocidio: c'è tutto, medici, ambulanze, aiuti, eppure non c'è niente perché dal 2 marzo Gaza è privata di ogni supporto. Dall'altra parte del muro giunge il boato soffocato delle esplosioni: in poche ore Israele ha ucciso oltre 120 palestinesi. E annuncia l'avvio dei "Carri di Gedeone"
La carovana solidale italiana "Gaza oltre il confine" al valico di Rafah, 18 maggio 2025 – Chiara Cruciati
A cinquanta chilometri di distanza il suono delle esplosioni arriva come un boato soffocato. Lungo la costa di Al-Arish, in Sinai, l’eco interrompe per qualche secondo lo scroscio dell’acqua sul bagnasciuga. Come fossero fuochi d’artificio in lontananza. Gli egiziani che vivono qui dicono di aver iniziato a sentire le bombe che si abbattono su Gaza un anno fa, quando partì l’operazione terrestre su Rafah.
Era il 6 maggio 2024, da quel giorno i tank israeliani hanno occupato il lato palestinese del valico che conduce in Egitto, dopo averlo distrutto e reso inservibile. Era l’unica porta di Gaza sul mondo fuori, il passaggio all’esterno, l’idea di una libertà in potenza, come lo è il mare.
OGGI IL VALICO di Rafah è un guscio vuoto, una porta su quello che dovrebbe essere e non è: di qua, sul lato egiziano, ci sono i paramedici e gli operatori della Mezzaluna rossa egiziana, ci sono le ambulanze ferme, ci sono due magazzini da 50mila metri quadrati talmente pieni di aiuti umanitari che stanno costruendo nuovi compound. C’è un sistema di accoglienza, stoccaggio e distribuzione degli aiuti provenienti da tutto il mondo che ha raggiungo livelli di organizzazione che un anno fa non esistevano. Tutto per rendere più rapida la consegna e abbattere il rischio che, a Gaza, arrivino prodotti danneggiati.
C’è tutto, eppure non c’è. Il valico è un non-luogo, surreale, il confine tra la vita e la morte e l’immagine plastica del genocidio: una popolazione prigioniera, affamata e bombardata, separata da aiuti salvavita, nell’ormai chiaro obiettivo di avviare un processo inesorabile di espulsione. In un luogo invivibile, non si può vivere.
La carovana solidale italiana “Gaza oltre il confine” arriva in un valico che si è trasformato. C’è un nuovo pezzo di muro in cemento, sembra l’embrione di una chiusura che può diventare definitiva. C’è la strada sterrata che conduce verso nord, verso il valico di Karem Abu Salem, ma nessun camion la percorre dal 2 marzo scorso. Non ci sono più i capannelli di “operatori” dell’agenzia egiziana Hala, quella che per un anno e mezzo ha gestito l’uscita dei palestinesi dalla Striscia, con tariffe che hanno dissanguato le famiglie, fino a 5mila dollari a persona per stare sotto un cielo senza bombe.
Alle 9.30 del mattino, Israele ha già ammazzato oltre cento palestinesi in poche ore. I raid sono caduti e cadono ovunque, sono incessanti: a Rafah se ne sente uno ogni pochi minuti, il boato soffocato e la consapevolezza che ogni esplosione significa morte.
Yousef Hamdouna è di Gaza. Era uscito qualche settimana prima del 7 ottobre 2023, da allora non è potuto più tornare. Lavora per l’ong italiana Educaid. Davanti al valico fa quello che fece un anno fa, durante la prima carovana: chiama sua sorella Manal di là dal muro. «Mi ha detto che hanno finito il cibo, che hanno finito l’acqua. Che ieri notte hanno bombardato in modo terribile. Non sa dove fuggire, non lo sa nessuno. In sottofondo sentivo i bombardamenti intorno a lei, lei sentiva quelli vicino a me».
CON UN GESSETTO BIANCO Yousef segna il contorno di piccole t-shirt da bambino. La carovana organizzata da Aoi, Arci, Assopace Palestina in collaborazione con l’intergruppo parlamentare per la pace tra Palestina e Israele, composta da oltre sessanta persone tra deputati di Avs, M5S e Pd, operatori umanitari e giornalisti, ha poggiato a terra, davanti all’ingresso del valico, peluche, giocattoli, vestitini e le foto di alcuni bambini uccisi a Gaza dai raid israeliani, a simboleggiare i 18mila minori ammazzati in questa offensiva, ma anche le
Commenta (0 Commenti)Negoziati La Casa bianca accelera: colloqui telefonici anche con Kiev e gli alleati della Nato
Ucraina, bus distrutto da un drone russo – Getty Images
Domani Trump parlerà al telefono con Putin. Il presidente Usa l’ha annunciato con la solita enfasi di maiuscolo e punti esclamativi sul suo social network Truth. «I temi della telefonata saranno la fine del “bagno di sangue” che sta uccidendo, in media, più di 5.000 soldati russi e ucraini alla settimana, e il commercio». Non ci si dovrebbe scandalizzare per il fatto che migliaia di morti (al netto delle cifre arbitrarie che cita Trump, ma il numero è comunque altissimo) vengono accomunati al commercio: questa è l’America che vuole il tycoon, quella grande di nuovo, che dove può fa affari e nel resto dei Paesi prepotenze.
DOPO LA TELEFONATA con il Cremlino Trump chiamerà Zelensky e infine, insieme a quest’ultimo, «vari membri della Nato». La Casa bianca «spera» che ci sia il cessate il fuoco. Ma l’aveva spiegato meglio il segretario di Stato Marco Rubio al suo omologo russo Sergei Lavrov, nel breve colloquio telefonico che i due capi della diplomazia dei rispettivi Paesi hanno avuto ieri. Trump vuole il cessate il fuoco immediato e poi si dovrà seguire il piano proposto dagli Usa. Il dipartimento di Stato in una nota successiva ha chiarito che Rubio ha trasmesso un «forte messaggio» alla controparte. In altri termini, Trump sta per attuare la sua vendetta per il forfait dei vertici russi a Istanbul. Vuole inchiodare Putin a un impegno concreto, cosa che finora Mosca ha sempre evitato. In un’intervista alla Fox poco dopo il rientro dal tour mediorientale aveva dichiarato: «Credo che Putin sia esausto da tutto questo. Non ci fa una bella figura, e lui tiene molto alla propria immagine. Non dimentichiamoci che tutto questo, secondo i piani iniziali, sarebbe dovuto finire in una settimana». Piccola stoccata, tutt’altro che indolore. Ormai abbiamo imparato che sulla potenza militare i russi sono molto sensibili. E infatti il tycoon ha poi parzialmente mitigato il giudizio: «Se non si fossero impantanati nel fango con i carri armati, sarebbero arrivati a Kiev in cinque ore». Già, ma si sono impantanati e da quel momento sono passati oltre tre anni. Forse Trump vuole puntare tutto sull’impossibilità, per Putin, di concludere questo conflitto con un trionfo militare. Gli sta dicendo in tutti i modi di accontentarsi di ciò che ha ottenuto e di scendere a patti ora. Prima che Washington perda la pazienza e decida di introdurre nuove sanzioni, incluse quelle secondarie (ovvero a quei Paesi che esportano merci prodotte con materie prime russe). «Sarebbe devastante per la Russia, vista la condizione attuale della loro economia», ha minacciato Trump, «ma non è quello che voglio. Preferirei un accordo».
NON È DA ESCLUDERE che il Cremlino si dimostri ricettivo a queste valutazioni, soprattutto se l’offerta è adeguata. Prima dei colloqui di Istanbul – voluti, è importante ricordarlo, da Putin stesso – la possibilità che gli Usa imponessero all’Ucraina condizioni umilianti e rinunce territoriali significative, persino definitive nel caso della Crimea, era più che plausibile. Ora, per quanto Trump ci ha abituato a colpi di scena continui, sarebbe meno semplice. Bisognerebbe esautorare al contempo gli alleati europei, con i quali nell’ultima settimana si è ricostruita una fragile unità d’intenti sulla tregua di 30 giorni, la Turchia e il Vaticano (che ieri Rubio ha indicato come possibile sede dei negoziati) ed esporsi alle critiche di quanti lo accuserebbero di aver regalato l’Ucraina alla Russia.
INOLTRE, i colloqui in Turchia per quanto sottotono hanno stabilito un precedente che non si può ignorare. I due belligeranti hanno ripreso i contatti diretti dopo tre anni e ora si stanno organizzando per i prossimi passi. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha spiegato ieri in che modo: «le parti hanno concordato di scambiarsi liste con le condizioni per la tregua e la Russia presto presenterà la sua». La convocazione di nuovi colloqui avverrà dopo lo scambio dei mille prigionieri per parte concordato a Istanbul e «un vertice tra i due leader potrà avvenire soltanto in presenza di risultati tangibili da parte delle rispettive delegazioni. Per ora, non ci sono le condizioni».
I rappresentanti ucraini sono stati molto meno loquaci. Zelensky ha parlato di «occasione sprecata» e ha invocato «sanzioni più severe» e maggiore «pressione sulla Russia» per obbligarla a cercare una soluzione diplomatica. Il presidente ha poi accusato i russi dell’ennesima strage di civili. Stavolta è accaduto a Sumy, nel nord-est dell’Ucraina: un missile russo ha centrato un pullmino che trasportava 9 persone, tutte civili secondo fonti ucraine, e ne ha ferite altre 7. Durante la serata di ieri il presidente ucraino è atterrato a Roma per assistere all’intronizzazione di Papa Leone XIV e ha incontrato il primo ministro canadese. Oggi dovrebbe parlare anche con Rubio e gli alleati europei.
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