Gaza La guerra ha distrutto o reso inaccessibile l’80% dei terreni: «Così si frantuma la fabbrica sociale»
Khan Yunis, Gaza – Getty Images
Il problema non è solo morire, è come si vive. È cambiato il linguaggio: la voce di giornalisti, attivisti politici, cooperanti palestinesi pare trasfigurata. Sono passati quattordici mesi dalla prima carovana italiana verso Rafah, “Gaza oltre il confine”. Era marzo 2024 e allora parlamentari, reporter e ong ascoltarono dalle organizzazioni palestinesi al Cairo numeri, statistiche, quadri dettagliati della situazione sanitaria, educativa, umanitaria, resoconti delle attività di emergenza dentro la Striscia. Era il quinto mese di genocidio.
OGGI LA DELEGAZIONE delle testate italiane e dei deputati di Pd, Avs e M5S si trova di fronte a un grido collettivo: le attiviste e gli attivisti palestinesi, usciti da Gaza negli ultimi mesi, parlano di sé, delle proprie storie «che sono la storia di due milioni di persone», l’umiliazione dello sfollamento, la fame che consuma, il costante senso di morte che detta ogni minuto di ogni giornata. Non riescono più a parlare solo come giornalisti o operatori umanitari, parlano come vittime, sfinite, costrette a tradurre in parole le immagini che vediamo da 19 mesi, nel tentativo doloroso di renderle più intellegibili. C’è rabbia per l’inazione del mondo, c’è il timore che il ritorno sia una chimera, come 77 anni fa, c’è una cappa di dolore che non perde però lucidità. Non chiedono più, come lo scorso anno, solo il cessate il fuoco. Vogliono azioni per fermare le aspirazioni israeliane alla pulizia etnica. Perché, lo dicono tutti, non rinunciamo a Gaza.
NON UNA GAZA QUALSIASI, ma una Gaza che possa fare da sé, ricostruirsi da sé. Su una simile convinzione pesa il macigno degli aiuti umanitari, un embargo totale da parte israeliana che ormai ha due mesi e mezzo di vita e che non è che l’ultimo passo di una politica vecchia di decenni e che negli scorsi 19 mesi ha raggiunto il suo apice. Gaza deve essere invivibile. O per lo meno deve dipendere dal mondo esterno, dai pacchi alimentari, dalla benevolenza altrui quando c’è. È così che «si frantuma la fabbrica sociale – dice una cooperante gazawi che chiede di non essere citata – L’economia è stata distrutta, la tradizionale rete di supporto comunitario è in pezzi, la società civile è sgretolata». Il problema è come si vive.
A GAZA NON SI PRODUCE più niente. Fin dal primo mese di offensiva israeliana, l’aviazione e i tank dell’invasione via terra hanno spianato fabbriche e terreni agricoli. Il blocco degli aiuti è venuto dopo, prima si è agito per tagliare le gambe alla fragile autonomia produttiva palestinese. Quella a cui Mohammed el Bakri lavora da tutta la vita. Per 34 anni è stato direttore di Uawc, l’Union of Agricoltural Work Committees, una delle più note ong palestinesi, nata come tante altre dall’humus fertile della sinistra partitica e di base. È tra le sei inserite da Israele nella lista delle “organizzazioni terroristiche”.
OGGI EL-BAKRI LAVORA con la Land Association for Agricoltural Development in Palestine. È uno dei grandi saggi dell’attivismo politico palestinese, quando entra nella sala del Cairo che ospita il dibattito calamita gli abbracci e le strette di mano. «Prima del 7 ottobre, nel nostro lavoro con contadini, pescatori, donne, famiglie marginalizzate, cercavamo di aumentare il grado di resilienza delle persone e proteggere il loro diritto a gestire le proprie risorse naturali. Avevamo raggiunto un punto in cui non dovevamo quasi più importare carne bianca dentro Gaza e solo il 50% di carne rossa. Dopo il 7 ottobre tutti i nostri sforzi sono andati in frantumi: il 90% dei terreni agricoli è stato distrutto, e con loro sono state distrutte le infrastrutture del settore agro-alimentare».
«L’ALLEVAMENTO DI POLLI, la produzione di carne rossa, di uova, la pesca, tutto azzerato – dice el-Bakri al manifesto – Eppure venivamo da un’esperienza eccellente nello sviluppo del settore agricolo, producevamo cibo a sufficienza nonostante le risorse limitate. È stato possibile grazie alla catena del valore che ha generato l’indotto: sistemi industriali per trasformare il latte in formaggio e burro, la frutta in succhi e così via. Abbiamo ottenuto fondi per questo, dalla Fao e dall’Unione europea. Ha permesso di aumentare la produzione e il tasso di occupazione dentro Gaza. Prima importavamo oltre l’80% del formaggio da fuori, siamo riusciti ad abbassarlo al 40%».
TUTTO SVANITO. Israele ha usato una quantità enorme di bombe, ha inquinato il terreno, spianato i campi con i carri armati, ridotto in macerie i pozzi d’acqua e le serre. «La terra oggi non è più accessibile o perché sotto ordine di evacuazione o per la presenza militare israeliana – ci spiega Mahmoud Hammad, responsabile di Pnog Network, la rete delle ong palestinesi – La maggior parte dei campi si trova sulla fascia est, al confine. Rafah è un esempio: pochi giorni fa le immagini satellitari dell’Onu hanno mostrato come l’80% delle terre agricole sia inaccessibile o distrutto e le fattorie rase al solo». Resta il poco che riescono a coltivare i singoli individui, dice Hammad: «Chi ha un po’ di spazio davanti alla propria tenda, usa le sementi della banca dei semi che ha distribuito Uawc: piantano melanzane, pomodori, cetrioli. Ma non è abbastanza, è una goccia nel mare».
MENTRE ISRAELE accende i motori dell’operazione “Carri di Gedeone”, la società civile sogna la ricostruzione, una ricostruzione che parta dalla rimozione dignitosa delle macerie e che riabiliti il suolo. «In un primo momento serviranno i pacchi alimentari – ci spiega el Bakry – Ma poi torneremo a produrre da soli. Ricordo che dopo la guerra del 2014, l’Australian Aid mi propose 750mila dollari per distribuire cibo. Rifiutai. Non volevo distribuire cibo, volevo produrlo. Solo così i palestinesi potranno vivere qui, non resteranno se saranno dipendenti dalla farina dei pacchi della comunità internazionale. È una forma di pressione per lo sfollamento “volontario”». Il problema non è solo morire, è come si vive.
Commenta (0 Commenti)Bombardamenti incessanti, case distrutte, di nuovo più di cento morti, anche neonati. Ordini di evacuazione, popolazione affamata. I media parlando di colloqui indiretti Hamas-Israele e di possibile svolta a breve. Ma avanza l’operazione Carri di Gedeone e la cruenta offensiva finale dell’Idf per occupare la Striscia comincia a scuotere l’indifferenza generale
Con fine Scade un nuovo ultimatum, Tel Aviv lancia bombardieri e tank su ciò che resta della Striscia. Il mondo si sdegna un pochino di più
Soldati e carri armati israeliani al confine con Gaza – foto Ap
«Giuro che li ho vestiti per portarli via di qui. Giuro che ho appena parlato con lui. Voglio solo che uno dei miei figli sia vivo. Almeno uno». Hussein Odeh è un campione palestinese di sollevamento pesi. Vive a Jabalia, nel nord di Gaza, insieme a sua moglie e ai suoi figli di tre, cinque e nove anni. Nei primi mesi della guerra, un attacco israeliano ha ucciso sua figlia, sua madre e le sue sorelle. L’esercito ha dato ordine di evacuare, così Hussein ha preparato i suoi bambini ed è uscito per cercare un passaggio, qualcuno che potesse accompagnarli a Gaza City. Quando è tornato, la casa non esisteva più. Un bombardamento israeliano ha distrutto tre abitazioni in pochi secondi. È iniziata, anche formalmente, l’operazione «Carri di Gedeone». L’occupazione di Gaza.
«LO GIURO, li stavo portando via, la macchina stava arrivando» continua a ripetere Hussein in piedi sopra le macerie. Sentiva la voce di uno dei suoi bambini, ha provato a parlare con lui in attesa che qualcuno arrivasse ad aiutarli ma suo figlio non gli ha più risposto. La protezione civile non ha strumenti per spostare i detriti pesanti, Israele non permette l’ingresso di mezzi e materiali di soccorso. Usano palette di plastica per scavare e spranghe per fare leva. Nonostante ciò, sono riusciti a recuperare diverse persone ancora vive sotto le macerie. A ogni flebile segno di vita tra i macigni, la speranza dei familiari si risolve in urla di gioia e pianto. I soccorritori si infilano sotto i solai, allungano le braccia più che possono, martellano le pietre per raggiungere i sopravvissuti. Un lavoro eroico e instancabile, pericoloso e senza fine.
LE AMBULANZE sono state riempite di decine di corpi ieri a Gaza City, nel centro della Striscia, quando un attacco nei pressi della Torre Al-Zahra ha ucciso diversi civili che si trovavano in strada. Tra le vittime, donne e ragazzini. A Shujaiya i corpi straziati di due giovani sono stati ritrovati accanto ai sacchi di farina che erano riusciti a rimediare. Sempre nel centro, un neonato di 15 mesi è morto nel raid che ha colpito la sua casa, mentre a Deir el-Balah gli israeliani hanno ucciso una famiglia di nove persone. Tra loro Siwar di quattro anni, Muhammad di tre anni, Husaid di una settimana. 150 palestinesi ammazzati in 24 ore.
Centinaia di vittime in pochi giorni, sofferenze immani, bombe e fame su una popolazione indifesa e disarmata. Ma a parte qualche
Leggi tutto: “Carri di Gedeone”, Netanyahu lancia la conquista di Gaza - di Eliana Riva
Commenta (0 Commenti)Mobilitazioni sindacali I dati raccolti da Fillea Cgil mostrano che un operaio su tre è migrante, la maggioranza inquadrata al primo livello con le paghe più basse
Ristrutturazione edilizia a Roma – La Presse
C’è un settore dove lavoro e cittadinanza, in tema con i prossimi referendum dell’8 e 9 giugno, sono più connessi che mai, ed è quello dell’edilizia. I dati raccolti nel rapporto «Costruzioni migranti» dalla Fillea Cgil, presentati ieri in apertura della dodicesima assemblea nazionale del sindacato degli edili a Brescia, fotografano il quadro di un settore dove oltre un operaio su tre è straniero, la maggior parte dei quali inquadrati come operai comuni di primo livello.
TRA I PAESI di maggiore provenienza dei lavoratori a fare da padrone sono Albania e Romania, che insieme contano oltre 100mila operai e quasi la metà dei lavoratori edili stranieri. Su 700mila impiegati nel settore, infatti, ne provengono dall’estero 267mila, ovvero il 38% della forza lavoro totale. Tra questi, oltre ai paesi dell’est Europa prevalgono quelli del nord Africa, con quote significative provenienti da Egitto, Marocco e Tunisia, da cui provengono oltre 60mila operai. Tra i paesi in crescita, sottolinea il sindacato, si notano nuovi ingressi da Pakistan, Gambia, Ghana e Brasile, nonostante le percentuali rimangano ancora sotto il 3% del totale dei lavoratori nati all’estero. Lavorano in modo particolare nel Nord del paese e sono mediamente molto più giovani degli impiegati italiani: se la maggioranza di questi ultimi hanno dai 46 anni in su, la forza lavoro migrante ha prevalentemente tra i 26 e i 45 anni.
MA I DATI che evidenziano le fragilità del lavoro migrante nel settore sono quelli relativi ai livelli di inquadramento. Gli operai stranieri costituiscono la maggioranza della fascia più bassa e fragile della piramide edile. Sono al 60% non specializzati, di primo livello: è l’unico dei quattro livelli di inquadramento dove la quota straniera supera quella dei lavoratori nati in Italia. Salendo con le fasce la forbice si inverte e si allarga sempre di più: nel caso degli operai specializzati di quarto livello, dove le retribuzioni possono essere più alte anche del 50%, il rapporto diventa di uno straniero ogni quattro italiani. Dati che sottolineano la maggiore precarietà connessa agli operai nati all’estero, «lavoratori poco qualificati, spesso sottopagati e impiegati soprattutto nel nord Italia, arrivati nel nostro Paese dopo percorsi complessi» afferma Fillea Cgil. Solo nell’edilizia, tra il 2022 e il 2023, si sono registrati 176 incidenti mortali sul lavoro.
DA QUI IL RILANCIO della sfida dei referendum, che lavoro e cittadinanza li tengono insieme: «Per noi la legalità è un mezzo estensivo di diritti e giustizia sociale valido per tutti. I migranti affrontano diverse sfide: orari lunghi, esposizione a rischi per salute e sicurezza oltre a discriminazione, difficoltà a integrarsi nella società locale» afferma il segretario generale della Fillea Cgil, Antonio Di Franco. «Servono politiche di integrazione che possano aiutare a ridurre la vulnerabilità dei migranti e prevenire il caporalato, come ad esempio l’abolizione della Bossi-Fini. Le diverse vertenze che stiamo seguendo, ultima e recentissima la Giuliani Arredamenti (dove dopo oltre 100 ore di sciopero i sindacati hanno ottenuto la stabilizzazione di 84 operai in somministrazione, ndr) dimostrano che dobbiamo intervenire e il referendum rappresenta un primo passo, un’ottima occasione» conclude.
OGGI i lavori dell’assemblea proseguiranno. Con i delegati del sindacato e il segretario generale della Fillea, Di Franco, accompagnati dal racconto grafico della fumettista Takoua Ben Mohamed, sono attesi anche gli interventi della segretaria del Pd Elly Schlein e dell’europarlamentare di Avs e sindaco di Riace Mimmo Lucano.
Commenta (0 Commenti)Il vertice di Istanbul tra ucraini e russi dura meno di due ore e poi tutti a casa. Mosca vuole tenersi le regioni occupate, per Kiev le richieste sono «irricevibili» ma non fa saltare il tavolo. Trump vuole vedere Putin, gli europei non esasperano i toni. A Tirana scontro Meloni-Macron
Crisi Ucraina Gli europei accusano Putin di non volere la pace, ma con toni meno aspri di quanto ci si aspettava
Il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy arriva a Tirana – AP
Due ore per dirsi arrivederci. È questo il risultato principale dei tanto attesi colloqui tra Russia e Ucraina di ieri. In una sala del palazzo di Dolmabahce a Istanbul le delegazioni dei due paesi in guerra si sono incontrate per la prima volta dalla primavera del 2022, quando il primo tentativo di porre fine al conflitto scatenato dall’invasione russa fallì. Sono trascorsi tre anni da allora, tre anni di minacce, insulti, accuse e risentimento che la foto ufficiale del summit incarna teatralmente. Un grosso tavolo a ferro di cavallo con a sinistra gli ucraini, molti in divisa militare, a destra i russi, classico smoking, e al centro i turchi, mediatori e padroni di casa.
IL SEMPLICE FATTO che gli ucraini non abbiano lasciato la riunione quando la controparte gli ha presentato la proposta di cedere interamente le 4 regioni occupate dall’inizio della guerra più la Crimea è una piccola buona notizia. «Irricevibile» e quindi non in agenda. «Tregua subito» ha risposto il capo della squadra di Kiev, il ministro della Difesa Rustem Umerov. Per i russi non se ne parla (neanche di questo). E allora che si fissi almeno un incontro tra i due presidenti, ha insistito la parte ucraina. «Ne prendiamo atto» ha tagliato corto il capo-delegazione russo Vladimir Medinsky. L’unica azione sulla quale i delegati si sono accordati è uno scambio di mille prigionieri di guerra per parte. A chi lo definisce un primo gesto di mutuo avvicinamento bisognerebbe ricordare che tra le dichiarazioni di intenti della vigilia si era già parlato di questa possibilità, ma che doveva trattarsi di uno «scambio totale». Poche e asciutte le dichiarazioni post-vertice, Medinsky si è dichiarato «soddisfatto e pronto a continuare i contatti con l’Ucraina», Umerov ha ribadito la richiesta di «un incontro a livello di leader, questo sarebbe il nostro prossimo passo». Assenti dalla riunione gli Stati uniti, che pure avevano incontrato entrambe le delegazioni separatamente nelle ore precedenti.
«C’è solo un motivo per cui i russi dovrebbero aver paura di avere gli Stati uniti nella stanza: sono venuti per rallentare il processo, non per risolvere i problemi, e vogliono nasconderglielo» accusano fonti diplomatiche ucraine. Ma Donald Trump non ha voluto mostrarsi scottato dall’ennesima figuraccia diplomatica, anzi ha dichiarato un laconico «vediamo cosa succede» prima di aggiungere che «potrebbe» chiamare Vladimir Putin per
Leggi tutto: Vertice fantasma, Mosca vuole tenersi tutto. Kiev: «Irricevibile» - di Sabato Angieri
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I rappresentanti degli alluvionati oggi erano in Regione a Bologna
Sono arrivati con la carriola e hanno consegnato nelle mani del presidente regionale Michele De Pascale 20.000 firme raccolte tra gli alluvionati di Faenza. A due anni dall’alluvione che ha colpito la Romagna i residenti tornano a fare sentire la loro voce con un nuovo appello alla politica. Appello che è stato ascoltato oggi da De Pascale e dal commissario straordinario Fabrizio Curcio, che hanno incontrato per circa un’ora la delegazione del comitato Borgo Alluvionato negli uffici della Regione a Bologna.
Con loro anche il sindaco di Faenza, Massimo Isola. Toni cordiali, anche se fermi, al termine del colloquio. “E’ una grandissima responsabilità per me - ha detto De Pascale accogliendo i plichi con le sottoscrizioni al piano terra della torre della giunta- ma fare una firma verso una istituzione vuole dire da qualche parte avere una speranza che quell’istituzione dia una risposta”.
Perchè, sottolinea il governatore Pd, “quando non si ha una speranza che quella istituzione dia una risposta non si raccoglie neanche delle firme, se lo fai vuol dire che dentro di te hai la speranza che le cose cambino. Dopo tanti mesi non è scontato”. “Spero di potervi restituire queste firme alla inaugurazione della prima cassa di espansione”, ha concluso poi De Pascale sempre rivolto agli esponenti del comitato. “Aspettiamo questo appuntamento”, gli hanno risposto i residenti del faentino, arrivati in Regione in felpa gialla e la consapevolezza di rappresentare le preoccupazioni e le istanze di 20.000 concittadini.
Coloro che hanno firmato la petizione “chiedono la messa in sicurezza, chiedono che non si facciano altre chiacchiere e altre perdite di tempo. Perché il messaggio è chiaro, sull’asta del Lamone e del Marzeno il pericolo è ormai continuo, con tempi di ritorno di pochi mesi, non si parla più di anni”, dice al termine dell’incontro Danilo Montevecchi del comitato.
Per questo “bisogna intervenire subito, la gente ha firmato chiedendo ‘intervenite subito, fate presto’. Questo è il messaggio che si è voluto lanciare. Le istituzioni mi sembrano che siano attente, hanno esposto alcuni progetti che sono in fase di elaborazione”.
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Conti pubblici Dopo la doppia bocciatura Ue, la Corte dei Conti conferma il rischio di sprecare le risorse
Il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, – Ansa
Respinta dalla Commissione Europea la richiesta di prorogare la scadenza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) oltre agosto 2026. E bocciata l’ipotesi di usare una parte dei suoi fondi non spesi per il riarmo. Ieri il governo Meloni ha incassato un altro avvertimento dalla Corte dei conti. Nella relazione semestrale sullo stato di attuazione del Pnrr si è appreso che, sugli oltre 194 miliardi di euro stanziati cinque anni fa nella pandemia, solo 63,9 miliardi tra sovvenzioni e prestiti risultano effettivamente investiti in Italia, cioè il 33% delle risorse complessive.
PRESENTATO, anche dall’attuale esecutivo, come il rimedio taumaturgico ai problemi italiani dovrebbe essere noto che il Pnrr non solo non li risolverà, ma ne creerà altri. Basti pensare all’uso scriteriato fatto dei fondi Pnrr nel creare una nuova bolla di lavoro precario nella ricerca. Entro agosto 2026 rischieranno il posto di lavoro migliaia di ricercatori assunti a tempo con i soldi europei. Tre governi (Conte 2, Draghi e Meloni) non hanno pensato che era necessario garantire un futuro dopo l’esaurimento della manna. La «messa a terra», neologismo tradotto dal project financing di Bruxelles, rischia di «lasciare a terra» parecchie persone. Ma questo, in fondo, non sembra essere un problema per il governo e la sua maggioranza.
GLI ASILI NIDO sono un altro caso. Un altro censimento ha confermato che, nonostante una nuova proroga al 30 aprile, le richieste non hanno superato il 50% dei fondi disponibili: 400 milioni su 800. I Comuni sanno che non avranno soldi per assumere le persone che dovranno fare funzionare gli asili nido. Non tutte le amministrazioni hanno le competenze per realizzarli. Non ci voleva molto a capirlo. Eppure il Pnrr è stato impostato per arrivare a questo fallimento: se non serve a finanziare il precariato, allora meglio non usare i fondi.
GLI APPELLI del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti sono sempre più disincantati e preoccupati. Da aprile 2024 ha chiesto più volte la proroga del Pnrr. L’ultima tre giorni fa. Non bastano i 15 mesi restanti per spendere i soldi Pnrr, anche se mancano le capacità di farlo. Ma la Commissione Ue dice No perché serve l’unanimità degli altri Stati che non hanno alcuna intenzione di fare una cortesia a Meloni & Co. (Il Manifesto 15 maggio).
LA CORTE DEI CONTI ha osservato ieri che i 67 «obiettivi» del piano, e le «riforme» collegate, sono stati raggiunti nel 2024. Il governo avanza secondo le scadenze stabilite in accordo con Bruxelles che ha finanziato il Pnrr cinque anni fa mentre era in corso la pandemia. Tuttavia, ed è questo il vero problema, l’avanzamento della spesa «stenta» ancora «a mantenere il ritmo prefissato», si legge nella relazione. Con l’approssimarsi della scadenza del piano il livello della spesa crescerà anche grazie ai rimedi improvvisati per accelerarla. Si parla, in particolare, di una semplificazione dell’iter di rendicontazione. Ma ciò, presumibilmente, non sarà sufficiente per recuperare il tempo perduto, in particolare a causa della difficoltà del ministero dei trasporti guidato da Matteo Salvini a spendere le risorse a disposizione nella costruzione delle nuove linee dell’Alta velocità, soprattutto quelle verso Sud: i cantieri infiniti della Salerno-Reggio o della Roma-Bari. Nel primo caso la spesa del Pnrr è ferma al 3,54% rispetto all’8% preventivato; nel secondo caso, l’avanzamento del cantiere è al 34,76% rispetto al 59% atteso. Nella quinta revisione del Pnrr annunciata dal governo a marzo, di cui poco si sa tranne indiscrezioni senza contenuti, la Corte dei conti ha evidenziato la possibilità di rimodulare gli obiettivi di spesa. Dall’analisi degli investimenti sulle politiche dell’acqua e sul servizio idrico integrato (previsti interventi da 5,4 miliardi) è emersa una valutazione positiva. Si spera che, almeno gli acquedotti, perdano meno acqua nelle stagioni roventi in arrivo.
PENSATO DALL’ALTO per fare leva sul profitto dei privati, senza rendere protagonista la società, il Pnrr potrebbe fare ancora qualcosa nell’interesse pubblico. Il comitato europeo delle regioni ha chiesto di indirizzare i soldi non spesi (in Italia, dicono 14 miliardi) alla costruzione di case a prezzi accessibili. «Una casa è un diritto umano fondamentale» ha detto il sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Difficile che sia una priorità della Commissione Ue e del governo. Piuttosto i soldi andranno alle imprese. E non per costruire o riadattare l’edilizia popolare. Sempre che poi si riescano a spendere.
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