Anche cose buone Il rientro in Italia della giornalista, accolta a Ciampino dalla premier e dall’emozione dei suo cari. Poi il podcast: «Ciao, sono tornata». Finalmente a casa, dopo venti giorni di prigionia a Evin. Una psicologa sul volo. E tre ore dai Ros all’arrivo
L’incontro di Cecilia Sala con il suo compagno sulla pista dell’aeroporto di Ciampino – LaPresse
C’è un gesto che racconta l’esplosione di emozioni dopo venti giorni di apprensione e paura. Mentre Cecilia Sala si affretta ad abbracciare il padre dopo aver salutato il compagno, la madre della giornalista resta un passo indietro, sembra che trattenga il fiato fino al momento in cui la ragazza l’attira a sé. A quel punto la donna chiude gli occhi e respira forte, a bocca aperta, come se quell’aria fosse la tonnellata di brutti pensieri maturati in brevi telefonate che i giornali traducevano in «fate presto», nelle notti insonni a cui seguivano le richieste di intervista e l’invito al silenzio del governo. Per un istante sembra davvero che in quel sospiro Elisabetta Vernoni sia «nata di nuovo», come aveva dichiarato non appena aveva appreso che la figlia stava viaggiando verso l’Italia.
DAL PRIMO POMERIGGIO al terminal dei voli privati dell’aeroporto romano di Ciampino si riempie di giornalisti. I cameramen si litigano le postazioni giudicate migliori per
Lo annuncia Palazzo Chigi in una nota: "È decollato pochi minuti fa, da Teheran, l'aereo che riporta a casa la giornalista Cecilia Sala"
È decollato pochi minuti fa, da Teheran, l'aereo che riporta a casa la giornalista Cecilia Sala. Grazie a un intenso lavoro sui canali diplomatici e di intelligence, la nostra connazionale è stata rilasciata dalle autorità iraniane e sta rientrando in Italia. Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, esprime gratitudine a tutti coloro che hanno contribuito a rendere possibile il ritorno di Cecilia, permettendole di riabbracciare i suoi familiari e colleghi.
«Vaffanculo non è caduto», «Chiudilo chiudilo che cade, nooooo merda non è caduto», «Ha perso il casco». Sono le frasi choc dell’inseguimento di una gazzella dei carabinieri a uno scooter […]
Morte di Ramy, il video del Tg3
«Vaffanculo non è caduto», «Chiudilo chiudilo che cade, nooooo merda non è caduto», «Ha perso il casco». Sono le frasi choc dell’inseguimento di una gazzella dei carabinieri a uno scooter in fuga per le vie di Milano. A bordo c’è Ramy Elgaml, 19 anni, e il suo amico Fares Bouzidi, 22 anni, alla guida. È la sera del 24 novembre 2024 e le immagini vengono dall’auto delle forze dell’ordine. Le ha pubblicate ieri per la prima volta corredate di audio il Tg3. La folle corsa, di oltre 8 km, si conclude con il motorino che finisce a terra incalzato dalla volante: Ramy morirà di lì a poco, incendiando la rabbia del quartiere Corvetto perché, gridavano i manifestanti, «l’hanno investito, l’hanno ammazzato». Nel registro degli indagati, per diverse ipotesi, ci sono al momento Bouzidi e tre carabinieri.
Follower «Non vedo l’ora» di lavorare con il presidente. E gli regala tre miliardi di utenti Facebook
Mark Zuckerberg durante una conferenza per gli sviluppatori di Facebook a San Francisco – Eric Risberg/Ap
Anche Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook e amministratore delegato di Meta, sale sul carro di Donald Trump e Elon Musk. Lo ha spiegato con un video di cinque minuti in cui ha annunciato una svolta editoriale e politica per Facebook, Instagram e Threads, i social network controllati dal gruppo. Meta smantellerà il reparto aziendale incaricato di impedire la diffusione di notizie false sulle piattaforme. Lo stesso Zuckerberg ha ammesso che il modello da seguire adesso è Musk: «D’ora in poi faremo a meno dei fact-checkers e, come ha fatto X/Twitter, li sostituiremo con l’algoritmo Community Notes», che affida agli utenti stessi la segnalazione di contenuti poco affidabili. «I fact-checkers erano troppo orientati politicamente, invece di aumentare la fiducia degli utenti l’hanno distrutta» ha spiegato. Inoltre non saranno più oscurati i contenuti che riguardano temi delicati come immigrazione e genere.
NEL MIRINO c’è la cosiddetta ideologia woke, «un movimento nato per l’inclusione usato sempre più spesso per mettere a tacere le persone e le opinioni» come si direbbe su Rete 4. D’ora in poi il team dedicato alla moderazione di Instagram, Facebook and Threads interverrà solo sui contenuti illegali e sulle violazioni più gravi del codice etico di Facebook. Per metterlo a suo agio, il team sarà trasferito dalla California liberal al repubblicano Texas, dove c’è «meno interesse intorno al suo orientamento politico».
Altro dietrofront: dopo anni in cui gli algoritmi ne hanno penalizzato la visibilità, i post a tema politico torneranno a circolare sui social targati Meta: «Adesso – ha spiegato Zuck – la gente ne vuole ricevere di più». Quale sia la politica gradita diventa esplicito alla fine del messaggio: «Lavoreremo con il presidente Trump per respingere i governi che premono per una censura più forte» dice il capo di Meta riferendosi all’Europa ma anche l’amministrazione Biden. «Negli ultimi quattro anni, anche il governo statunitense ha fatto pressione per una maggiore censura, e in questo modo ha incoraggiato anche altri governi a farlo. Ma ora abbiamo l’opportunità per ripristinare la libera espressione e non vedo l’ora di coglierla».
IL NEO-PRESIDENTE non avrebbe potuto chiedere di più. Finora per veicolare i suoi messaggi strampalati poteva contare sul
Turchia La delegazione del partito turco di sinistra Dem, che a fine dicembre ha fatto visita al fondatore del Pkk Abdullah Ocalan in carcere, ha incontrato ieri alti rappresentanti del partito […]
Recep Tayyip Erdogan
La delegazione del partito turco di sinistra Dem, che a fine dicembre ha fatto visita al fondatore del Pkk Abdullah Ocalan in carcere, ha incontrato ieri alti rappresentanti del partito di governo Akp.
Un ulteriore passo verso un dialogo difficile ma necessario alla questione curda. Nelle stesse ore il presidente turco (e leader dell’Akp) Erdogan ha alimentato i timori nel nord est della Siria e nella sua Amministrazione autonoma che al Pkk si ispira: sono pronto, dice, a intervenire per prevenire la disintegrazione della Siria.
Il riferimento è alle Forze democratiche siriane che dalla caduta di Assad sono tornate pesantemente nel mirino delle bande jihadiste alleate di Ankara. «L’eliminazione del Pkk/Ypg è solo una questione di tempo», ha aggiunto il ministro degli esteri Fidan.
Crisi Ucraina Mosca annuncia la conquista della città strategica di Kurakhove e non ferma
Kurakhovo (Donetsk ucraino), un uomo in bicicletta davanti a ciò che resta dell’ufficio postale, bersagliato da attacchi russi – foto Ap/Anton Shtuka
La caduta di Kurakhove, nel Donetsk sud-orientale, è una pessima notizia per gli ucraini. Non si tratta dell’ennesimo villaggio di poche anime sperduto tra una valle mineraria e l’altra dell’Est, ma di un centro strategico che Kiev aveva trasformato in una piccola roccaforte. Ora tutto il quadrante è a rischio e il confine con l’oblast di Dnipro è a soli 30 km. Nel frattempo dalla regione russa di Kursk, dove nella notte tra sabato e domenica sei brigate gialloblù hanno tentato un attacco a sorpresa, i funzionari del Cremlino annunciano di aver respinto l’offensiva. Ora gli ucraini si accontentano di aver «inflitto pesanti perdite» ai russi, ma è chiaro che le speranze erano decisamente maggiori. Con buona pace del segretario di stato Usa, Antony Blinken, che ieri ha ribadito che «le posizioni ucraine a Kursk sono fondamentali» per eventuali negoziati.
I BOLLETTINI dal campo non sono mai stati particolarmente positivi per gli uomini di Zelensky negli ultimi mesi. Da quando, tra il 5 e il 6 agosto, diverse brigate d’assalto meccanizzate erano riuscite a cogliere di sorpresa le difese russe nella regione frontaliera di Kursk e a occupare quasi 1500 kmq di territorio nemico, le buone notizie si sono limitate agli attacchi respinti. Una lunga teoria di assalti nemici in aree semi-sconosciute agli ucraini stessi, ma essenzialmente circoscritte a tre punti chiave (tutti nel Donetsk): Chasiv Yar, Pokrovsk e Kurakhove.
Qualche tentativo di incursione si è registrato anche nelle regioni di Kharkiv e al sud, tra Zaporizhzhia e Kherson, ma la guerra combattuta si decide sulle terre martoriate del Donbass. Per quella diplomatica i tempi saranno presto maturi. Il 20 gennaio si insedierà il presidente eletto Donald Trump e allora vedremo come la promessa elettorale di «chiudere la guerra in 24 ore» troverà (o no) realizzazione. Nell’attesa che il filo che tiene questa ghigliottina sia reciso, ucraini e russi si ammazzano quotidianamente su un fronte che ormai supera i 1200 km, ma che ha il suo cuore in una zona di circa 250 km che corrisponde all’intero Donetsk ancora in mano agli ucraini, circa il 40% del territorio originale della regione.
KURAKHOVE è una cittadina mineraria situata lungo la costa sud di un omonimo bacino idrico che da almeno due mesi è al centro delle mire russe. Il lago artificiale in questione è diventato centrale nella lotta per il controllo del Donetsk sud-orientale per almeno due motivi. Il primo è che a Pokrovsk, l’ennesima «città martire» come la definiscono gli alti funzionari governativi, i due eserciti sono in una fase di relativo stallo, anche se gli invasori continuano a insistere e la controparte è sempre più in difficoltà. I reparti di Mosca sono arrivati abbastanza vicino alle posizioni ucraine da poter bersagliare la fondamentale autostrada che taglia il Donbass centrale longitudinalmente e ora la controllano mediante i droni e l’artiglieria. Il risultato è che le truppe di Kiev sono costrette a lunghe deviazioni, anche di ore, per raggiungere gli avamposti del fronte senza rischiare di finire sotto il fuoco nemico.
ALLO STESSO MODO i rifornimenti sono rallentati, come le rotazioni dei reparti. Ciononostante l’offensiva via terra non si è fermata e bisogna riconoscere che l’unico motivo per cui sul municipio sventola ancora la bandiera ucraina è la strenua e valorosa resistenza dei soldati. Il rovescio della medaglia è che lo Stato maggiore è stato costretto a concentrare la maggior parte dei reparti disponibili in questa zona del fronte, indebolendo giocoforza gli altri settori. A quel punto (inizio ottobre) i russi hanno iniziato a premere a sud. Nella monotonia dei lanci di agenzia che in questi mesi ci hanno enumerato gli insediamenti conquistati da Mosca abbiamo centinaia di kmq occupati e ben 40 km lineari di avanzata.
In questo contesto risalta il secondo motivo che ha reso Kurakhove fondamentale. Kiev aveva subito dichiarato che la costa nord del bacino idrico era difficilmente difendibile, ma che su quella meridionale avevano posizionato barricate, trincee e alcuni dei migliori reparti disponibili. Kurakhove andava difesa a tutti i costi per evitare che i russi dilagassero. Tuttavia, l’avanzata fulminea sul versante nord a inizio dicembre ha lasciato i reparti ucraini accerchiati da tre lati, con le linee di approvvigionamento sempre più precarie. Negli ultimi giorni si era capito che era solo questione di tempo.
ORA I RUSSI possono sfruttare anche il fiume Vovcha, che da qui parte e arriva fino al confine dell’oblast di Donetsk per avanzare ulteriormente e dare manforte alla fanteria che già si dirige verso Dachne e Andriivka, gli ultimi due grandi centri di quest’area. E, contemporaneamente, cresce il timore dei battaglioni ucraini di essere accerchiati, come sempre più spesso accade in quest’area.
BLINKEN ha dovuto far ricorso alla sua migliore maschera diplomatica per tornare a parlare del Kursk quando i vertici di Washington sanno benissimo che una briciola di Kursk non vale nulla a confronto di quasi un quarto del territorio ucraino occupato. Del resto, proprio la Difesa Usa aveva rimproverato Kiev due mesi fa per non aver approntato strutture difensive adeguate a Kurakhove. Ora i reparti ucraini si sono riposizionati, ma la guerra in questa fase non dà tregua e ogni chilometro perso o guadagnato ha una doppia quotazione temporale e quantitativa. Oggi si conta il numero dei soldati morti, domani si valuteranno i chilometri quadrati