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Migranti. Arriva la nave Life Support a Ravenna

RAVENNA. È previsto per martedì 22 aprile alle ore 14.00, l’arrivo nel porto di Ravenna della nave Life Support di EMERGENCY per lo sbarco delle 82 persone soccorse il 17 aprile nelle acque internazionali della zona Sar libica.

«Giovedì pomeriggio abbiamo effettuato il soccorso di un gommone in difficoltà che aveva a bordo 82 persone, tra cui 27 minori– spiega Domenico Pugliese, comandante della Life Support di EMERGENCY -. Le autorità italiane ci hanno assegnato il porto di Ravenna per lo sbarco. Questo significa quattro giorni in più di navigazione rispetto a un Pos (Place of safety) più vicino alla zona operativa del Mediterraneo centrale e quindi aumentare la sofferenza dei naufraghi, che sono già in uno stato di vulnerabilità. Arriveremo a Ravenna martedì 22 aprile alle ore 14.00».

Le 82 persone soccorse, di cui 11 donne, due ragazze minori non accompagnate, una bambina accompagnata, 23 ragazzi minori non accompagnati e un bambino accompagnato, hanno riferito di essere partite da Zawiya in Libia, alle 2 di notte circa. I naufraghi provengono da Sudan, Eritrea, Etiopia, Ghana, Nigeria e Togo.

«A bordo abbiamo 82 persone tra cui 27 minori. Le principali problematiche di salute che abbiamo riscontrato a seguito del salvataggio sono state nausea, vertigini e vomito dovute al mal di mare anche perché la barca in distress era in acqua già da più di quattordici ore – dichiara Martina Ferrero, medical team leader della Life Support di EMERGENCY –. Attualmente le persone sono provate dal viaggio ma in condizioni stabili. Vi è a bordo anche una donna incinta al sesto mese, è stata visitata dal team medico e le sue condizioni sono stabili.»
«Come evidenziato dal report “Il confine disumano-Salvare vite nel Mediterraneo centrale”, appena pubblicato da EMERGENCY , la prassi del governo di assegnare porti di sbarco distanti dalla zona operativa alle navi Sar della flotta civile già nel 2024 ha costretto la sua nave Life Support e i naufraghi a bordo a percorrere in media 630 miglia nautiche in più a missione, impiegando oltre tre giorni di navigazione», dice Emergency in una nota diffusa oggi. «Per andare e poi tornare in zona operativa, inoltre, lo scorso anno sono stati necessari 59 giorni di navigazioni aggiuntiva. Un tempo prezioso sottratto all’attività di ricerca e soccorso. E proprio per salvaguardare il diritto alla vita in mare EMERGENCY fa all’Italia, all’Ue alle organizzazioni internazionali cinque raccomandazioni. La prima è quella di porre la tutela della vita in mare al centro di ogni decisione che riguarda il Mediterraneo centrale e rafforzare la capacità di ricerca e soccorso in mare, attivando una missione SAR europea. La seconda prevede di riconoscere il ruolo umanitario delle Ong, abbandonando qualsiasi pratica di criminalizzazione, abrogando il decreto Piantedosi e assicurando l’assegnazione di porti di sbarco più vicini. La terza chiede di interrompere ogni azione a supporto dei respingimenti verso Libia e Tunisia che non possono essere considerati un luogo sicuro per lo sbarco dei naufraghi, revocando il Memorandum Italia-Libia e il Memorandum d’Intesa fra Ue e Tunisia e di non replicare le politiche di esternalizzazione in Paesi terzi. La quarta sollecita a revocare il Protocollo Italia-Albania, chiudere i centri albanesi e dirottare i finanziamenti per rafforzare il sistema d’accoglienza, garantendo dei percorsi efficaci di inclusione sociale. L’ultima chiede di investire in programmi di cooperazione di lungo periodo per il rafforzamento delle comunità e dei servizi nei Paesi di origine e transito e garantire ed ampliare vie di accesso sicure e legali in Europa».

La Life Support, con un equipaggio composto da marittimi, medici, infermieri, mediatori e soccorritori, sta compiendo la sua 31/a missione nel Mediterraneo centrale, operando in questa regione dal dicembre 2022. Durante questo periodo, la nave ha soccorso un totale di 2.783 persone.

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La dichiarazione Il premier israeliano Netanyahu ha diffuso il suo messaggio registrato mentre migliaia di persone protestavano per le strade d’Israele, chiedendo un accordo per liberare gli ostaggi rimasti a Gaza. Ma […]

Israele protesta, ma Bibi insiste: «Non cesserà il fuoco» Protesta per il cessate il fuoco a Gerusalemme – Ap

Il premier israeliano Netanyahu ha diffuso il suo messaggio registrato mentre migliaia di persone protestavano per le strade d’Israele, chiedendo un accordo per liberare gli ostaggi rimasti a Gaza. Ma un cessate il fuoco non ci sarà, ha precisato il primo ministro. Perché Hamas chiede la fine della guerra e il ritiro di Israele dalla Striscia, e tali condizioni non consentirebbero l’attuazione del piano di pulizia etnica proposto dal presidente Usa Trump. Che rappresenta, per Bibi, l’unica «visione che cambierà il volto di Gaza una volta per tutte».

Netanyahu ha dichiarato che Hamas ha respinto durante il fine settimana un accordo sul rilascio degli ostaggi che non comprendeva la fine dei combattimenti. E che accettare di terminare la guerra ora significherebbe mentire, perché gli attacchi ricomincerebbero dopo il rilascio degli ostaggi. «Credo che i nostri ostaggi possano essere restituiti senza arrendersi alle richieste di Hamas».

 https://ilmanifesto.it/bombe-senza-tregua-su-gaza-e-il-santo-sepolcro-e-sigillato

 

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Guerra ucraina Il leader russo proclama un cessate il fuoco unilaterale di 30 ore dopo la minaccia Usa di sfilarsi dai negoziati. Ma Kiev non si fida

Il presidente russo Vladimir Putin foto Ap Vladimir Putin – Ap

Per un raro allineamento fra calendari e cicli lunari, quest’anno pasqua ortodossa e cattolica coincidono e, pure nel contesto della guerra in Ucraina, sembra verificarsi qualche convergenza in più del solito. Con una mossa a sorpresa, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato una tregua unilaterale nei combattimenti di trenta ore, entrata ufficialmente in vigore ieri alle 17 italiane. Durante un incontro con il capo di stato maggiore Valery Gerasimov, il leader del Cremlino si è detto ispirato da «considerazioni umanitarie» e ha esortato Kiev ad adeguarsi alla pausa – pur specificando che il suo esercito sarebbe rimasto pronto a respingere ogni attacco o provocazione di sorta.

DALL’ALTRO LATO, però, immediato scetticismo. Poco prima del momento di tregua dichiarata, in Ucraina gli allarmi aerei hanno iniziato a suonare e le autorità hanno denunciato un attacco con droni. Duro il presidente Zelensky: «Un altro tentativo da parte di Putin di giocare con le vite umane», ha scritto sui social. Il ministero degli esteri Andrii Sybiha cerca di rilanciare, dicendo che si può arrivare a una tregua di trenta giorni. «La Russia può accettare la proposta per un cessate il fuoco pieno di un mese, che è sul tavolo da marzo», ha affermato. «Purtroppo, ci confrontiamo con una lunga storia di parole da parte del Cremlino cui non seguono azioni. Sappiamo di non poterci fidare».

Una posizione echeggiata in qualche modo anche dal ministro della difesa Rustem Umerov che – stando a indiscrezioni del New York Post – avrebbe fatto sapere a dei funzionari statunitensi che «Kiev è pronta ad accettare al 90% la proposta di pace formulata dalla Casa bianca», con riferimento ai colloqui avvenuti giovedì a Parigi fra il segretario di stato Marco Rubio e rappresentanti di Francia, Germania, Inghilterra e Ucraina.

DI CERTO, sembra esserci da più parti la volontà di accelerare per smuovere un po’ le acque di un conflitto che da un lato non conosce da mesi grosse svolte militari e dall’altro, in particolare coi bombardamenti russi delle ultime settimane, sta lasciando sul campo numerose vittime civili (le Nazioni unite hanno conteggiato 164 ucraini uccisi e 915 feriti a marzo, il 50% in più del mese precedente).

IL PRESIDENTE statunitense Donald Trump venerdì ha dichiarato che i negoziati fra Mosca e Kiev stanno finalmente «giungendo a un punto fermo» e che entrambi i paesi vi stanno partecipando senza secondi fini. Affermazioni che arrivano dopo che altri membri del suo entourage, come il già citato Rubio, avevano espresso una certa impazienza nel raggiungere risultati concreti. In effetti, sotto la coltre di fumo lasciata dalle sparate retoriche, la nuova amministrazione a stelle e strisce pare essere sempre più improntata a uno scapicollato equilibrismo fra le due nazioni in guerra: l’atteggiamento verso l’Ucraina è andato ammorbidendosi rispetto ai tempi dello strappo fra Trump e Zelensky nello Studio ovale, con il conseguimento di accordi economici e il mantenimento sostanziale dell’assistenza di intelligence, mentre Putin e i suoi vengono costantemente ammansiti con aperture al dialogo e qua e là richiamati con bacchettate verbali.

BISOGNERÀ VEDERE però cosa succederà se e quando si oltrepasseranno le “linee rosse”, implicite o esplicite, poste dalle due parti. Per esempio, la questione dei territori occupati: secondo Bloomberg, gli Stati Uniti sarebbero pronti a riconoscere il controllo russo della penisola di Crimea (annessa nel 2014). Una concessione non da poco, a livello di diritto internazionale, che rischia di essere molto invisa alla dirigenza di Kiev. Ieri, peraltro, fonti militari russe hanno molto insistito sul fatto che Mosca stia per rientrare in possesso della quasi totalità dell’area occupata dall’Ucraina con l’incursione dello scorso agosto nella regione di Kursk. Al di là della realtà sul campo (che comunque vede schermaglie anche al confine della oblast russa di Belgorod), potrebbe trattarsi di un preludio a una situazione soddisfacente per accettare una pausa nei combattimenti.

A contare, alla fine, sono le considerazione materiali (più che “umanitarie): se Zelensky deve fronteggiare una crescente stanchezza nelle fila militari e presso l’opinione pubblica, Putin non può smarcarsi troppo dalla sua immagine muscolare e abbisogna di una qualche vittoria da presentare alla popolazione. In più, chissà che il recente calo dei prezzi del petrolio – la maggiore fonte di “galleggiamento” dell’economia russa – non stia rientrando nei calcoli del Cremlino. A ogni modo, un vero accordo c’è stato: ieri il più grande scambio di prigionieri dall’inizio dell’invasione (246 russi e 277 ucraini), grazie alla mediazione degli Emirati Arabi.

 

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Giro di vite La Corte d’appello della capitale non convalida il trattenimento a Gjader di un cittadino del Marocco: mancano i requisiti del protocollo. Ma Piantedosi esulta per il primo rimpatrio di un migrante del Bangladesh che, comunque, è dovuto ripassare da Roma

Chi chiede asilo torna in Italia: l’accordo con Tirana è carta straccia  La nave militare italiana Libra al porto di Shengjin – Vlasov Sulaj / Ap photo

C’è un buco nella seconda fase del protocollo Roma-Tirana: se un migrante trasferito da un Cpr italiano a quello di Gjader fa domanda d’asilo non può essere trattenuto in Albania. Lo ha stabilito ieri la Corte d’appello della capitale nel primo caso di questo tipo, per un uomo del Marocco. Una sentenza esplosiva che manda in cortocircuito il nuovo tentativo del governo di riempire i centri d’oltre Adriatico.

DOPO LA RICHIESTA di protezione internazionale, infatti, serve una nuova udienza di convalida della detenzione e siccome riguarda un richiedente asilo la competenza passa dal giudice di pace alla Corte d’appello. Che ieri ha stabilito l’assenza di requisiti per il trattenimento in Albania. L’uomo dovrà essere riportato in Italia e andrà anche liberato, difficile ci siano i tempi tecnici per un’altra udienza.

Dei primi 40 migranti trasferiti dal territorio nazionale l’11 aprile tre erano già stati rimandati indietro nei giorni scorsi. Due per ragioni sanitarie e uno per il ricorso pendente al momento della deportazione. Un “irregolare” di origini algerine è stato invece spedito a Gjader l’altro ieri. Erano quindi in 38 nel centro alla decisione della Corte sul trentenne marocchino, difeso dagli avvocati Donato Pianoforte e Ginevra Maccarrone.

L’UOMO ERA ARRIVATO in Italia nel 2021. Nel 2023 ha ricevuto una condanna penale. Dopo averla scontata non è stato liberato, ma è finito nel Cpr di Potenza. Da là lo hanno portato a Gjader, dove ha chiesto asilo per la prima volta. In 24 ore la commissione ha risposto negativamente, consegnandogli un diniego. La domanda è stata esaminata seguendo la procedura prevista per chi si trova in detenzione amministrativa. Procedura «accelerata» ma diversa da quella «accelerata di frontiera», riservata a chi non è mai entrato nel territorio nazionale. Come le persone salvate in acque internazionali e mandate in Albania nei primi tre round di trasferimenti: il target iniziale del progetto.

Poi a fine marzo, per scavalcare lo stop dei giudici sul tema «paesi sicuri», il governo ha modificato la legge di ratifica del protocollo estendendo l’uso dei centri agli “irregolari”. Per l’esecutivo l’ampliamento di funzioni è possibile senza toccare l’accordo con Tirana perché quel testo consente la permanenza in Albania «al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o rimpatrio». Le prime per i richiedenti mai entrati in Italia, le seconde per gli “irregolari” destinatari di espulsione già sul territorio nazionale. Ma se il migrante chiede asilo successivamente si crea un terzo caso che richiede, appunto, un’altra procedura. Sta qui il buco, l’errore di sistema. Il cittadino marocchino era alla prima richiesta, parzialmente diversa sarebbe una «domanda reiterata», presentata dopo uno o più dinieghi. Anche in questo caso, però, l’esame seguirebbe un iter accelerato ma non «di frontiera».

IL CASO DI IERI era prevedibile, già il 12 aprile il manifesto aveva scritto che ci sono varie strade per invocare quel controllo giurisdizionale che il governo vuole evitare a tutti i costi. Chiedere asilo era la seconda di tre. Potrebbe sembrare l’ennesimo cavillo giuridico, uno di quelli evocati dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi alla presentazione del decreto, ma succede esattamente il contrario. È l’esecutivo che, con la sponda della Commissione Ue, sta giocando sul filo di leggi nazionali, dettato costituzionale e normative europee per provare ad attuare un progetto che solleva numerose illegittimità dal punto di vista dei diritti fondamentali.

In primis il diritto alla libertà personale che non a caso i costituenti hanno messo al riparo dagli abusi dell’autorità con la doppia riserva, di legge e di giurisdizione, prevista dall’articolo 13 della Costituzione. La verità è che il progetto Albania è sempre più un test sui margini di arbitrio del potere esecutivo. Una dinamica preoccupante, soprattutto guardando a ciò che avviene negli Usa di Trump: non a caso sullo stesso terreno dell’immigrazione.

SEMPRE ieri, giusto tre ore dopo il deposito della sentenza, Piantedosi ha annunciato: «Primo rimpatrio dall’Albania di un cittadino straniero trattenuto a Gjader». È un uomo del Bangladesh di 42 anni con precedenti, ritenuto «socialmente pericoloso». Dal Viminale, però, confermano che tutti i rimpatri devono avvenire dall’Italia. Quindi il migrante è stato spedito in Albania la settimana scorsa, parcheggiato per un po’, riportato indietro e poi rimpatriato.

L’unico successo della mossa potrebbe essere distogliere l’attenzione da quanto stabilito dalla Corte d’appello. Per qualche giorno forse funzionerà. Ma da ieri le fondamenta del protocollo Albania sono ricominciate a crollare.

 

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Sperava di essere ricevuto dal papa, ma deve accontentarsi di monsignor Parolin. Bergoglio snobba il vicepresidente Usa Vance, in visita al Vaticano, e nel pomeriggio va a pregare a San Pietro, rimarcando la distanza con l’amministrazione statunitense, in particolare sui migranti. Mentre la Corte suprema blocca la deportazione dei venezuelani

Vance a Roma Il vicepresidente degli Stati Uniti deve accontentarsi di Parolin. Bergoglio, che pure si presenta in basilica, resta a distanza

Il Segretario di Stato Vaticano Parolin riceve il Vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance al Vaticano foto LaPresse Il Segretario di Stato Vaticano Parolin riceve il Vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance al Vaticano – LaPresse

La visita Oltretevere di James D. Vance si è fermata nelle stanze della Segreteria di Stato vaticana. Papa Francesco, infatti, non ha voluto incontrare il vicepresidente statunitense, che si è dovuto accontentare di essere ricevuto in udienza dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e dal “ministro degli esteri” della Santa sede, monsignor Paul Gallagher.

L’incontro con Bergoglio non era annunciato, anche perché il papa è ancora in convalescenza dopo il lungo ricovero al policlinico Gemelli, quindi apparentemente nessuna sorpresa. Tuttavia dieci giorni fa il pontefice ha ricevuto i sovrani inglesi Carlo e Camilla, in visita a Roma. Mercoledì ha incontrato in Vaticano dirigenti e sanitari del Gemelli. E giovedì pomeriggio ha anche lasciato per qualche ora il Vaticano per andare nel vicino carcere di Regina Coeli, dove ha salutato una settantina di detenuti.

LA DECISIONE DI NON concedere nemmeno una breve udienza al vicepresidente Usa sembra allora una scelta ponderata per marcare le distanze con l’amministrazione Trump, piuttosto che dettata dalla cautela per le condizioni di salute. Tanto più che ieri pomeriggio – poco dopo che Vance aveva lasciato il Vaticano e si trovava al giardino botanico dove uno dei figli è stato avvistato mascherato da gladiatore romano – Bergoglio si è fatto accompagnare con la sedia a rotelle in basilica per pregare e salutare alcuni fedeli. E questa mattina potrebbe scendere in piazza e affacciarsi dalla loggia di San Pietro per la benedizione Urbi et orbi al termine della messa di Pasqua (e chissà che non appaia di nuovo Vance per strappare almeno un saluto e una fotografia).

Le divergenze fra Santa sede e Usa emergono con evidenza anche nelle poche righe del comunicato della sala stampa vaticana al termine del «cordiale colloquio» fra il vice di Trump e Parolin. «È stato espresso compiacimento – si legge – per le buone relazioni bilaterali esistenti tra la Santa sede e gli Stati Uniti d’America, ed è stato rinnovato il comune impegno nel proteggere il diritto alla libertà religiosa e di coscienza». Fin qui tutto bene. Dopodiché si capisce che fra Washington e Città del Vaticano non c’è sintonia su una serie di altre questioni: «Vi è stato uno scambio di opinioni (che quindi sono diverse, ndr) sulla situazione internazionale, specialmente sui Paesi segnati dalla guerra, da tensioni politiche e da difficili situazioni umanitarie, con particolare attenzione ai

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Ucraina Per la tregua, territori occupati alla Russia e sanzioni alleggerite. Il segretario di Stato Rubio: «Vogliamo l’accordo nel giro di giorni»

Il Segretario di Stato americano Marco Rubio esce dal Ministero degli Esteri francese a Parigi, giovedì 17 aprile 2025, dopo i colloqui ad alto livello sull'Ucraina e la sua sicurezza. (Julien de Rosa, Pool via AP) Il Segretario di Stato americano Marco Rubio esce dal Ministero degli Esteri francese a Parigi, giovedì 17 aprile 2025, dopo i colloqui ad alto livello sull'Ucraina e la sua sicurezza. – Julien de Rosa/AP

Accordi ma soprattutto disaccordi. Nelle ultime ore la diplomazia statunitense ha lasciato trapelare una serie di indicazioni e ipotesi per un cessate il fuoco in Ucraina di difficile lettura, alle quali si assommano le risposte come al solito ambivalenti e fumose di Mosca da un lato e la fermezza, anche piuttosto piccata, di Kiev.

A RIMETTERE insieme le tessere di questo scompaginato mosaico ieri è stata l’agenzia Bloomberg che, citando anonimi funzionari europei, ha rivelato l’esistenza di un piano che prevederebbe la cessione dei territori occupati alla Russia e un alleggerimento delle sanzioni. Lo avrebbe presentato l’inviato speciale della Casa Bianca Steve Witkoff durante l’incontro che si è tenuto giovedì a Parigi, in cui erano presenti rappresentanti francesi, britannici, tedeschi e ucraini.

TUTTAVIA, non è chiaro se per “cessione” (cosa che con tutta probabilità riguarderebbe le regioni della penisola di Crimea, annessa dal Cremlino nel 2014, e delle oblast di Donetsk, Luhansk, Zaporzhzhia e Cherson) si intenda il riconoscimento internazionale del loro nuovo status o più semplicemente l’attestazione di quello che al momento è un dato di fatto. Nemmeno è chiaro se il piano di Washington si riferisca ai territori nella loro interezza o meno, visto che la Russia li controlla per ora solo parzialmente. Il vero “elemento forte” dell’ipotesi di Witkoff, in realtà, è la revoca delle sanzioni: un’eventualità che potrebbe ingolosire Mosca, alle prese con alcuni degli effetti dell’economia di guerra e delle restrizioni commerciali con i paesi occidentali (scarsità di forza lavoro, aumento dell’inflazione e difficoltà nel reperire componentistica per il rinnovo dell’arsenale militare).

QUANTO PERÒ questa proposta debba essere presa sul serio è un altro paio di maniche. Il segretario di stato della Casa Bianca Marco Rubio (anch’egli presente a Parigi) ieri alla stampa ha addirittura suggerito che gli Stati Uniti potrebbero non partecipare più ai negoziati. «Questa non è la nostra guerra, non l’abbiamo iniziata noi», ha affermato. «Dobbiamo capire al più presto, e intendo nel giro di giorni, se un accordo è fattibile. Se così non fosse, abbiamo altre priorità su cui concentrarci». Insomma, o Russia e Ucraina (e Europa) si decidono a smetterla in qualche modo o tanto peggio per loro. Vero è che nel corso del botta e risposta coi giornalisti Rubio esprime comunque una visione più sfumata della questione, riconoscendo per esempio la necessità di Kiev di difendersi e giudicando “positivi” gli incontri avvenuti giovedì così come i colloqui con Mosca. Ma tutto questo non può continuare in maniera indefinita, insiste, e gli Stati Uniti hanno oramai fatto ciò che era in loro potere. «Se una delle due parti si comporta da stupida, siamo pronti ad andarcene dal tavolo dei negoziati», ha minacciato poco dopo anche Donald Trump.

NEL FRATTEMPO il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha ricordato che ieri è scaduta la moratoria di 30 giorni per non colpire le infrastrutture energetiche cui la Russia aveva aderito lo scorso marzo. Una sorta di tregua su impianti e centrali che, a dire il vero, sembra essere stata poco rispettata da entrambi le parti. Peskov, naturalmente, accusa l’Ucraina. Dal canto suo, Kiev ha invece fatto sapere che l’inizio della moratoria era da intendersi la settimana successiva a quanto afferma Mosca e rigetta dunque le accuse. In effetti, il Cremlino aveva pubblicato sul proprio sito una lista di siti in territorio russo che sarebbero stati oggetto della moratoria il 25 marzo, specificando però che dal suo punto di vista la tregua era da intendersi il 18 marzo (quando è stata discussa telefonicamente con il presidente statunitense Trump).

A OGNI MODO, lasciando da parte le infrastrutture energetiche, non ci si è certo risparmiati nei combattimenti. Ieri, un altra giornata di sangue in Ucraina: nella città orientale di Kharkiv un missile si è abbattuto vicino a un palazzo residenziale, causando due morti e un centinaio di feriti – secondo le autorità locali. A Sumy (recente teatro di una grossa strage) un drone ha colpito un forno in attività, uccidendo una persona che si era recata a ritirare del pane per le celebrazioni pasquali e ferendo un altro dipendente. «Ecco come la Russia onora i valori della tradizione cristiana», ha commentato il ministro degli esteri ucraino.

 

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