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Militari attendono l'inizio della parata del 2 giugno - Borgia/AP

Nella foto: Militari attendono l’inizio della parata del 2 giugno – Borgia/AP

Eccoci alla settimana del referendum. 

Lunedì Rosso di questo primo lunedì di giugno si apre con chiaro un invito al voto e prosegue analizzando l’importanza della manifestazione di sabato contro il dl sicurezza.

Una manifestazione che ci ha restituito un movimento che non si è fatto ingabbiare dagli schemi tossici della destra.

Destra che si mostra sempre più allergica alle notizie, con addirittura il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia che in aula evoca un possibile complotto dei giudici in combutta con il manifesto.

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Le président italien Sergio Mattarella réélu pour un second mandat

"È inaccettabile il rifiuto di applicare le norme del diritto umanitario ai cittadini di Gaza".

Le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella esprimono una presa di posizione netta su quanto sta avvenendo all'interno della Striscia.

"I palestinesi hanno diritto al loro focolare entro confini certi"

ha continuato il presidente prima del tradizionale concerto al Quirinale per il 79° anniversario della Festa della Repubblica, a cui partecipa il corpo diplomatico.

"Dal territorio dell'Europa al Medioriente, come ovunque, in qualsiasi continente, l’occupazione illegale di territori di un altro Paese non può essere presentata come misura di sicurezza. Si rischia di inoltrarsi sul terreno della volontà di dominio, della barbarie nella vita internazionale", ha concluso.

LEGGI Gaza, Mattarella: “Occupazione illegale, palestinesi hanno diritto al loro focolare ”https://www.huffingtonpost.it/video/2025/06/01/video/mattarella_disumano_ridurre_alla_fame_un_popolo_i_palestinesi_hanno_diritto_al_loro_focolare-19328634/?ref=HHTP-BH-I19202862-P6-S2-T1

 

 

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Il limite ignoto Domani i colloqui a Istanbul

Il capo della delegazione russa Vladimir Medinsky parla ai media dopo il primo round di colloqui di pace Il capo della delegazione russa Vladimir Medinsky parla ai media dopo il primo round di colloqui di pace

Più che verso i negoziati previsti domani a Istanbul, l’attenzione di Russia e Ucraina sembra assorbita da quanto accade al fronte. È ormai ufficiale che Mosca stia tentando di premere su diverse assi per guadagnare terreno e concretizzare un’offensiva primaverile ai danni di Kiev. In particolare, l’area nord-orientale di Sumy si trova parecchio interessata dalle spinte: secondo il presidente ucraino Volodymyr Zelensky qui sarebbero state ammassate 50mila truppe nemiche e una settimana addietro il suo omologo russo Vladimir Putin aveva parlato esplicitamente della necessità di una buffer zone al confine.

POTREBBE ESSERE dunque questa l’intenzione del Cremlino: completare definitivamente la liberazione della oblast di Kursk (da cui gli ucraini si erano ritirati in maniera quasi totale a marzo, dopo l’incursione a sorpresa dello scorso agosto) e rosicchiare ulteriori metri in campo avversario per una “messa in sicurezza” che può essere presentata internamente come un’operazione vittoriosa. Sebbene sia difficile che si verifichino sfondamenti cospicui e in breve tempo (la Russia manca di sufficienti mezzi corazzati per manovre di peso e la linea di contatto è pattugliata da una parte e dall’altra da sciami di droni), Kiev si affretta a sfollare il più possibile la popolazione: sarebbero oltre 200 le località con ordine di evacuazione. Il comandante in capo delle forze ucraine Oleksandr Syrsky ha inoltre riferito di attacchi più sostenuti del solito lungo l’asse di Zaporizhzhia, centro-est del paese.

NON STUPISCE allora che i proclami riguardanti la diplomazia si rarefacciano. Anzi, parrebbe quasi che sia Ucraina che Russia si stiano approcciando ai colloqui a Istanbul dando per scontato che accordi sul quadro generale della guerra non saranno nell’ordine delle possibilità. Più probabile che si cerchi intese su questioni pratiche, come è successo nella scorsa sessione che ha comunque fruttato il più grosso scambio di prigionieri dall’inizio del conflitto. In ogni caso, Kiev ha sottoposto sia alla controparte che agli Stati uniti un memorandum in 22 punti in cui stila le proprie condizioni per la prosecuzione del dialogo con Mosca la quale, però, al momento non sembra essersi sforzata nel fare altrettanto. Sono, invece, i paesi terzi a profondere maggiore impegno nel tentativo di tenere in piedi i negoziati. Innanzitutto la Turchia, padrona di casa piuttosto attiva negli ultimi giorni: il ministro degli esteri Hakan Fidan si è recato l’altro ieri di persona in Ucraina, mentre il presidente Erdogan si è sentito telefonicamente con Zelensky ribadendo che Ankara «sostiene la sovranità e l’integrità territoriale» del paese aggredito. Pur avendo intessuto nel corso del tempo rapporti di strumentale collaborazione con la Russia, la Turchia rimane il secondo esercito della Nato e ultimamente, complici forse le volontà di protagonismo nella gestione della Siria post-Assad, si nota un certo riavvicinamento all’Europa (e ai suoi piani di riarmo).

WASHINGTON dal canto suo continua su una sorta di doppio binario retorico per cui, da un lato, il presidente Donald Trump e funzionari quali l’inviato Keith Kellogg operano concessioni verso Mosca (il secondo ha definito «legittime» le preoccupazioni russe verso l’espansione dell’alleanza militare euro-atlantica), dall’altro, il senatore repubblicano Lindsey Graham si dice pronto con un pacchetto di nuove sanzioni da approvare la settimana prossima. Sul Bosforo dovrebbe arrivare domani anche una rappresentanza della «coalizione dei volenterosi», coi consiglieri militari di Francia, Germania e Gran Bretagna. Pure qui, la necessità di recuperare peso su una scena internazionale sempre più incerta si fa sentire. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz, dopo essersi accreditato come garante del sostegno militare all’Ucraina e aver dato l’ok agli attacchi in territorio russo, ha peraltro annunciato che giovedì si recherà negli Stati uniti per incontrare per la prima volta il leader della Casa bianca. Fuori dai giochi l’Italia di Giorgia Meloni, che dal vertice con le repubbliche centro-asiatiche ad Astana (Kazakhstan) si giustifica: «Non è un’esclusione, per ora si lavora su formati già collaudati».

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Il No al decreto sicurezza porta in piazza a Roma una «marea di vita e umanità». Collettivi, associazioni, partiti, sindacati e la musica sparata dai camion per un rave party itinerante. La risposta al disegno repressivo del governo non si ferma: «Ci troverete ovunque»

Niente paura Movimenti, collettivi, opposizioni, sindacati e antiproibizionisti Il popolo contro il «decreto paura» incassa e già pensa all’autunno

La manifestazione di Roma contro il decreto sicurezza La manifestazione di Roma contro il decreto sicurezza – Lapresse

«Siamo una marea di vita e di umanità. E il nostro obiettivo è mandare a casa il governo». Il camion della rete contro il dl sicurezza si muove da piazza Vittorio lungo via Merulana, direzione Colosseo e proclama in poche parole il programma di resistenza e contrattacco che ci attende per i prossimi mesi. Ed è inevitabile, di fronte al colpo d’occhio dei manifestanti cominciare a tirare i primi bilanci.

A QUEL PUNTO anche l’osservatore più esperto si trova di fronte all’incognita rappresentata dai quattro semiarticolati che sparano musica e che si trovano ancora al punto di partenza. Quanta gente si radunerà attorno ai sound system? Questa è la variabile che fa la differenza sotto il sole caldo di Roma. Dunque, quando la seconda parte della manifestazione diventa, ironia della sorte e contrappasso per Meloni, un vero e proprio rave ambulante antiproibizionista («L’unico muro che ci piace è il muro di casse»), qualcuno ha un’intuizione. «Volete sapete quanti siamo?» dice ai compagni che gli stanno attorno. «Chiediamolo a ChatGpt». Ed ecco che l’oracolo dell’intelligenza artificiale, informata dello spazio ricoperto dalla gente di ogni tipo che dall’Aventino arriva all’Esquilino formula la sua stima: «150.000». Sarebbero più dei centomila che lo scorso 14 dicembre, sorprendendo gli stessi organizzatori, riempirono piazza del Popolo dando vita alla prima vera grande manifestazione autoconvocata contro il governo Meloni. Fu una liberazione, una specie di cura da trauma.

CHISSÀ COSA avrebbero detto ai megafoni Sara Marzolino e Jack Gobbato, i due giovani attivisti di Reggio Emilia e Marghera morti nei mesi scorsi, che proprio in nome della battaglia contro le ideologie securitarie avevano speso le loro ultime energie. Pochi giorni prima essere investita da un’ automobile in corsa, Sara aveva riferito in audizione al parlamento europeo sulle lotte transfemministe contro il dl sicurezza. Jack è finito accoltellato da un balordo mentre cercava di aiutare una donna rapinata. È impossibile non pensare alla loro energia di ventenni che come tanti loro compagni non girano la testa dall’altra parte di fronte alle ingiustizie, è impossibile per tanti non ripensare ai loro volti mentre la potenza di questa piazza risuona per le strade di Roma.

C’È LA CGIL, la Fiom e la Flai. E si capisce che per il sindacato come per molte delle organizzazioni più radicate non è uno sforzo da poco, visto che l’appuntamento romano non ha fermato lo sforzo di mobilitazione nei territori per la campagna referendaria. «Il decreto sicurezza è un provvedimento repressivo, che limita la libertà di poter manifestare e scioperare a tutela dei propri diritti. Noi siamo in piazza per difendere il diritto democratico e costituzionale di manifestare», sostiene

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Terra rimossa Il ministro Katz spara a zero sul presidente francese. Cresce il timore di isolamento: la Germania frena sulle forniture di armi a Tel Aviv. Sul piano Witkoff Hamas si consulta con le altre fazioni. Trump: «Annuncerò l’accordo a breve»

Scontro con Macron: «In Cisgiordania solo uno Stato ebraico» I soldati israeliani arrestano un palestinese nel campo profughi di Tulkarem – Epa

È una guerra di parole quella in corso tra Emmanuel Macron e Israele, ma è sempre più aspra e priva di freni, soprattutto da parte di Tel Aviv. Dopo che il presidente francese ha dichiarato che i Paesi europei dovrebbero adottare una posizione più dura nei confronti di Israele se non permetterà l’ingresso massiccio di aiuti e il miglioramento della situazione umanitaria a Gaza, il governo Netanyahu ha reagito accusando Macron di aver intrapreso una «crociata contro lo Stato ebraico». Il ministero degli Esteri israeliano non vede «alcuna emergenza umanitaria a Gaza». Macron, è scritto nel comunicato israeliano, «invece di fare pressione sui terroristi jihadisti, vuole ricompensarli con uno Stato palestinese». Il riferimento è all’intervento fatto da Macron al forum dello Shangri-La Dialogue di Singapore, in cui il presidente francese ha spiegato che il riconoscimento dello Stato palestinese, a determinate condizioni, è «non solo un dovere morale, ma una necessità politica». Ha poi avvertito che, se le nazioni occidentali «abbandoneranno Gaza» e «lasceranno che Israele faccia ciò che vuole», rischieranno di perdere ogni credibilità sulla scena mondiale.

Il governo Netanyahu ha compreso che Macron ieri ha anticipato pubblicamente le sue prossime mosse all’Onu. Parigi sta valutando la possibilità di riconoscere lo Stato di Palestina alla conferenza delle Nazioni unite che Francia e Arabia saudita organizzeranno congiuntamente dal 17 al 20 giugno. In quella sede la Francia intende definire i parametri di una tabella di marcia verso lo Stato palestinese, garantendo al contempo la «sicurezza di Israele». Ad accrescere le preoccupazioni di Tel Aviv è anche l’annuncio fatto ieri dalla Germania, che si riserva di decidere se approvare o meno nuove forniture di armi a Israele in base a una valutazione della situazione umanitaria a Gaza.

La controffensiva diplomatica israeliana è già in corso da giorni. Il ministro degli Esteri Gideon Saar ha fatto sapere ai governi europei che qualsiasi passo a favore dell’indipendenza palestinese sarà seguito dall’annessione a Israele della Cisgiordania occupata. E ieri il ministro della Difesa Israel Katz ha aperto un fuoco di sbarramento dichiarando che il governo Netanyahu costruirà «lo Stato ebraico israeliano» in Cisgiordania. «Questo è un messaggio chiaro a Macron e ai suoi amici: loro possono anche riconoscere uno Stato palestinese sulla carta, ma noi costruiremo lo Stato ebraico israeliano qui sul territorio», ha dichiarato Katz in una nota dal suo ufficio. «Quella carta finirà nel dimenticatoio della storia e lo Stato di Israele prospererà», ha affermato perentorio. Parole che, non a caso, Katz ha pronunciato visitando Sanur, il sito dove sorgeva l’omonimo insediamento coloniale israeliano evacuato e distrutto nel 2005 dal premier Ariel Sharon, nel quadro del suo piano di ridispiegamento (ritiro) da Gaza e da quattro piccole colonie in Cisgiordania. Fu una ferita mai rimarginata nella destra israeliana, e due giorni fa il governo ha annunciato che Sanur sarà ricostruito nell’ambito di un progetto di creazione di 22 colonie.

In primo piano ieri c’era anche l’ultima proposta di cessate il fuoco a Gaza e di scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, presentata dall’inviato americano Steve Witkoff. Benyamin Netanyahu ha fatto sapere ai media di averla accettata. Hamas, invece, ha preso tempo e annunciato di volersi consultare con le altre «fazioni palestinesi» prima di dare una risposta definitiva. L’orientamento prevalente è quello di respingere l’offerta di Witkoff, come ha detto alla BBC un dirigente del movimento islamico, perché – ha spiegato – non soddisfa le richieste palestinesi fondamentali, tra cui la fine della guerra. L’inviato USA, infatti, non ha previsto la cessazione permanente dell’offensiva israeliana in cambio della liberazione di tutti gli ostaggi a Gaza – sono 58 in totale, di cui 20 vivi –, come Hamas propone da tempo.

Piuttosto, promuove la liberazione di 10 ostaggi vivi e la restituzione dei corpi di altri 18 deceduti in cambio di 60 giorni di cessate il fuoco, senza il ritiro delle truppe di occupazione. La tregua, teoricamente, si prolungherebbe nel caso di un buon andamento delle trattative successive. Ma anche il più ingenuo degli osservatori sa che il governo Netanyahu, al termine della pausa di due mesi, riprenderà l’offensiva militare. Proprio come è accaduto al termine della prima fase della tregua scattata lo scorso 19 gennaio e interrotta da Israele il 18 marzo. Witkoff conferma anche il contestato nuovo meccanismo di distribuzione degli aiuti umanitari voluto dal governo Netanyahu.

Confezionata in modo da spingere Hamas a rifiutarla, non sorprende che Netanyahu si sia affrettato ad approvare la proposta. Intervistato dal quotidiano Maariv, il tenente colonnello della riserva Amit Yagur ha spiegato che il nuovo meccanismo di distribuzione alimentare «rappresenta una svolta strategica fondamentale». Priva Hamas «dei suoi principali elementi di sovranità, mentre sono in corso i preparativi per l’attuazione di un piano di emigrazione volontaria» della popolazione palestinese, ha aggiunto. Prevedendo il rifiuto di Hamas, il ministro ultranazionalista Itamar Ben Gvir ha esortato a usare «tutta la forza necessaria» contro Hamas, in realtà contro Gaza, allo scopo di cacciare via gli abitanti.

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Terra rimossa Si fermano le consegne degli aiuti, l'annuncio arriva prima dai droni e poi dalle pallottole. Onu: un bambino palestinese ucciso o ferito ogni 20 minuti. A Gerusalemme pestaggi al grido di «morte agli arabi»

Palestinesi con i pacchi della Ghf a Netzarim Epa/Haitham Imad Palestinesi con i pacchi della Ghf a Netzarim – Epa

Il messaggio lo hanno consegnato i droni israeliani, una voce registrata nel cielo di Gaza: «Nessun aiuto oggi, tornate a casa». Non è la prima volta che l’esercito affida ai droni il compito di «parlare» ai palestinesi, di terrorizzarli con latrati di cani o grida disperate di bambini piccoli. Un altro modo per spezzare le anime, insieme al ronzio incessante che non concede riposo.

IL MESSAGGIO – «nessun aiuto oggi» – era stato consegnato anche con le pallottole, sparate sulla folla che si era assiepata fuori dal centro di distribuzione statunitense della Gaza Humanitaria Foundation (Ghf) lungo il corridoio Netzarim. Almeno venti i feriti, riportano fonti mediche. «Le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro civili disperati questa mattina, che si erano raccolti su Via Salah al-Din per ricevere cibo in uno dei nuovi centri – racconta il giornalista Tareq Abu Azzoum – In un altro caso, un palestinese è stato ferito da dei cecchini israeliani vicino Rafah, mentre si avvicinava al punto di distribuzione».

Sono almeno dieci i palestinesi uccisi a Gaza negli ultimi tre giorni mentre cercavano di ottenere un pacco alimentare. Si muore di fame in tanti modi diversi. A migliaia ieri si erano presentati nei quattro centri della Ghf, hanno ricevuto solo pallottole, sparate dai cecchini o dai quadricotteri. È la faccia che assume l’assistenza umanitaria militarizzata: «Si vedono carri armati, si vedono veicoli blindati – scrive il reporter palestinese Hani Mahmoud – La sorveglianza totale…Camminiamo in una base militare, non in un centro umanitario. Ci sono anche denunce di sparizioni forzate. Molte famiglie raccontano di figli o parenti che sono andati a ritirare i pacchi e che sono scomparsi».

A poca distanza, lungo la linea di demarcazione con lo Stato di Israele, il gruppo suprematista Tzav 9, nato dalla pancia del movimento dei coloni, insisteva nei tentativi di bloccare i camion umanitari in ingresso a Gaza dal valico di Karem Abu Salem. Lo fanno da mesi, ma non è quello il principale ostacolo a un flusso dignitoso di aiuti dentro la Striscia: il blocco israeliano totale, iniziato il 2 marzo scorso, di fatto non è mai stato sospeso. Il voto del governo di Tel Aviv del 18 maggio che riapriva i valichi all’assistenza umanitaria è stato bypassato dallo stesso esecutivo, tramite la farsa della Ghf e l’embargo imposto alle Nazioni unite.

Secondo l’ufficio umanitario dell’Onu, Ocha, solo 600 dei 900 camion approvati dalle autorità israeliane hanno effettivamente raggiunto Karem Abu Salem e in ogni caso la maggior parte non è andato oltre. «Quello che abbiamo portato dentro è la farina – denuncia il portavoce di Ocha, Jens Laerke – Significa che non è pronta da mangiare. Il 100 percento dei gazawi è a rischio carestia». «(Si sono raggiunti) livelli che non avremmo mai immaginato possibili – aggiunge l’altra portavoce, Olga Cherevko – Livelli di disperazione, di fame e di completo deterioramento della dignità umana».

 

L’ALTRO NUMERO lo dà Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi: a sole tre ore di distanza da Gaza, ad Amman, «ci sono abbastanza forniture per sostenere oltre 200mila persone per un mese intero». La situazione peggiore resta quella del nord, dove gran parte dei governatorati è sotto ordine di evacuazione israeliano (ieri ne sono stati emessi altri), gli aiuti non arrivano e di ospedali funzionanti non ce ne sono più, come denunciava ieri Mohammed Salha, il direttore dell’ospedale Al-Awda, svuotato di pazienti e medici dall’esercito dopo due settimane di assedio totale e terribile. «Ci sono tante persone ferite – ha detto Salha – Tante uccise e rimaste per strada. Nessuno le può andare a prendere». Un abbandono completo, disperante.

Intanto a sud proseguono i raid con la strage peggiore a Khan Younis, città anche questa sotto ordine di evacuazione: 14 gli uccisi nel bombardamento di una tendopoli. Tra loro anche dei bambini, alcuni dei 50mila uccisi o feriti dal 7 ottobre 2023, «uno ogni venti minuti», ha denunciato ieri l’Unicef. Ieri il bilancio delle vittime degli ultimi venti mesi è salito a 54.300, i morti identificati a cui si aggiunge un numero impossibile da quantificare di dispersi sotto le macerie, almeno 15mila. Persone i cui corpi sono irraggiungibili perché sopra hanno tonnellate di cemento, corpi fatti a pezzi, come evaporati, corpi mangiati dai cani randagi.

Al di là dei due muri, in Cisgiordania, le violenze dei coloni non rallentano. Nella Valle del Giordano hanno eretto delle barriere per impedire ai contadini di Ein al-Hilweh di raggiungere i propri campi e a sud, a Masafer Yatta, hanno aggredito e picchiato una donna incinta di 37 anni. Intanto a Jenin era l’esercito ad aprire il fuoco nel villaggio di Sanur: due ragazzine di 10 e 12 anni sono rimaste ferite. A Gerusalemme un gruppo di tifosi del Beitar ha picchiato duramente due autisti palestinesi a bordo di un bus pubblico al grido di «Morte agli arabi».

 

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