Centrosinistra Uno studio sui dati delle europee 2024 dimostra che i giallorossi possono riconquistare almeno 31 collegi alla Camera, lasciando le destre sotto la maggioranza di 200 seggi
Elly Schlein, Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni – Ansa
In questo inizio di primavera, dalla piazza pacifista del M5S fino alle iniziative comuni sulla Rai e sulla mozione pro Gaza, si sta registrando una ripresa dell’asse giallorosso tra Pd, M5S e Avs. Il “campo stretto” che potrebbe essere la base per la coalizione destinata a sfidare le destre alle prossime politiche. Ma qual è la forza competitiva di questo schieramento nel caso in cui decida di rompere gli indugi e diventare un’alleanza?
SECONDO UNA ELABORAZIONE di Antonio Floridia sui 147 sui collegi uninominali della Camera sulla base dei voti delle europee 2024 (in cui il centrodestra è andato un po’ meglio rispetto alle politiche 2022, e ha preso il 47% rispetto al 43,8%) le prospettive dei giallorossi non sono affatto negative: se nel 2022 la somma dei collegi conquistati dal centrosinistra più i 5S era di 22 contro i 122 delle destre, votando oggi il distacco si ridurrebbe di molto: 78 a Meloni, 53 ai giallorossi e 14 collegi incerti.
Aggiungendo i seggi del sistema proporzionale sulla base dei risultati del 2022, il totale mostra uno scenario interessante: il centrodestra totalizzerebbe 192 seggi alla Camera (di poco sotto la maggioranza assoluta) e il campo progressista 162, 30 seggi più di quelli attuali. Questo recupero del centrosinistra è dovuto ai risultati dei collegi uninominali, dove nel 2022 il Pd si era presentato con Avs (e +Europa) e i 5S erano andati da soli.
In particolare, le sinistre recuperano seggi in Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Liguria, Puglia, Campania e Sardegna. Non nel lombardo veneto, dopo la superiorità delle destre resta schiacciante. E non sarebbe intaccata neppure in presenza di un campo largo con Azione e Italia Viva.
NEL DETTAGLIO LE FORZE progressiste dilagherebbero al sud: se in Puglia nel 2022 era finita 9 a 1 oggi il risultato sarebbe 7-0 per le opposizioni, con 3 collegi incerti. Così in Campania: i giallorossi rivincerebbero i 7 collegi vinti dai 5s da soli tre anni fa, e recuperebbero 3 di quelli vinti dalle destre. In Sardegna si passerebbe dal 4-0 per Meloni al 4-0 a zero per Schlein e alleati: un vero ribaltone.
In Emilia Romagna il risultato passerebbe dal 7-4 per le destre al 7-2 per le sinistre, in Toscana dal vecchio 7-2 per Meloni al 6-2 (con un collegio in bilico). Nel Lazio la destra si ridurrebbe dal 12 a 2 del 2022 al 7-6 del nuovo voto politico. E in Calabria l’assegnazione dei seggi si ribalterebbe: dal 4-1 per Meloni e soci al 4-1 per il centrosinistra. In sintesi le destre perderebbero 44 seggi che attualmente hanno: 30 con ragionevole certezza e 14 in bilico.
NUMERI CHE NON NASCONO da una clamorosa crescita delle forze di opposizione, ma dalla loro (eventuale) capacità di presentarsi in coalizione: dal 2022 al 2024, infatti, Pd, M5S e Avs sono passati insieme dal 37,8% al 40,9%. (le destre dal 43,8 al 47%) Una crescita che riguarda soprattutto i dem e i rossoverdi, mentre il partito di Conte ha perso 5 punti percentuali. Ma nella somma che serve nei collegi questo calo dei 5S a favore degli alleati non rappresenta un danno.
LA DIFFERENZA RISPETTO al 2022 è che gli elettorati dei tre partiti hanno già dimostrato di potersi sommare: è successo nel caso delle vittorie alle regionali di Sardegna, Emilia-Romagna e Umbria, e anche dove ci sono state sconfitte come in Liguria, Abruzzo e Basilicata. E potrebbe accadere alle prossime regionali in Puglia, Campania, Toscana, Marche e Veneto. E alle comunali del 2024 c’erano state alleanze vincenti a Bari, Perugia, Cagliari, Potenza, Campobasso e in molti capoluoghi dell’Emilia Romagna. Se è vero dunque che gli elettorati di Pd e Avs sono più coalizionali rispetto a quello dei 5S, i supporter di Conte hanno dimostrati di non essere totalmente allergici all’alleanza.
DEL RESTO, GIÀ NEL 2022 se i tre partiti fossero stati uniti, come si è scritto molte volte, Meloni non sarebbe arrivata a palazzo Chigi. I numeri dicono che alla Camera le destre avrebbero avuto 187 seggi contro i 179 dei giallorossi, mentre al Senato le destre si sarebbero fermate a 83 seggi (ben al di sotto della maggioranza) e i giallorossi l’avrebbero sfiorata con 96 seggi, cui aggiungere i 3 conquistati dal Pd all’estero. Questo calcolo è stato effettuato tenendo conto solo dei collegi uninominali in cui la somma di centrosinistra e 5S supera le destre di almeno 5 punti.
Il calcolo di Floridia, fatto sui numeri delle europee, è più realistico perché tiene conto del calo registrato dai 5S dal 2022 al 2024: in Campania il partito di Conte è passato dal 34 al 20%, in Puglia dal 28 al 14%, in Calabria dal 29 al 16%. Un calo solo in parte compensato da Pd e Avs che sono passati rispettivamente dal 15 al 22% e dal 3 al 7% in Campania e dal 17 al 33% in Puglia (Avs stabile intorno al 4%).
QUESTI NUMERI nel complesso dicono una cosa: che nel 2022 era possibile impedire la vittoria delle destre e che questo è vero anche oggi, anche con una coalizione ristretta a Pd, 5S e Avs. I numeri per un maggioranza progressista (ancora?) non ci sono. Ma va segnalato che nello studio di Floridia una coalizione allargata anche ai centristi di Renzi e Calenda soffierebbe altri 15 seggi alle destre: alla Camera il campo largo avrebbe 198 seggi contro i 177 delle destre.
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L’Europa allarga la guerra ai migranti: anche Bangladesh, Egitto e Tunisia devono essere considerati «paesi sicuri». E i respingimenti alla frontiera vanno anticipati. Von der Leyen fa felice Meloni. La Commissione Ue sempre più sovranista e il diritto di asilo svanisce
Commistione europea Il giorno prima che la premier italiana incontri Trump, la Commissione propone di anticipare le norme utili a riempire i centri in Albania. Così l’istituzione comunitaria entra a gamba tesa nella causa discussa dalla Corte di giustizia Ue. La leader Fdi esulta: cambiamo l’approccio europeo sul governo dei flussi migratori
Il centro migranti di Gjader in Albania – Ansa/Domenico Palesse
Il giorno dopo la telefonata con Ursula von der Leyen e il giorno prima dell’incontro con Donald Trump la presidente del Consiglio Giorgia Meloni incassa un assist dalla Commissione Ue sul progetto più controverso della legislatura: i centri in Albania. Ieri l’istituzione comunitaria ha proposto l’anticipazione di due punti del Patto su immigrazione e asilo per permettere al governo italiano di riempire le strutture di Gjader.
IL PACCHETTO DI NORME doveva entrare in vigore a giugno 2026, ma ora la Commissione chiede di far prima nell’ampliamento delle procedure accelerate o di frontiera, quelle che comprimono il diritto di difesa, abbattono le possibilità di ottenere la protezione e prevedono il trattenimento. Nello specifico chiede di anticiparne l’applicazione alle nazionalità con tassi europei di asilo inferiori al 20% e a paesi considerati come «sicuri» anche in presenza di eccezioni per parti di territorio o categorie di persone. Su questo punto l’istituzione ha anche ufficializzato la proposta di lista comune, che affianca quelle nazionali. Comprende Kosovo, Colombia, India, Marocco, gli Stati candidati ad aderire all’Ue e i tre che interessano all’Italia per i centri d’oltre Adriatico: Bangladesh, Egitto e Tunisia.
Erano loro il target iniziale del protocollo con Tirana, esteso ai migranti “irregolari” solo dopo che i giudici di Roma hanno contestato l’inserimento di Bangladesh ed Egitto nella lista nazionale. Nei mesi scorsi la Commissione aveva annunciato l’intenzione di anticipare l’elenco comune, poi lunedì sono trapelate le prime indiscrezioni favorevoli a Meloni. L’ufficializzazione di ieri, però, segna un’improvvisa accelerazione. Soprattutto è un grande favore alla premier sul piano interno, in vista della complessa trasferta Usa, e un’entrata a gamba tesa sulla Corte di giustizia Ue.
UNA SETTIMANA FA l’avvocato generale Richard de la Tour ha pubblicato il suo parere indipendente nella causa sui paesi sicuri sollevata dai tribunali nazionali. Quella in cui la Commissione ha dimostrato di essere più sensibile alle richieste politiche italiane che alle considerazioni di diritto e giurisprudenza europee: nel mese trascorso tra il deposito delle osservazioni scritte e l’udienza orale del 25 febbraio scorso ha cambiato completamente posizione accogliendo in toto la linea di Roma.
Pur dando ragione all’Italia sulla possibilità di inserire l’elenco paesi sicuri in una legge, e aprendo a un inedito bilanciamento tra rapidità delle procedure e garanzia dei diritti fondamentali, l’avvocato generale ha contraddetto le tesi principali del governo Meloni. Quelle che contestavano il potere di controllo dei giudici, la pubblicità delle informazioni e la possibilità di eccezioni per categorie di persone. Secondo de la Tour queste sono legittime solo a patto che siano inserite in un contesto di Stato di diritto, facilmente identificabili e numericamente ridotte. Paletti che se adottati dalla sentenza attesa entro giugno, il parere conta molto ma non è vincolante, renderebbero quasi impossibile la designazione di Bangladesh, Egitto e Tunisia. I centri in Albania rimarrebbero vuoti, a parte qualche “irregolare” nel Cpr di Gjader, fino all’entrata in vigore del Patto.
PERCIÒ ORA LA COMMISSIONE punta ad anticiparla, dimostrando di aver imparato bene la lezione del governo italiano: scavalcare le sentenze sui diritti fondamentali attraverso
Leggi tutto: Von der Leyen paga dazio a Meloni: ok ai «paesi sicuri» - di Giansandro Merli
Commenta (0 Commenti)Israele Centomila soldati in meno secondo le stime: «È un numero enorme. Il governo avrà problemi a continuare la guerra». Rari i rifiuti per i massacri di palestinesi. Prevale la sfiducia nella leadership e nei suoi interessi personali
Riservisti israeliani durante un addestramento nel Golan occupato – Ap/Ohad Zwigenberg
Pubblichiamo l’articolo apparso sulla rivista israeliano-palestinese +972
Nessuno sa dare numeri precisi. Nessun partito o leader politico lo chiede esplicitamente. Ma chiunque abbia trascorso del tempo alle proteste antigovernative o sui social media in lingua ebraica nelle ultime settimane sa che è vero: sta diventando sempre più legittimo rifiutarsi di presentarsi al servizio militare in Israele – e non solo tra la sinistra radicale.
Nel periodo che ha preceduto la guerra, il discorso del rifiuto – o, più precisamente, della “cessazione del volontariato” per le riserve – era diventato una caratteristica significativa delle proteste di massa contro la riforma giudiziaria del governo israeliano. Al culmine di queste proteste, nel luglio 2023, oltre mille piloti e personale dell’aeronautica dichiararono che avrebbero smesso di presentarsi in servizio a meno che la legislazione non fosse stata bloccata, causando avvertimenti da parte dei alti ufficiali militari e del capo dello Shin Bet: la riforma giudiziaria metteva in pericolo la sicurezza nazionale.
LA DESTRA ISRAELIANA sostiene ancora oggi che quelle minacce di rifiuto non solo avrebbero incoraggiato Hamas ad attaccare Israele, ma avrebbero anche indebolito l’esercito. Ma in realtà tutte le minacce sono scomparse nell’etere il 7 ottobre, con i manifestanti che si sono arruolati volontariamente e con entusiasmo.
Per 18 mesi, la stragrande maggioranza della popolazione ebraica israeliana si è radunata intorno alla bandiera a sostegno dell’assalto a Gaza. Ma dopo che il mese scorso il governo ha deciso di far fallire il cessate il fuoco, sono cominciate ad apparire delle crepe.
Nelle ultime settimane, i media hanno riportato un calo significativo dei soldati che si presentano al servizio di riserva. Sebbene i numeri esatti siano un segreto strettamente custodito, a metà marzo l’esercito ha informato il ministro della difesa Israel Katz che il tasso di presenza si è attestato all’80%, rispetto al 120% circa registrato subito dopo il 7 ottobre. Secondo Kan, l’emittente nazionale israeliana, questo numero è falso: il tasso reale è più vicino al 60%. Altri rapporti parlano di tassi di partecipazione del 50% o inferiori, con alcune unità di riserva che hanno cercato di reclutare soldati attraverso i social media.
«Il rifiuto arriva a ondate, e questa è la più grande ondata dalla Prima Guerra del Libano del 1982», dice a +972 Ishai Menuchin, uno dei leader del movimento di rifiuto Yesh Gvul (C’è un limite), fondato durante quella guerra.
Come per l’arruolamento nelle forze regolari all’età di 18 anni, anche per gli altri israeliani è obbligatorio prestare servizio nella riserva quando vengono convocati fino all’età di 40 anni (anche se ciò può variare a seconda del grado e dell’unità). In tempo di guerra, l’esercito dipende molto da queste forze. All’inizio della guerra, l’esercito ha dichiarato di aver reclutato circa 295mila riservisti oltre ai circa 100mila soldati in servizio regolare. Se i rapporti sul 50-60% di presenze nelle riserve sono accurati, significa che oltre 100mila persone hanno smesso di presentarsi al servizio di riserva. «È un numero enorme – osserva Menuchin – Significa che il governo avrà problemi a continuare la guerra».
«Il 7 ottobre ha inizialmente creato un sentimento di “Insieme vinceremo», ma si è ora eroso», dice Tom Mehager, un attivista che si è rifiutato di prestare servizio durante la Seconda Intifada e che ora gestisce una pagina di social media che pubblica video di passati refusenik che spiegano la loro decisione. «Per attaccare Gaza bastano tre aerei, ma il rifiuto traccia comunque delle linee rosse. Costringe il sistema a capire i limiti del suo potere».
LA MAGGIOR PARTE di coloro che sfidano gli ordini di arruolamento sembrano essere i cosiddetti “obiettori grigi”, persone che non danno una vera e propria obiezione ideologica alla guerra, ma piuttosto sono demoralizzate, stanche o stufe del fatto che si stia trascinando così a lungo. A questi si affianca una piccola ma crescente minoranza di riservisti che si rifiutano per motivi etici.
Secondo Menuchin, Yesh Gvul è stato in contatto con oltre 150 obiettori ideologici dall’ottobre 2023, mentre New Profile, un’altra organizzazione che sostiene i refusenik, si è occupata di diverse centinaia di casi del genere. Ma mentre gli adolescenti che rifiutano la leva obbligatoria per motivi ideologici sono soggetti a pene detentive di diversi mesi, Menuchin è a conoscenza di un solo riservista che è stato punito per il suo recente rifiuto, ricevendo una condanna a due settimane di libertà vigilata. Hanno paura di mettere in prigione chi rifiuta, perché se lo facessero potrebbero affossare il modello dell’«esercito del popolo – spiega – Il governo lo capisce e quindi non insiste troppo; si accontenta di licenziare qualche riservista, come se questo risolvesse il problema».
Di conseguenza, per Menuchin è difficile stimare la reale portata di questo fenomeno. «Durante la guerra del Libano, la nostra valutazione era che per ogni obiettore che andava in prigione, ce n’erano altri 8-10 ideologici – dice – Quindi se 150 o 160 persone hanno dichiarato di non voler servire per motivi ideologici, è ragionevole stimare che ci siano almeno 1.500 obiettori ideologici. E questa è solo la punta dell’iceberg [dato il numero molto più elevato di obiettori non ideologici]».
Tuttavia, secondo Yuval Green – che si è rifiutato di continuare a prestare servizio a Gaza dopo aver disobbedito all’ordine di dare fuoco a una casa palestinese e che ora guida un movimento contro la guerra chiamato “Soldati per gli ostaggi” con 220 riservisti che hanno firmato la dichiarazione di rifiuto – questa categorizzazione binaria non racconta l’intera storia.
«Ci sono sempre più persone che non si preoccupano necessariamente dei palestinesi, ma che non si sentono più in pace con gli obiettivi della guerra – spiega – Io lo chiamo “rifiuto grigio-ideologico”. Non ho modo di sapere quanti siano, ma sono sicuro che sono molti». «In passato, le persone che conoscevo erano molto arrabbiate con me [per aver obiettato] – continua Green – Ora sento molta più comprensione. Siamo diventati più rilevanti. I media si occupano di noi; siamo stati invitati a Channel 13 e a Channel 11. Giorno dopo giorno, vedo dichiarazioni di rifiuto».
Gli esempi recenti abbondano. La settimana scorsa, Haaretz ha pubblicato un articolo della madre di un soldato che dichiarava: «I nostri figli non combatteranno in una guerra messianica per scelta». In un altro intervento dello stesso giornale, scritto da un soldato anonimo, si leggeva: «L’attuale guerra a Gaza ha lo scopo di comprare la stabilità politica con il sangue. Non vi prenderò parte». Altri sono meno espliciti, ma l’effetto è simile.
IN UNA RECENTE intervista, l’ex giudice della Corte suprema Ayala Procaccia si è astenuta dall’appoggiare il rifiuto, ma ha invitato alla «disobbedienza civile». Il 10 aprile, quasi mille riservisti dell’aeronautica hanno pubblicato una lettera aperta in cui chiedevano un accordo sugli ostaggi che ponesse fine alla guerra; a loro si sono presto aggiunti centinaia di riservisti della marina e della unità d’élite di intelligence 8200. Il primo ministro Netanyahu ha risposto: «Il rifiuto è un rifiuto – anche quando viene detto implicitamente e con un linguaggio riciclato».
Yael Berda, sociologa della Hebrew University e attivista di sinistra, ha spiegato che il calo della disponibilità a presentarsi al servizio di riserva deriva innanzitutto da preoccupazioni economiche. Ha fatto riferimento a un recente sondaggio del Servizio israeliano per l’occupazione, secondo il quale il 48% dei riservisti ha dichiarato di aver subito una significativa perdita di reddito dal 7 ottobre e il 41% ha affermato di essere stato licenziato o costretto a lasciare il proprio lavoro a causa di periodi prolungati nelle riserve.
Anche Menuchin attribuisce un peso significativo ai fattori economici, ma offre un’ulteriore spiegazione: «Gli israeliani non vogliono sentirsi dei fessi, e ora stanno raggiungendo un punto in cui si sentono sfruttati. Vedono altri che ricevono esenzioni e scommettono che se dovesse succedere loro qualcosa, nessuno sosterrà loro o le loro famiglie. C’è un senso di abbandono: vedono le famiglie degli ostaggi che fanno crowdfunding solo per sopravvivere. Il punto è che lo Stato non è davvero presente ed è diventato chiaro a sempre più israeliani».
«C’è molta disperazione – continua Menuchin – La gente non sa dove sta andando a parare. Si vede la corsa ai passaporti stranieri – anche prima del 7 ottobre – e la ricerca di luoghi “migliori” in cui emigrare. C’è un crescente ripiegamento sulla preoccupazione per il proprio gruppo di interesse. E soprattutto, gli ostaggi non vengono riportati indietro».
Per quanto riguarda il rifiuto ideologico, Berda individua diverse categorie. Un tipo di rifiuto deriva da «quello che ho visto a Gaza», ma è una minoranza, spiega. «Un altro tipo è la perdita di fiducia nella leadership, soprattutto quando il governo non ha fatto tutto il possibile per riportare indietro gli ostaggi. C’è un divario intollerabile tra ciò che il governo ha detto di fare e ciò che ha effettivamente fatto. E questo divario fa sì che la gente perda la fiducia».
Un’ulteriore categoria, prosegue Berda, è il «disgusto per il discorso del sacrificio» promosso dall’estrema destra religiosa, guidata da personaggi come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich: «È una sorta di contraccolpo contro la narrativa dei coloni che dice che è bene sacrificare la propria vita per qualcosa di più grande. Le persone reagiscono alla nozione che il collettivo è più importante dell’individuo dicendo: “Gli obiettivi dello Stato sono importanti, ma io ho la mia vita”».
PUR NOTANDO che le minacce di rifiuto sono state una parte importante delle proteste antigovernative del 2023, Berda afferma che «ora, dopo il crollo del cessate il fuoco, si può dire che l’intero movimento di protesta si oppone alla continuazione della guerra sulla base del fatto che è la guerra di Netanyahu. È una novità assoluta, non c’è mai stata una frattura del genere, in cui la legittimità del regime è in pericolo».
«Nel 1973 si diceva che Golda era incompetente, che commetteva errori, ma nessuno dubitava della sua lealtà – continua Berda – Durante la prima guerra del Libano, c’erano dubbi sulla lealtà di Sharon e Begin, ma era una cosa marginale. Ora, soprattutto alla luce del Qatargate, la gente è convinta che Netanyahu sia disposto a distruggere lo Stato per il suo tornaconto personale».
Tuttavia, l’ondata di rifiuti e di mancata partecipazione non ha ancora messo in ginocchio l’esercito. «La gente dice: “C’è il governo e c’è lo Stato” – spiega Berda – Queste persone vanno ancora a prestare servizio perché si aggrappano allo Stato e alle sue istituzioni di sicurezza. Perché se non credono in loro, non avranno più nulla».
«Il pubblico capisce che nel momento in cui la fiducia nell’esercito viene meno, la storia è finita, e questo è spaventoso – conclude – Hanno paura di essere coinvolti nel crollo dell’esercito perché questo li renderebbe complici. Bibi sta costringendo gli israeliani a una scelta terribile. Qualunque cosa facciate, sarete complici di un crimine: o il crimine del genocidio o il crimine dello smantellamento dello Stato».
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Centrosinistra Schlein, Conte, Bonelli e Fratoianni annunciano una mozione unitaria sulla Palestina. E si mostrano insieme sulla riforma tv
Nicola Fratoianni, Giuseppe Conte , Elly Schlein, Angelo Bonelli – LaPresse
Giuseppe Conte è insolitamente in anticipo all’appuntamento pomeridiano coi cronisti di Montecitorio. Di fronte ai fotografi si schernisce: «Scusate, ma la foto con me, da solo, è brutta». Il punto è proprio questo: il leader M5S non è solo, stanno per arrivare Elly Schlein, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni. Di più: è già la terza volta che nel corso di questa giornata i quattro leader si presentano in pubblico. Prima c’era stata la tavola rotonda su «informazione ed emergenza democratica», nella quale (c’era anche Riccardo Magi di +Europa) si è convenuto che entro l’8 agosto deve essere recepito il Media Freedom Act: serve la riforma della Rai di fronte alla quale la destra fa melina. Poi è arrivata la conferenza di Arci, Acli ed altre organizzazioni sociali sull’esenzione dell’Iva per il Terzo settore.
È SULLA PALESTINA che le forze politiche prendono l’iniziativa in prima persona. «La situazione a Gaza è inaccettabile – esordisce Bonelli – Abbiamo deciso di presentare una mozione congiunta che prevede dieci impegni che partono dal riconoscimento dello stato di Palestina e dalla condanna dello sterminio che stiamo vivendo e vedendo da troppi mesi». Per il portavoce di Europa Verde è giusto chiedere la liberazione ostaggi presi da Hamas il 7 ottobre del 2023, ma «bisogna condannare i crimini di guerra dei quali si è macchiato Netanyahu ed esprimere sostegno totale alla corte penale internazionale». Meloni finisce al centro delle critiche: «È il momento di fare quello che Meloni non riesce a fare – aggiunge – Basta con l’ipocrisia del governo, che porta Tajani a chiedere una ‘risposta proporzionata’ da mesi. Cosa deve accadere ancora a Gaza perché scattino sanzioni?». Anche Giuseppe Conte evoca il 7 ottobre: «Non dimentichiamo – scandisce – Ma non è possibile comparare l’orrenda strage compiuta dai terroristi di Hamas con i crimini contro umanità che si perpetuano da un anno e mezzo».
IL PRESIDENTE del M5S cita altri punti dei dieci di cui si compone il documento congiunto, invoca l’embargo sulle armi e denuncia che l’esecutivo ha «continuato a osservare i contratti già in essere violando la legge sul commercio di armi». Si tratta, afferma ancora, «di tenere accesi i riflettori della comunità italiana e internazionale: ciò che accade a Gaza e in Cisgiordania sfida il nostro sguardo, il canone occidentale e il concetto che abbiamo dello stato di diritto. Non si tratta di effetti collaterali ma di fatti sistematici. Ci sono vittime innocenti e tantissime donne e bambini, una media di trenta al giorno. Di fronte ai quali il governo Meloni ha una posizione molto vigliacca». Nicola Fratoianni evoca un «cambio di passo»: «Non vogliamo solo gridare la nostra indignazione – dice – Vogliamo dire al paese, al parlamento e al governo che non ne possiamo più di parole di circostanza. Per questo chiediamo il riconoscimento dello stato palestinese. E non accettiamo l’idea che denunciare tutto questo possa essere confinato all’antisemitismo: siamo qui anche per questo».
PER SCHLEIN «serve uno sforzo diplomatico e politico più forte» dal momento che «assistiamo al tentativo del governo di estrema destra di Netanyahu di deportare ii palestinesi da Gaza e dalla Cisgiordania. Bisogna per prima cosa ristabilire il cessate il fuoco, liberare ostaggi e garantire aiuti umanitari: il nostro paese ha una tradizione diplomatica importante, che questo governo tradisce con ambiguità silenzi e omissioni». Fratoianni evidenzia che l’iniziativa comune di Pd, M5S e Avs, dalla quale scaturirà il dibattito parlamentare che è mancato in questi mesi, rappresenta un «fatto politico importante», lasciando intendere che l’accordo delle diverse forze di minoranza sia un segnale più generale. Conte la mette così: «Questa è la nostra mozione, ma siamo aperti a tutti. Anche alla maggioranza. Non dovrebbero esserci distinzioni quando si ha a che fare con crimini contro umanità». Angelo Bonelli definisce Gaza «urgenza morale prima che politica». A chi gli chiede se lo stesso si potrà fare sul riarmo risponde così: «Penso che la posizione del Pd di Schlein su difesa ed Europa segnali un punto di convergenza importante. Siamo consapevoli di avere una responsabilità storica per fermare la peggiore destra e sui diversi temi ci confrontiamo». Dopo mesi di gelo, con Schlein e Conte che parevano fare di tutto per evitare di incrociarsi in pubblico, pare davvero un cambio di passo.
Commenta (0 Commenti)Harvard dice no ai diktat della Casa bianca su inclusione e libertà di protestare per Gaza negli atenei Usa. Anche Obama plaude: «Sia d’esempio». Ancora imboscate agli studenti pro-Pal: Mohsen Mahdawi arrestato durante un colloquio per la naturalizzazione
Usa L’università «non rinuncerà all’indipendenza e ai suoi diritti costituzionali». L’amministrazione congela 2.2 miliardi di fondi
Agenti di polizia nel campus dell'Ucla vicino a un accampamento di manifestanti filo-palestinesi, a Los Angeles – Ryan Sun/Ap
«Harvard non rinuncerà alla propria indipendenza né ai propri diritti costituzionali. Né Harvard né nessun’altra università privata può permettersi di essere sottomessa dal governo federale». Dichiarazione che sarebbe sembrata scontata un paio di mesi fa. Con la quale l’ateneo più prestigioso d’America ha respinto l’intimazione della Casa bianca a cessare ogni iniziativa di pari opportunità, pena la perdita dei finanziamenti pubblici. Il contesto che ha reso singolare la nota è quello in cui atenei come la Columbia hanno accettato le condizioni imposte fino all’eliminazione idi facoltà e la riformulazione di programmi di studi dettata dalla Casa bianca. Per non parlare dell’espulsione d’ufficio di centinaia di studenti stranieri per reati d’opinione (di solito opposizione al massacro di Gaza qualificato come «apologia di antisemitismo»). Ad oggi più di 600 visti sono stati revocati senza appello direttamente dal ministro Rubio. In alcuni casi i “colpevoli” sono stati prelevati a casa o per strada da squadre di incappucciati e fatti sparire nel gulag dei penitenziari federali o in lager offshore.
PER QUANTO LOGICO il rifiuto di Harvard è risaltato dunque come uno squarcio dell’assordante silenzio e della connivenza che ha accompagnato l’inquietante spirale autoritaria. E ha rappresentato un’inversione di rotta rispetto alla genuflessione dello scorso anno, quando l’ateneo aveva licenziato la rettrice, Claudine Gay, per non aver sufficientemente represso il movimento contro la strage di Gaza e revocato le lauree di studenti «dissenzienti».
Anche l’attacco al “Dei” (diversity, equity and inclusion) è stato motivato col «contrasto all’antisemitismo», ma nel panorama ideologico Maga la «sacrosanta crociata» contro il politically correct, è in realtà quella dal più diretto retaggio razzista, una rivalsa promessa da Trump ai sostenitori bianchi che hanno dovuto subire il «sopruso» del «riequilibrio dell’accesso» vinto a suo tempo dal movimento per i diritti civili.
«HARVARD HA DATO l’esempio ad altre istituzioni – ha commentato Barack Obama – respingendo un goffo e illegale tentativo di sopprimere la libertà accademica ed assicurando invece che gli studenti possano beneficiare di un’atmosfera consona all’indagine intellettuale, il dibattito rigoroso ed il mutuo rispetto. Speriamo che altri la seguano».
Almeno un secondo ateneo, l’Mit (Massachusetts Institute of Technology), sembra aver accolto l’appello
Commenta (0 Commenti)Nessuna tregua all’orizzonte L’esercito ha ripreso Khartoum e le Rsf attaccano nel Darfur. I paramilitari nel campo profughi di Zamzam. Spari sulla Croce rossa e disastro umanitario senza fine. Falliti tutti i tentativi di mediazione.
Minni innawi, governatore del Darfur e capo dell'Esercito di liberazione del Sudan (Sla) – Getty Image
I paramilitari delle Forze di Supporto Rapido (Rsf), in un comunicato ufficiale di ieri, hanno indicato di aver preso il controllo del campo profughi di Zamzam, nella regione del Darfur settentrionale, con l’obiettivo di «proteggere i civili, il personale medico e ricevere i convogli per gli aiuti umanitari».
Il campo per sfollati di Zamzam – con oltre 500mila rifugiati – è uno dei più grandi nella regione desertica del Darfur, al confine con il Ciad. Si tratta di uno dei tre grandi campi colpiti dalla carestia secondo il Programma Alimentare Mondiale (Pam) ed è situato alla periferia della grande città di El-Fasher, dove infuriano i combattimenti.
Il Sudan, terzo paese più grande dell’Africa, è dilaniato da una guerra civile tra il capo dell’esercito sudanese (Fas), il generale Abdel Fattah Al-Burhan, e il generale Mohammed Hamdan Dagalo, leader dei paramilitari delle Rsf. Il conflitto è iniziato esattamente due anni fa – il 15 aprile 2023 – e ha causato finora oltre 150mila morti e più di 12 milioni di sfollati interni o rifugiati nei paesi vicini come Egitto, Libia, Ciad, Repubblica Centrafricana, Etiopia e Sud Sudan. Secondo l’Onu e l’Unione Africana, si tratta della «peggiore crisi umanitaria al mondo». Entrambi gli schieramenti accusati «di atrocità e crimini di guerra».
Dopo due anni di combattimenti le Fas di Al-Burhan hanno il controllo del nord e dell’est del paese, mentre le Rsf sono asserragliate in alcune aree del sud e hanno il quasi totale controllo dell’ovest, nella regione del Darfur. Dopo che l’esercito ha riconquistato a marzo la capitale Khartoum, le Rsf hanno intensificato i combattimenti verso El-Fasher – capoluogo del Darfur settentrionale con circa 2 milioni di abitanti – assediata dal maggio 2024.
L’eventuale caduta di El-Fasher preoccupa le Nazioni Unite, perché una piena conquista della regione potrebbe portare alla creazione di «uno stato separatista guidato da Dagalo e dai suoi paramilitari» e giustificherebbe «la strategia della pulizia etnica nella regione».
Da questo venerdì, le Rsf hanno avviato diversi attacchi su El-Fasher e sui campi profughi limitrofi di Zamzam e Abou Chouk. L’Onu teme più di «100 morti negli attacchi», con «migliaia di profughi inermi, vittime delle violenze da parte dei paramilitari». Domenica Minni Minnawi, governatore del Darfur e leader del movimento dell’Esercito di liberazione del Sudan (Sla) – alleato di Al-Burhan – ha dichiarato che da venerdì oltre «450 civili sono stati uccisi a El-Fasher e nei suoi dintorni», con «decine di migliaia di profughi fuggiti dal campo per paura delle rappresaglie delle Rsf».
Le Nazioni Unite, gli Stati Uniti e le organizzazioni umanitarie hanno condannato l’attacco delle Rsf a Zamzam e l’uccisione di personale della Croce Rossa Internazionale (Cri) all’interno dell’ultimo ospedale ancora funzionante nel campo. Riguardo al totale collasso delle infrastrutture sanitarie nel paese, un ultimo rapporto della Croce Rossa, dello scorso giovedì, rileva che «oltre due terzi dei sudanesi sono privati di cure mediche», precisando che «l’80% degli ospedali del paese non sono più operativi».
Sul versante della mediazione, le poche iniziative tentate si scontrano con l’indifferenza dei due schieramenti. A poco sono valsi in questi due anni gli sforzi da parte dell’Arabia Saudita, degli Stati Uniti e dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) – che raggruppa i diversi stati del Corno d’Africa – per «portare le due fazioni a una tregua, con l’obiettivo di proteggere i civili e garantire l’accesso umanitario». Anche recentemente il generale Al-Burhan ha indicato che «una pace duratura sarà possibile solo con la totale sconfitta delle milizie di Dagalo».
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