Decine di arresti e soldati nelle strade, Los Angeles si sveglia dal coprifuoco come città invasa. Trump alle truppe: «Chi protesta sarà contrastato con forza». La Casa Bianca nega l’uso di Guantanamo ma prepara nuovi gulag. E arriva la grande parata militare a Washington
Stati Uniti Prima notte di coprifuoco, nuove retate di migranti, soldati già nelle strade. Trump a Fort Bragg: «L’anarchia non verrà tollerata»
Scontri tra manifestanti e la guardia nazionale a Los Angeles – foto Jae Hong/Ap
Nel quinto giorno della battaglia, Los Angeles si è svegliata dopo la prima notte di coprifuoco. La misura interessa circa cinque chilometri quadrati del centro città dove in questi giorni, attorno al municipio, al tribunale federale e al carcere si sono congregati i manifestanti. Il divieto di circolazione dalle 20 alle 6, secondo la sindaca Karen Bass, rimarrà in vigore per «alcuni giorni» di modo da porre fine ai confronti fra manifestanti e polizia che negli ultimi giorni hanno prodotto scontri e tafferugli.
L’interdizione ha prodotto una ventina di arresti per transito non autorizzato, ma l’effetto del coprifuoco è stato soprattutto di isolare dalla popolazione gli agenti federali e dai soldati dispiegati nel centro, ed è difficile credere che nel calcolo delle autorità cittadine non sia rientrato proprio il proposito di diminuire i pretesti forniti all’intervento di questi ultimi.
L’AMMINISTRAZIONE Trump insiste nella risibile descrizione di una città dilaniata da orde invaditrici e «provocatori pagati» (e annuncia un’indagine della Irs – il fisco – per smascherare i finanziatori). Martedì sera però, l’ultimo assembramento prima del coprifuoco è stata una pacifica processione guidata dalla stessa sindaca con sacerdoti, rabbini, pastori e leader religiosi ecumenici fino al centro di detenzione dove si trova un numero non precisato delle 300 circa persone rimosse da posti di lavoro, abitazioni, scuole o specialmente per strada nei rastrellamenti Ice (Immigration and customs enforcement). La vibe della manifestazione, con candele e cori gospel, ha rimandato alle atmosfere delle proteste peri i diritti civili degli anni Sessanta.
Si è trattato di una replica implicita anche a Donald Trump che nello stesso giorno ha rincarato la dose in un discorso alle truppe di Fort Bragg. «Questa anarchia non verrà tollerata», ha tuonato il presidente nella base militare del North Carolina. «Non permetteremo che gli agenti federali vengano aggrediti e non lasceremo che una città americana sia invasa da un nemico straniero. Libereremo Los Angeles».
IL DISCORSO di fronte alle truppe scelte (nel senso, come è poi trapelato, di essere state selezionate per apparenza atletica e inclinazione politica) è stato un presumibile assaggio di
Commenta (0 Commenti)Altri 2.000 riservisti e 700 marines in strada, parte a Los Angeles la mutazione totalitaria dell’America del tycoon. Che sabato celebrerà il suo compleanno con una parata militare a Washington. Sembrava una buffonata nord-coreana, sono i nuovi Stati uniti
Trump attacks Nella seconda metropoli Usa arrivano anche i marine. Quinto giorno di proteste contro i rastrellamenti che seminano il panico
Gli scontri a Los Angeles tra la polizia e i manifestanti contro le retate dell’Ice – foto Jae Hong/Ap
Il quinto giorno di proteste è coinciso con la mobilitazione di altri 2.000 riservisti, una decisione grottescamente sproporzionata alla realtà sul campo, soprattutto vista l’attivazione contemporanea anche di 700 Marines della vicina base di Camp Pendleton.
Un totale quindi di 4.700 soldati in assetto di guerra come figuranti di un film sceneggiato quasi interamente nella testa di Donald Trump.
Dopo aver strumentalizzato l’economia mondiale, il sistema universitario e la cooperazione internazionale in una rappresentazione conflittuale a tutto campo, il presidente degli Stati uniti sta innescando nella seconda città d’America il prossimo atto della mutazione totalitaria del paese. Non cessa di sottolinearlo il governatore della California, Gavin Newsom, che via social ha informato che il grosso delle truppe resta per ora acquartierato in locali di fortuna in attesa di ordini. Il governatore, sostenuto da una petizione firmata dai governatori di ogni stato democratico, ha querelato il governo federale confutando il commissariamento dei riservisti dello stato.
UFFICIALMENTE le truppe sono state attivate per «riportare la pace» in quella che Trump definisce «città dilaniata dalla violenza» ma, come ha scritto Newsom, il presidente «non cerca pace ma piuttosto la guerra», definendo «squilibrata» la decisione del segretario della difesa Pete Hegseth. Trump dal canto suo non ha escluso l’idea ventilata dallo «zar della deportazione» Tom Homan di arrestare il governatore.
La sottomissione della seconda città del paese alla volontà univoca del governo rientra nella narrazione dell’invasione di stranieri che stanno «scardinando il tessuto stesso della società» e nella criminalizzazione di chi non la sottoscrive. Come ha sostenuto la ministra Kristi Noem: «Più che una città di immigrati abbiamo a che fare con una città di criminali».
L’ESCALATION continua delle provocazioni intanto non fa che alimentare la volontà di difendere la propria città dal sopruso. Le proteste continuano quotidianamente soprattutto nel distretto del centro, un perimetro di una decina di isolati fra la vecchia missione spagnola e il complesso giudiziario federale fra Temple, Alameda, Los Angeles streets e l’autostrada 101. È qui che sono dislocati i cordoni della guardia nazionale di fronte ai quali si congregano le folle, di solito qualche centinaia di persone, molti giovani, studenti, ispanici, ovviamente in questa città a maggioranza di latinos, ma decisamente multietniche e intergenerazionali, unite da un senso solidarietà che rimanda alle grandi manifestazione di Black Lives Matter di cinque anni fa. Le richieste sono sempre le stesse: ritiro degli agenti federali e stop ai rastrellamenti indiscriminati che mirano a seminare il panico.
LA SINDACA, Karen Bass, ha nuovamente chiesto all’amministrazione di fermare i rastrellamenti. «Spero che
Commenta (0 Commenti)Nel deserto della partecipazione falliscono i referendum sul lavoro proposti dalla Cgil e quello sulla cittadinanza, appoggiati dai partiti di opposizione. L’affluenza arriva appena al 30%. La destra esulta e non vede più ostacoli alle sue politiche su migranti e precarietà
Vuoto a perdere Landini: «Ripartiamo dai 14 milioni che sono andati alle urne» Ma l’astensione preoccupa: «È in atto una crisi democratica»
l segretario della Cgil Maurizio Landini durante la conferenza stampa sull’esito dei referendum – LaPresse
«Il nostro obiettivo era il quorum per cambiare le leggi: non l’abbiamo raggiunto. Non è una vittoria», esordisce il leader della Cgil Maurizio Landini nella conferenza stampa sul risultato referendario. Quella percentuale del 30,5% raggiunta a fatica è impressa sul volto dei militanti del sindacato che, al centro congressi di via dei Frentani, nel quartiere romano di San Lorenzo, non nascondono delusione e stupore. «Avevamo avuto risposte confortanti in questi giorni», dice ancora stupito un giovane sindacalista, impegnato domenica nel giro dei seggi. E poi chiosa: «Noi il nostro l’abbiamo fatto, la nostra generazione è andata a votare, sono quelli con il lavoro sicuro che non hanno sentito l’urgenza».
E A GUARDARE I PRIMI dati sembra avere ragione: nelle città universitarie senza dubbio si sono registrate percentuali più lusinghiere. A titolo di esempio, nelle sezioni per gli studenti fuorisede allestite all’Università cattolica di Milano l’affluenza è stata tra l’82 e il 92 per cento. E anche per il quesito sulla cittadinanza, bocciato a livello nazionale dal 34,6% dei votanti, la fascia sotto i quarant’anni ha votato sì con percentuali molto alte. Francesca, della segreteria organizzativa della Cgil, alla chiusura dei seggi si sforza di vedere in questo dato un bicchiere mezzo pieno: «Guardate al voto dei giovani e delle donne», dice ai cronisti appostati davanti alla sala stampa. Sulla carta è così (in tutta Italia le donne hanno votato più degli uomini, con uno scarto del +7%, secondo Youtrend) ma non è bastato.
«SAPEVAMO CHE NON sarebbe stata una passeggiata. C’è un evidente crisi della democrazia e della partecipazione. Estendere la tutela del lavoro e della democrazia sono lo stesso problema», commenta il segretario della Cgil che rivendica la scelta del referendum: «Abbiamo sempre detto che questo non era un voto politico o contro il governo, ma che era un voto per cambiare leggi balorde – spiega – e non abbiamo cambiato idea. È il centro destra che l’ha politicizzato invitando ad andare al mare ma i disagi e le problematiche del Paese ci impegnano a continuare questa battaglia utilizzando tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione, sia in termini contrattuali si in termini di mobilitazione. Questi temi dovranno essere oggetto nei prossimi giorni di un confronto con il governo e con le associazioni industriali». «C’erano ministri che non conoscevano i quesiti ma invitavano a non votare, non volevano confrontarsi nel merito», insiste, ma è vero anche che a parlare del quesiti su lavoro e cittadinanza come un referendum sul governo di Giorgia Meloni sono stati anche i partiti di centro sinistra, una volta raccolto l’appello del sindacato. «Se la discussione diventa chi ha vinto o perso tra le forze politiche non si sta capendo ciò che è avvenuto: c’è una forte crisi democratica. Da cambiare è l’atteggiamento delle forze politiche rispetto alla democrazia. L’esplicito tentativo di voler utilizzare il mancato raggiungimento del quorum per dire che tutti quelli che non hanno votato sarebbero d’accordo con chi gli ha detto di non andare a votare sarebbe un’esagerazione. Sarebbe come se noi dicessimo che abbiamo vinto», afferma il segretario.
INTANTO FIOCCANO LE dichiarazioni degli esponenti della destra di governo e dei cosiddetti riformisti:
Leggi tutto: Delusione Cgil: «Non siamo stati noi a politicizzare il voto» - di Luciana Cimino
Commenta (0 Commenti)Cinque «Sì» potranno essere scritti sulle schede dei quattro referendum sul lavoro e di quello sulla cittadinanza oggi dalle 7 alle 23 e domani dalle 7 alle 15 nelle urne di tutta Italia. Il comitato promotore dei Referendum sul lavoro è guidato dalla Cgil, che ha raccolto oltre 4 milioni di firme e ottenuto l’appoggio di Partito Democratico, Cinque Stelle e Alleanza Verdi Sinistra. Quello sulla cittadinanza è promosso da +Europa, Radicali, Psi, Rifondazione Comunista, Possibile e diverse associazioni civiche, con oltre 637 mila firme raccolte.
I CINQUE QUESITI sono stati dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale il 20 gennaio 2025. Perché il risultato sia valido, è necessario raggiungere il quorum del 50% più uno degli aventi diritto al voto. Ed è questa la sfida politica, non scontata, che si giocherà anche dopo la chiusura delle urne.
IL «SÌ» AL PRIMO QUESITO abroga il «Contratto di lavoro a tutele crescenti», istituito dal jobs act e dalla riforma dell’articolo 18. Tutti gli assunti dal maggio 2015 sono interessati da una «riforma» che ha creato lavoratori di serie A e di serie B, cioè gli assunti dopo il 2015. Reintrodurre la possibilità della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo serve a riequilibrare, perlomeno, un rapporto di forza con l’impresa.
IL «SÌ» AL SECONDO QUESITO permetterebbe ai lavoratori di ottenere un risarcimento superiore ai 6 mesi in caso di licenziamento ingiustificato. Sarebbe però il caso, in un paese di piccole imprese, di agganciare il calcolo del risarcimento alla capacità economica dell’impresa e non al numero dei dipendenti.
IL «SÌ» AL TERZO QUESITO annulla le norme del Jobs act che permettono di assumere fino a dodici mesi senza specificare la ragione per cui ad un contratto a tempo indeterminato si preferisce uno a termine. è una delle chiavi politiche del referendum: dopo dieci anni si inizia a ridimensionare l’uso fraudolento dei contratti a termine e a imporre una maggiore stabilità di occupazione, e dunque di salario.
IL «SÌ» AL QUARTO QUESITO permetterebbe di rendere più palpabile l’impegno a contrastare gli infortuni e prevenire le morti del lavoro. La ditta principale sarà sempre responsabile dell’accaduto e, tra l’altro, sarebbe garantito ai lavoratori colpiti, e alle loro famiglie, il giusto risarcimento.
IL «SÌ» AL QUINTO QUESITO, quello sulla cittadinanza, ridurrebbe da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dei cittadini stranieri che chiedono la cittadinanza italiana. Non è collegato agli altri quattro, ma è evidente che avrà un impatto sulla condizione lavorativa, oltre che su quella sociale. Il «Sì» permetterebbe di regolarizzare un gran numero di lavoratrici e lavoratori migranti, sottraendoli alla violenza salariale che, nel loro caso, è peggiore di quella normalmente esercitata contro i cittadini italiani. Si può incrinare uno degli architravi del mercato del lavoro, e della società tutta, che esclude milioni di persone invisibilizzate, cioè vivono, lavorano e non votano. Una condizione sancita sin dalla Legge Turco-Napolitano e strutturata dalla Bossi-Fini che favoriscono il lavoro sommerso. la procedura per l’ottenimento della cittadinanza resta lunga: i tempi superano i tre anni. Ma con un «Sì» si accorcia la fase iniziale del percorso.
DA UN LATO, è chiaro che un voto non basta per ribaltare un progetto politico basato su bassi salari e alta precarietà senza tutele perseguito, al di là delle maggioranze, da più di 30 anni. Dall’altro lato, dovrebbe essere altrettanto chiaro che una vittoria del referendum darebbe un segnale non trascurabile sia nell’immediato, contro il governo che si astiene o va a votare per finta come Meloni, sia nel lungo periodo all’establishment, al “centro-sinistra” in qualsiasi formato, ai sindacati che non si torna indietro. E che l’attuale situazione è intollerabile e i diritti non vanno solo «tutelati», ma anche estesi e concatenati al di là delle origini, dei lavori e delle classi.
LA BATTAGLIA PER IL QUORUM è difficile, la vetta del 50% più uno può essere lontana. Ma dietro, attorno e avanti abbiamo una realtà. Quella che ha reso l’Italia è l’unico europeo in cui il salario medio annuale è diminuito anziché aumentare. Tra il 1990 e il 2020 c’è stato un calo del 2,9%. In Francia e Germania ci sono stati aumenti del 33,7% e del 31,1%. Quasi 700 incidenti mortali, sugli oltre mille del 2024 sono avvenuti nella catena degli appalti nell’edilizia, nei campi, nella logistica, nelle fabbriche, lungo le strade: si muore per scarsa formazione, per l’uso di macchinari obsoleti, attrezzature logore, per una sbagliata organizzazione del lavoro.
NON C’È SOLO IL JOBS ACT, in parte neutralizzato dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione. La riforma Treu del 1997, la riforma Biagi, il «collegato lavoro» del 2010, la cosiddetta «riforma Fornero» del 2012, oltre alle già citate leggi sull’immigrazione. Non di sole norme è fatto un sistema. Ma se questa fosse l’ouverture di un’altra stagione sarebbe già una notizia.
La piazza era pronta: dopo venti mesi di genocidio le opposizioni abbandonano le timidezze e scoprono una grande mobilitazione per Gaza. «Siamo trecentomila», gridano Pd, 5S e Avs dal palco di Roma. Prove di unità: «Governo complice, riconosca lo Stato di Palestina»
La manifestazione Se le opposizioni di questo paese avessero chiamato una manifestazione nazionale sei mesi fa, un anno fa, è molto probabile che avrebbero ricevuto una risposta identica
La manifestazione a Roma – LaPresse
La grande piazza romana di ieri, la massa di centinaia di migliaia di persone di diverse età, provenienze, classi sociali, dice due cose che dovrebbero apparire banali a chi fa politica di mestiere e a chi la vive come impegno quotidiano: che il coraggio paga e che le “basi” sono sempre un passo avanti, e un livello di radicalità oltre, le dirigenze.
Se le opposizioni di questo paese avessero chiamato una manifestazione nazionale sei mesi fa, un anno fa, è molto probabile che avrebbero ricevuto una risposta identica. Le persone vedono cosa accade in Palestina, l’hanno compreso da tanto tempo e sono pronte a reagire per camminare insieme e per condividere il senso di impotenza e la vergogna, quel dolore lancinante che per tante e tanti ormai occupa i pensieri perché ha scavato un buco, dentro.
Erano pronte a farsi massa umana, lo hanno dimostrato nel corso di venti mesi e di innumerevoli iniziative, ognuna e ognuno con i propri mezzi e nei propri spazi sociali, di lavoro, di strada.
La sinistra partitica ha faticato a cogliere e intercettare la mobilitazione dal basso, nelle varie forme che ha assunto, tende di protesta, cortei, raccolte firme, sit-in, presentazione di libri, proiezioni di film. Una “fatica” che ha permesso al governo e a un pezzo importante di stampa compiacente di procedere spediti nella criminalizzazione del dissenso, nell’oscuramento mediatico (di Gaza in primis, delle piazze poi) e nelle accuse strumentali e insensate di antisemitismo. La criminalizzazione della protesta ha avuto effetti concreti: colleghi si sono autocensurati, giovani studenti sono stati manganellati, persone hanno visto messo in pericolo il posto di lavoro e l’Italia è stato uno dei pochi paesi occidentali in cui non si è riusciti a costruire una mobilitazione il più possibile larga, capace di portare in strada così tanta gente.
Ieri quella piazza, nel suo melting pot di colori e di appartenenze, ha apertamente contestato i ritardi dei partiti di opposizione, le mezze parole, i tentennamenti di questi mesi infiniti e la paura di dare un nome alle cose. Però c’era. Nonostante i ritardi, le mezze parole e la paura delle dirigenze, la piazza c’era insieme al senso di urgenza perché
Leggi tutto: Il popolo di sinistra è già pronto, e non fa sconti - di Chiara Cruciati
Commenta (0 Commenti)Ultime ore per convincere ad andare a votare per i cinque referendum di domani e lunedì. Primo obiettivo spezzare il silenzio e spingere la partecipazione per raggiungere il quorum. È ancora possibile. Landini: Meloni si nasconde perché non vuole cambiare nulla
Sì spera Landini fino all’ultimo sì «Il traguardo è alla portata»
«Quando le cose sono difficili c’è bisogno dell’intelligenza collettiva, se trovate qualcuno che dice che da solo risolve tutto non vi fidate». Alla fine di questa campagna elettorale, mentre schioccano gli ultimi colpi per il referendum ed è difficile fare previsioni sull’esito che le urne consegneranno lunedì pomeriggio, un risultato è raggiunto. È che Maurizio Landini ha incontrato un popolo in giro per il paese, dopo decine di iniziative, che gli ha fatto cambiare stile. La verve rimane sempre quella, ma bisogna ricorrere a certe caratterizzazioni del cinema popolare del secolo scorso per capire il passaggio di fase. Se il leader sindacale ricordava, per impeto e irruenza, il cittadino che arriva al villaggio per dare l’allarme sullo sbarco alieno e si agita allarmato perché non gli credono, adesso quella passione si traduce in forma più nitida nell’invocazione alla partecipazione e al cammino comune, come un predicatore d’altri tempi.
A PIAZZA TESTACCIO, prima del suo comizio il segretario generale Cgil si intrattiene coi giornalisti e fa un bilancio di queste settimane di comizi, incontri, assemblee e anche riunioni in parrocchia (è successo l’altra settimana a Cosenza, dove anche il vescovo ha invitato a votare 5 sì anticipando l’uscita della Cei a favore della partecipazione alle urne). «Abbiamo intercettato l’attenzione dei giovani – afferma il segretario generale della Cgil – Siamo riusciti a costruire consenso attorno ai temi del diritto del lavoro. E tutto ciò ci fa pensare che questa battaglia è solo all’inizio e che questa la strada giusta che va percorsa anche in futuro. Quando abbiamo iniziato questa campagna elettorale in pochi conoscevano i temi del referendum, oggi ne parlano tutti il che fa ben sperare. Adesso noi concludiamo la campagna referendaria ma nei prossimi giorni, fin quando l’arbitro non fischia la fine della partita, tutti dobbiamo impegnarci per convincere più persone possibili».
CI SONO LE VOCI di lavoratori e lavoratrici. Tra questi Aurora Iacob, giovanissima nata in Italia ma senza cittadinanza, «straniera nella sua nazione» come diceva la canzone dei
Leggi tutto: Landini fino all’ultimo sì: «Il traguardo è alla portata» - di Giuliano Santoro
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