Il governo fa un ennesimo decreto contro i migranti. In Albania, dove i campi sono rimasti vuoti, potranno essere trasferiti anche gli «irregolari» dall’Italia. Calpestati i diritti ma non funzionerà neanche stavolta
Giro di vite Con il nuovo decreto possibili i trasferimenti degli «irregolari» dal territorio nazionale. Ma l’esecutivo non chiarisce come avverranno. «In parlamento il governo ha detto che nei centri c’è la nostra giurisdizione ma non è territorio italiano. La modifica è fuori dalla direttiva rimpatri», afferma Riccardo Magi (+Europa)
L’arrivo nel gennaio scorso di 49 migranti al porto di Shengjin, Albania, dopo essere stati intercettati in mare dalla guardia costiera italiana – Armando Babani /Zuma via Ansa
I centri in Albania non sono territorio italiano, anzi sì. Ci mandiamo i richiedenti asilo per scoraggiare nuove traversate, anzi no. Se non basta il protocollo facciamo una legge di ratifica. Se i giudici non ci danno ragione trasferiamo la competenza. E ieri la giostra dell’accordo Roma-Tirana ha fatto un altro giro. Un ennesimo decreto per trasformare le strutture di Shengjin e Gjader nella Guantanamo italiana. Giusto due settimane dopo che la Guantanamo vera è stata svuotata da Trump: costava troppo ed era inutile. Proprio come la nostra. Evidentemente per Giorgia Meloni una photo opportunity con i centri albanesi finalmente pieni val bene l’ennesimo spreco di risorse e la costruzione di un meccanismo di trasferimenti andata/ritorno ancora più farraginoso e crudele del precedente.
Il decreto varato ieri modifica in due punti la legge di ratifica del protocollo Roma-Tirana per spedire oltre Adriatico gli stranieri «irregolari» dal territorio nazionale. Nel primo elimina l’avverbio «esclusivamente» dal comma che diceva «nelle aree del Protocollo possono essere condotte esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale». Nel secondo stabilisce che il trasferimento non fa venire meno il titolo di trattenimento, non produce effetti sulla procedura, né richiede una nuova convalida del giudice (quello competente sugli «irregolari» è il giudice di pace).
SI TRATTA DI UN TOTALE stravolgimento degli obiettivi iniziali con cui era stato pensato il progetto Albania. Fino a ieri in quei centri dovevano andare i richiedenti asilo provenienti dai «paesi sicuri» secondo una finzione giuridica che li considerava non ancora entrati nel territorio nazionale e dunque sottoposti alle procedure accelerate di frontiera. Per il governo questo meccanismo avrebbe avuto un effetto dissuasivo sulle traversate scoraggiando chi rischiava di finire a Gjader invece che in Italia. Sorprendentemente durante la conferenza stampa di ieri il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha detto: «Quando salgono sulla nave italiana usata per il trasferimento entrano in territorio nazionale». Innegabile, se non fosse che fino a giovedì l’esecutivo aveva sostenuto il contrario.
In attesa del verdetto della Corte di giustizia Ue sui «paesi sicuri», da cui la maggioranza spera di avere il via libera per trattenere in Albania i richiedenti asilo, le modifiche permetteranno di trasferire oltre Adriatico anche gli «irregolari». Ovvero i destinatari di provvedimenti di espulsione, già rinchiusi o da rinchiudere in un Cpr italiano. Come questo avverrà resta da capire. Teoricamente dovrebbero essere portati con una nave italiana che fa scalo a Shengjin, mentre sembra più complicata l’ipotesi di voli su Tirana e conseguente trasferimento via terra. Ma a questo punto è lecito aspettarsi qualsiasi cosa. In ogni caso, ha detto Piantedosi, si tratterebbe al massimo di 140 persone, la capienza del Cpr di Gjader adiacente ma distinto dalla struttura di trattenimento per i richiedenti. Queste persone sarebbero sottoposte a una disciplina diversa dalle procedure accelerate di frontiera che prevedono il trattenimento per massimo un mese: potrebbero restare «parcheggiate» in Albania fino a un anno e mezzo. Poi riportate in Italia e da lì rimpatriate, ammesso ci siano accordi con i paesi di origine. L’illogicità di tutto il meccanismo è evidente: se la deportazione è
Leggi tutto: Albania, il governo ci riprova: Gjader come Guantanamo - di Giansandro Merli
Commenta (0 Commenti)Isolata in Europa sulla guerra in Ucraina, silenziosa sui dazi americani che sono un guaio per l’Unione e un guaio doppio per l’Italia. Panico tra i produttori nazionali, ma Meloni scommette ancora su un rapporto speciale con Trump. Che però è smentito dai fatti
Il nemico americano L’attacco a Cina ed Europa colpisce anche i produttori locali attraverso la componentistica e le delocalizzazioni in Messico. La Casa bianca minaccia di tassare su «grande scala» l’Ue se farà asse con il Canada «contro la nostra economia»
Stoccarda, container nel porto – Ap
La sola certezza è che cresce l’incertezza economica in tutto il mondo, con il rischio di conseguenze gravi per l’occupazione e il benessere delle società. L’ultimo attacco al multilateralismo da parte di Donald Trump è l’annuncio di una sovrattassa alle frontiere del 25% per “tutte” le importazioni di auto, veicoli, camion non fabbricati negli Usa «in vigore dal 2 aprile, cominciamo a incassare il 3» poi, nel giro al massimo di un mese, i dazi verranno imposti anche a tutta la componentistica auto. Un 25% che si aggiunge ai dazi già esistenti, per l’export Ue si va al 27,5%, mentre «se costruite la vostra auto negli Usa, non ci sono dazi». E il 2 aprile è anche «il giorno della liberazione» per Trump, con la messa in atto dei «dazi reciproci» per tutti, l’occhio per occhio del commercio internazionale, tariffe doganali eguali a quelle imposte dagli altri, per tassare «i paesi che ci rubano posti di lavoro, le nostre ricchezze», che «ci hanno rubato molto, amici come nemici, e francamente sovente gli amici sono peggio dei nemici» (la Ue nata «per fregare» gli Usa).
I TITOLI delle case automobilistiche – straniere ma anche statunitensi – hanno sofferto ieri in borsa. Queste minacce di dazi «fanno pesare un’incertezza importante sulle previsioni di crescita», afferma il ministro francese dell’Economia, Eric Lombard. Persino il presidente della Fed, Jerome Powell, ha sottolineato un clima di incertezza «estremamente alto». Il colpo è pesante: gli Usa importano la metà delle auto vendute, per un valore nel 2024 di 214 miliardi. La mossa rischia un effetto inflazionistico, gravando sui prezzi, gli Usa aspettano 100 miliardi di entrate per i dazi. L’attacco, che mira alla Cina (125% di dazi), torna a colpire il Messico, da cui proviene il 16,2% delle auto vendute negli Usa, perché molti costruttori hanno delocalizzato per approfittare del costo del lavoro più basso.
I COSTRUTTORI USA, che hanno espresso subito preoccupazione, hanno ottenuto che i dazi vengano imposti solo sul prodotto finito e limitatamente alla parte non made in Usa, evitando una tassazione a ogni movimento delle componenti. Persino Elon Musk giudica un effetto «non trascurabile» sui costi per
Leggi tutto: I dazi Usa affossano l’auto su entrambi i lati dell’Atlantico - di Anna Maria Merlo
Commenta (0 Commenti)Macron e Zelensky anticipano il vertice dei «volenterosi» di oggi a Parigi. Nessuna trattativa: «Mosca firmi la tregua senza condizioni». Per Francia, Germania e Uk l’unica via è quella delle armi. L’Italia dice no all’invio di truppe, ma vuole l’Ucraina nell’autodifesa Nato
La peggior difesa Nell’incontro di oggi la «coalizione dei volenterosi» discuterà dell’invio di un contingente di pace in Ucraina e di Difesa comune
Parigi, Emmanuel Macron riceve all’Eliseo Volodymyr Zelenskyy – foto Ap
I tamburi della guardia d’onore scandiscono il passo svelto di Zelensky che attraversa il cortile dell’Eliseo. Ad attenderlo, con il sorriso soddisfatto del padrone di casa, il presidente francese Macron che evita la stretta di mano istituzionale per cingere l’omologo ucraino in un abbraccio caloroso, da vecchio amico. Foto di rito, mano sul cuore per ringraziare la stampa e via alla preparazione della nuova riunione della «coalizione dei volenterosi» per Kiev.
IL PRIMO MONITO è per la Russia: «Mosca accetti la tregua di 30 giorni concordata a Riad senza precondizioni». E sarebbe già sufficiente per capire cosa dobbiamo aspettarci dall’incontro di oggi. Parigi tenta di accelerare per il progetto di un esercito comune europeo, che deve essere «credibile», e vuole che l’Ucraina sia il perno intorno al quale la nuova alleanza si cementi. Sulla stessa linea, segno evidente di un concerto pre-summit, Berlino e Londra.
«Non dobbiamo lasciarci ingannare dal presidente russo – ha dichiarato la ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock – Non può esistere un dialogo in cui il cessate il fuoco è costantemente legato a concessioni e nuove richieste, Mosca accetti un’interruzione delle ostilità completa senza condizioni aggiuntive e a ponga fine ai suoi brutali attacchi contro la popolazione ucraina». Ancora più aggressivo il premier britannico Starmer, per il quale qualsiasi accordo di pace in Ucraina deve prevedere che «la Russia sia chiamata a rispondere per le riprovevoli azioni» commesse durante i tre anni di conflitto. Non c’è dunque da illudersi sui temi che saranno oggi sul tavolo. La troika franco-britannica-tedesca vuole che tutti i presenti sposino la linea dell’intransigenza e che si risolvano ad armarsi contro il nemico comune in quanto, come ha spiegato Macron, «non verranno dettate condizioni sulla pace definitiva perché ne va della sicurezza dell’Ucraina e dell’Europa». L’Eliseo ritiene che oggi arriveranno a Parigi i rappresentanti di 31 Paesi tra UE e Nato e l’idea è quella di impegnare effettivamente i partecipanti al «perseguimento e al rafforzamento del sostegno militare e finanziario all’Ucraina».
«SIAMO al lavoro per ridisegnare la sicurezza in Europa» ha sentenziato Zelensky, che
Commenta (0 Commenti)Governo militare, un’enorme zona cuscinetto, l’intera popolazione di Gaza schiacciata e chiusa in una tendopoli a sud in attesa dell’«emigrazione». È questo il progetto a cui sta lavorando Israele. Senza Onu, senza ong e senza amministrazione palestinese
Piano di riserva Il progetto rivelato dal Financial Times: governo militare, niente Onu, aiuti distribuiti sulla base della tabella calorica minima. La riserva palestinese, senza amministrazione autonoma locale, partirà dalla tendopoli lungo la costa. È lì che i militari stanno già ordinando ai gazawi di dirigersi. Save the Children: in una settimana, dalla rottura della tregua, 270 bambini uccisi dai raid israeliani
Palestinesi in fuga da Rafah verso Khan Younis – Getty Images/Ali Jadallah
«Combattimento, vittoria e amministrazione». Il piano israeliano per l’occupazione della Striscia di Gaza non lascia spazio alla presenza internazionale: niente Onu, niente organizzazioni umanitarie, niente Hamas e niente Autorità nazionale palestinese.
L’esercito solamente, che occupa, amministra, riceve aiuti e li distribuisce secondo le proprie regole e i propri calcoli di fabbisogno alimentare. Gli altri possono dare soldi, se vogliono, per consentire la sopravvivenza di una popolazione palestinese che non avrà possibilità di lavorare, costruire, di spostarsi. Più di due milioni di persone chiuse e schiacciate in una riserva lungo la costa mediterranea, tra l’esercito e il mare.
A TEL AVIV tutto il resto, una gigantesca zona cuscinetto da colonizzare, nell’attesa che quel che resta dei palestinesi di Gaza decida di adeguarsi al piano di «evacuazione volontaria» infiocchettato da Israele o di morire in cattività. Per costruire la «Riviera del Medio Oriente» forse sarà necessario un po’ di tempo in più rispetto ai piani del presidente Donald Trump ma è questa la condotta storica con cui Israele modifica i fatti sul campo: esercito e amministrazione.
Un’inchiesta del Financial Times ha rivelato i passaggi essenziali del progetto di cui da diverso tempo affioravano indiscrezioni. I piani, elaborati dall’esercito sotto le direttive del nuovo capo di stato maggiore Eyal Zamir, non sono ancora stati approvati dal gabinetto di sicurezza. Il quotidiano israeliano Haaretz aveva già parlato della volontà di Zamir di istituire nell’enclave un governo militare, approfittando dell’appoggio di Washington.
Per attuare il suo proposito, Tel Aviv dovrà eliminare dalla Striscia qualsiasi presenza umanitaria internazionale mentre i suoi soldati, a colpi di carri armati, bombardamenti e ordini di evacuazione, spingeranno tutta la popolazione verso la costa. Probabilmente la riserva palestinese, in cui non sarà possibile organizzare un’amministrazione autonoma locale, partirà dalla zona in cui oggi si trova la cosiddetta «area umanitaria» di Al-Mawasi, una gigantesca tendopoli per gli sfollati lungo la costa, al confine con l’Egitto.
È lì che i militari stanno ordinando ai gazawi di dirigersi. Solo Tel Aviv controllerà gli aiuti umanitari, da cui la popolazione sarà totalmente dipendente, e ne consentirà l’accesso in base al numero di calorie che riterrà più opportuno, come in effetti già accadeva prima del 7 ottobre. Ora, però, l’esercito non governerebbe solo l’ingresso degli aiuti ma anche la loro distribuzione. Al massimo, dicono le fonti, sarebbe disposto a valutare il supporto di appaltatori privati.
L’unico modo per appropriarsi totalmente di una gestione che attualmente è garantita da Nazioni unite e ong, sarebbe obbligare tutto il personale umanitario internazionale ad abbandonare la Striscia, sospendendone i permessi d’ingresso e interrompendo qualsiasi forma di collaborazione. Dichiarando, quindi, di non essere più responsabile per la loro sicurezza.
Non che in questa guerra se ne sia preoccupato più di tanto, se si pensa alle uccisioni degli operatori umanitari, ma per la maggior parte si trattava di palestinesi e dopo gli attacchi al complesso Onu di Deir al-Balah, l’Onu ha effettivamente cominciato ad andar via. Il 30% del personale straniero, che è solo una parte minima dei 13mila dipendenti nell’enclave, sarà presto evacuato. Tel Aviv ha ammesso, inoltre, la responsabilità dell’attacco agli uffici della Croce rossa internazionale a Rafah, dichiarando che si è trattato di un «errore».
INTANTO, quindici membri della protezione civile e nove paramedici della Mazzaluna rossa risultano ancora scomparsi. Erano stati inviati a Rafah per
Leggi tutto: Gaza secondo Israele: tutta la popolazione chiusa ad al-Mawasi - di Eliana Riva
Commenta (0 Commenti)Rafah sotto assedio totale, per le strade è una mattanza. Bombe israeliane sugli ospedali e sulla Croce rossa, due giornalisti ammazzati, Onu costretta a ridurre le attività umanitarie. Arrestato il regista di “No other land”. I palestinesi uccisi a Gaza in 18 mesi superano i 50mila
Infinito presente Tra le vittime dal 7 ottobre, 18mila bambini. L’area di Tal al-Sultan sotto assedio totale, non si hanno più notizie di civili e soccorritori. In poche ore i raid israeliani uccidono due reporter palestinesi: uno colpito a casa, l’altro in auto. Bombardato l’ospedale Nasser per eliminare un funzionario di Hamas: fuori uso
Palestinesi senza vita all'ospedale Al-Ahli di Gaza City – Omar Ashtawy/Apa
La Striscia di Gaza è un cimitero che accoglie 50mila morti almeno. I numeri aggiornati sulle vittime dell’attacco israeliano dal 7 ottobre 2023 sono impossibili da concepire. Almeno 18mila bambini ammazzati, più di 113mila feriti. E i dati non tengono conto delle migliaia di dispersi. Eppure, la comunità internazionale assiste totalmente impotente agli attacchi israeliani.
IN UNA SCIOCCANTE dichiarazione rilasciata dal portavoce delle Nazioni unite, l’agenzia ha fatto sapere che ridurrà il numero del personale e le operazioni nella Striscia. La decisione arriva in seguito all’uccisione di cinque membri dello staff Onu da parte di Israele dall’inizio del nuovo attacco, una settimana fa.
«Il segretario generale Antonio Guterres ha preso la difficile decisione di ridurre la presenza dell’organizzazione a Gaza – si legge nel comunicato – nonostante i bisogni umanitari aumentino e la nostra preoccupazione per la protezione dei civili si intensifichi».
È una dichiarazione di resa dinanzi ai crimini di Tel Aviv, i cui attacchi ottengono il doppio risultato (sperato se non dichiarato) di limitare la fastidiosa presenza internazionale e liberarsi di testimoni scomodi. La notizia del ridimensionamento arriva proprio quando l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, fa sapere che altre 124mila persone sono state sfollate a Gaza negli ultimi giorni.
IERI ANCHE l’edificio della Croce rossa internazionale a Rafah è stato colpito da una bomba. Un video mostra il fumo e la polvere che si alzano dopo l’impatto, avvolgendo la bandiera dell’ente umanitario. Il comitato internazionale ha comunicato che l’ufficio era stato «chiaramente contrassegnato e notificato a tutte le parti». Lo stato ebraico ha attaccato ancora un ospedale, il Nasser di Khan Younis. Domenica sera i militari hanno colpito il reparto di chirurgia con l’intento di uccidere Ismail Barhoum.
Membro di spicco del comitato politico di Hamas, Barhoum era ritenuto da Israele il «nuovo primo ministro» del movimento. Nel bombardamento ha perso la vita un ragazzo di 17 anni che avrebbe dovuto lasciare ieri l’ospedale. Nei mesi scorsi la struttura era stata ripetutamente attaccata. Un anno fa, ad aprile, dopo il ritiro dei soldati, nei pressi dell’ospedale venne scoperta una fossa comune con più di trecento cadaveri.
Le persone che sono riuscite a uscire dalla zona di Tal al-Sultan, a Rafah, hanno raccontato con orrore l’avanzata dei carri armati e l’assedio dei militari. L’esercito ha ordinato di abbandonare l’area e dirigersi a piedi verso al-Mawasi, la tendopoli per sfollati in cui continua orribilmente a crescere il numero di profughi. Ma non tutti sono riusciti ad andar via. In migliaia sono rimasti intrappolati, circondati e sotto i bombardamenti.
Non si hanno notizie della loro sorte da ieri, quando le comunicazioni sono state interrotte in tutto il quartiere. Si sa solo che centinaia di famiglie sono bloccate, senza assistenza medica, cibo, né acqua. Alle squadre di emergenza non è permesso raggiungere la zona e i feriti muoiono dissanguati, colpiti nel mucchio dall’artiglieria israeliana che spara a chiunque si muova. Una vera e propria mattanza che avviene al buio: l’intera area è assediata dalle truppe israeliane.
SI SONO PERSE le tracce dei paramedici della Mezzaluna rossa palestinese e degli operatori della protezione civile che sono stati inviati in soccorso. Le organizzazioni hanno dichiarato di non avere più contatti e che Israele si rifiuta di dare informazioni nonostante fosse stato avvisato dell’arrivo dei soccorsi.
Gli aiuti umanitari sono bloccati da inizio mese e manca ormai ogni sorta di bene essenziale, dalla farina al carburante fino alle medicine. Ciò che si può comprare ha raggiunto prezzi esorbitanti e le agenzie umanitarie sono costrette a chiudere i punti di distribuzione cibo. L’acqua scarseggia oppure è contaminata, i malati non possono più curarsi.
Le operazioni di recupero dei corpi sotto le macerie, che erano cominciate durante il cessate il fuoco, si sono nuovamente interrotte. Le ambulanze funzionanti sono poche e spesso non hanno la possibilità di raggiungere i feriti, che muoiono per le strade, con i cadaveri che diventano cibo per cani randagi.
Ieri, a poche ore di distanza, sono stati uccisi due giornalisti. Mohammad Mansour, del canale Palestine Today, è stato colpito mentre si
Commenta (0 Commenti)Trecentomila in piazza a Istanbul, proteste nel resto della Turchia: fronte comune contro l’arresto del sindaco Imamoglu e i tentativi di Erdogan di eliminare il rivale alle presidenziali. I giovani figli di Gezi Park sfidano il blocco dei social e la repressione della polizia
Turchia Trecentomila persone a Istanbul contro l’arresto del sindaco. Centinaia i fermati, dieci giornalisti feriti, social rallentati e siti indipendenti inaccessibili. Il partito d’opposizione Chp terrà comunque oggi le primarie. E il candidato resta Ekrem Imamoglu
La protesta di massa a difesa del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu – Ap/Francisco Seco
Da quattro giorni in Turchia centinaia di migliaia di persone scendono in piazza contro il governo centrale, con la rabbia rivolta principalmente verso la magistratura e il presidente Recep Tayyip Erdogan. Le proteste sono state accolte con violenza dalla polizia, che ha identificato e fermato oltre trecento manifestanti e avviato inchieste su quaranta persone per post sui social. Eppure ogni sera, davanti al Palazzo di Città di Istanbul a Saraçhane, centinaia di migliaia di persone si radunano dopo l’arresto del sindaco Ekrem Imamoglu e di altre cento persone il 19 marzo.
LE MANIFESTAZIONI si ripetono quotidianamente in tutto il paese, con una forte partecipazione giovanile. Il 21 marzo gli studenti universitari di Istanbul hanno organizzato una manifestazione nazionale e dichiarato il boicottaggio accademico, mentre migliaia di studenti degli atenei di Ankara, Izmir, Adana ed Eskisehir hanno combattuto contro la violenza della polizia.
Lo stesso giorno, a Istanbul, almeno trecentomila persone hanno partecipato a una protesta guidata dal principale partito d’opposizione, il Partito Popolare della Repubblica, Chp, di cui Imamoglu è membro. Un numero enorme, considerando che i ponti sul Corno d’Oro erano chiusi, i bus avevano cambiato percorso e molte strade erano bloccate dalla polizia per impedire l’accesso al punto di ritrovo. La stessa sera il leader del Chp, Özgür Özel, ha lanciato un appello: «Invito 86 milioni di cittadini a scendere in piazza il 23 marzo contro la dittatura».
La risposta di Ankara è arrivata subito, con toni criminalizzanti verso i manifestanti e il Chp. Il presidente ha definito la proposta di Özel una «via senza uscita» e i manifestanti «difensori dei ladri». Il ministro degli interni, Ali Yerlikaya, ha dichiarato «illegali» le manifestazioni sin dal primo giorno, nonostante il diritto di protesta sia
Leggi tutto: Polizia e censura, ma le piazze della Turchia non si svuotano - di Murat Cinar
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