Un generale italiano è già con i piedi sulla Striscia di Gaza, con il suo staff. Per uscire da due anni di sterminio israeliano non c’è alcun mandato di altri che Trump, eppure siamo nel «comitato di coordinamento» a guida Usa. Con i militari di altri paesi, dove però i governi hanno almeno avvertito i cittadini
Stivale on the ground Pur senza comunicazioni ufficiali, personale militare è arrivato in Israele per sedersi al comitato di Trump per la ricostruzione. I ministri di Germania e Gran Bretagna hanno diffuso comunicati sul ruolo nelle operazioni
Il Segretario di Stato Usa Marco Rubio visita il Cmcc – Fadel Senna/Pool Photo
È arrivato anche un generale italiano con il proprio staff a prendere parte alle attività di pianificazione del Cmcc (Civili-Military Coordination Center), la struttura inaugurata dalle forze armate statunitensi lo scorso 17 ottobre a Kiryat Gat, una ventina di chilometri dalla Striscia di Gaza nei pressi di Ashdod, in Israele.
LA STRUTTURA è stata pensata dagli Usa come centro logistico e militare con l’obiettivo di monitorare l’implementazione del cessate il fuoco a Gaza e sorvegliare l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia: a capo dell’ala militare è stato posto il generale Patrick Frank, mentre per la parte civile è stato richiamato dallo Yemen l’ambasciatore statunitense Steven Fagin. Con loro sono stati chiamati anche rappresentanti degli altri paesi partner che intendono sostenere il piano di pace presentato dal presidente Usa Trump.
Una sorta di «coalizione dei volenterosi» sul terreno israelo-palestinese, a cui attualmente avrebbero preso parte, oltre a Usa e Israele, anche Danimarca, Canada, Giordania, Germania, Regno unito, Emirati arabi, Cipro, Grecia, Australia, Spagna e, per l’appunto, Italia. Nelle comunicazioni, affidate da «fonti qualificate» alle agenzie senza un comunicato ufficiale, si è parlato genericamente di un generale italiano arrivato a Kiryat Gat venerdì, mentre i diplomatici dell’ambasciata italiana a Tel Aviv e del consolato a Gerusalemme già stanno lavorando con il centro. Deve trattarsi del generale di brigata Sergio Cardea, comandante dell’Italian Joint Force Headquarters (Jfhq), una struttura dell’esercito alle dipendenze del Comando operativo di vertice interforze (Covi), creata nel 2007 per intervenire nelle aree di crisi nel mondo.
L’ITALIA HA CONFERMATO da giorni la propria disponibilità a inviare un proprio contingente nella Striscia, dietro
Leggi tutto: Un generale per la Striscia: anche l’Italia nel comando Usa - di Michele Gambirasi
Commenta (0 Commenti)La guerra di Trump alle Nazioni unite passa per la Striscia: estromesse dalla distribuzione degli aiuti e dalla ricostruzione, il presidente Usa appalta tutto a se stesso e a fondazioni amiche. Rubio attacca l’Unrwa e calpesta la decisione della Corte internazionale di Giustizia
Onu di troppo La guerra Usa alle Nazioni unite passa per la Striscia. Washington manda i soldati, «allarga» la Ghf e ci infila dentro altri evangelici. Rubio attacca l’agenzia per i rifugiati palestinesi a due giorni dalla decisione della Corte internazionale che impone a Israele di garantirgli l’accesso. Netanyahu vede svanire la sua autorità: «Non siamo un protettorato americano»
Gaza City ridotta a un cumulo di macerie dall’offensiva israeliana – Ap/Abdel Kareem Hana
L’egemonia statunitense che straborda da ogni paragrafo del progetto trumpiano per la Striscia di Gaza si sta materializzando. Le licenze più altruistiche che Washington è disposta a concedere riguardano la nomina di aiutanti e alleati, tutti nel ruolo di sottoposti, e l’assegnazione delle responsabilità economiche. Nella rigidità di un tale ordine gerarchico non c’è alcuno spazio per le decisioni di organismi internazionali e giudiziari, che non vengono nemmeno contestate ma semplicemente ignorate.
Proprio come accade per la Corte internazionale di giustizia (Cig). Il principale organo giudiziario delle Nazioni unite ha stabilito che l’agenzia Onu che si occupa dei profughi palestinesi deve riprendere le sue operazioni umanitarie a Gaza. Le accuse israeliane sui collegamenti tra l’Unrwa e il terrorismo sono insinuazioni prive di evidenze e riscontri legali.
EPPURE IERI, solo due giorni dopo la pubblicazione del parere consuntivo della Cig, il segretario di stato Usa Marco Rubio ha dichiarato che Washington non permetterà all’Unrwa di operare in supporto alla popolazione di Gaza. Ribaltando le conclusioni dei giudici del tribunale internazionale, ha dichiarato che l’agenzia «è diventata una filiale di Hamas».
L’Onu e le organizzazioni internazionali indipendenti, che dovrebbero accedere in libertà e urgenza nel territorio palestinese distrutto e affamato, sono considerate semplici strumenti. Washington permette loro di lavorare, come se fosse una concessione, solo alle proprie condizioni. Parlando dal Centro di coordinamento civile-militare (Cmcc) degli Stati uniti in Israele, Rubio ha dichiarato che gli Usa sono «disposti a collaborare con le Nazioni unite se riusciranno a far funzionare le cose».
E ovviamente chi non collabora viene estromesso da tutto ciò che riguarda Gaza. Tra gli enti che potrebbero lavorarci, Rubio ha nominato la Samaritan’s Purse, organizzazione evangelica statunitense da centinaia di migliaia di dollari di entrate annue, guidata da un alleato di Trump, il reverendo Franklin Graham.
A DIFFERENZA della maggior parte delle altre ong mondiali e di tutti gli organismi delle Nazioni unite, la Samaritan’s Purse ha collaborato con la cosiddetta Gaza Humanitarian Goundation (Ghf), creata da Israele e Usa per estromettere l’Onu dai meccanismi umanitari. L’operato della Ghf, guidata da un altro evangelico, il reverendo Johnnie Moore, è stato del tutto fallimentare e ha causato migliaia di morti tra i palestinesi in cerca di cibo.
Secondo le informazioni dell’agenzia Reuters, Washington starebbe valutando un piano per sciogliere la Ghf nell’altra organizzazione evangelica. «Amo la Samaritan’s purse», ha
Leggi tutto: Gaza appaltata: fuori l’Unrwa, dentro le società trumpiane - di Eliana Riva
Commenta (0 Commenti)Contrordine: in nome della competitività e sull’onda del negazionismo climatico la Ue mette in pausa il Green deal. Sul piatto la «flessibilità» nella riduzione di Co2 e il motore endotermico anche oltre il 2035. Meloni, soddisfatta, in Italia leva soldi anche alle metro
Scoppio ritardato Il Consiglio europeo certifica la frenata sull’accordo in nome della competitività, la nuova parola magica in voga a Bruxelles
La Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, giunge all'Europa Building per partecipare al Consiglio europeo, Bruxelles, 23 ottobre 2025 – Ansa
L’Europa accelera sulla competitività per frenare sul Green deal. L’inversione di tendenza non è nuova. Ma, diversamente dei ricorrenti stop legislativi che hanno costellato gli ultimi anni, almeno da quando von der Leyen ha lanciato le prime proposte di riarmo, la frenata ieri è arrivata in forma di consacrazione politica, ufficiale e solenne, da parte del Consiglio europeo, che riunisce i capi di stato e di governo Ue. Il cappello sotto il quale si copre l’epocale inversione di tendenza è quello della competitività, parola magica già nobilitata dai riferimenti al rapporto Draghi, che quasi tutti i leader dei 27 paesi Ue traducono nella richiesta di meno vincoli per le imprese.
LA DISCUSSIONE sui temi ambientali è arrivata dopo la lunga mattina del vertice dedicata a Zelensky, presente a Bruxelles, e dopo la costatazione che per sciogliere i nodi dell’utilizzo degli asset russi congelati serve un supplemento di discussione in serata, quando ai leader si è poi unita anche la presidente della Bce Lagarde. Il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, ha convocato per il prossimo 12 febbraio un vertice straordinario dei leader proprio sul tema della competitività. È la risposta alla richiesta inviata mercoledì ai vertici Ue da 19 paesi – più di due terzi del totale – inclusa l’Italia. Precondizione della competitività, scrivono i 19, è la semplificazione legislativa: un «minimo indispensabile di regolamentazione» per arrivare alla quale bisogna accelerare i tempi e gli sforzi.
Gli obiettivi climatici ambiziosi, che l’Ue si era data un tempo per rispettare gli accordi di Parigi, ormai sono solo un’etichetta. Il target del 90% di riduzione delle emissioni rispetto al 1990 entro il 2040 resta sulla carta, ma le modalità del raggiungimento lo svuotano di valore. Le conclusioni, approvate ieri sera, mettono nero su bianco la necessità di utilizzare mezzi definiti pragmatici e realistici nel perseguimento degli obiettivi climatici. Si menzionano gli strumenti, naturali e non, di riduzione di carbonio, il conteggio dei crediti internazionali nel sistema Ets (Sistema di scambio delle quote di emissione) e la clausola di revisione «che tenga in conto l’evidenza scientifica e gli avanzamenti tecnologici». Si insiste infine sulla considerazione della «situazione della competitività globale».
Tra le modifiche richieste, un capitolo è dedicato all’automotive dove l’Italia, giocando di
Leggi tutto: Europa: Quel che resta del Green deal - di Andra Valdambrini BRUXELLES
Commenta (0 Commenti)Arriva finalmente il testo della legge di bilancio. La tassa un po’ più alta sugli affitti brevi c’è, ma con eccezioni. E Salvini e Tajani annunciano che la toglieranno del tutto in parlamento. Più che i centri storici e gli inquilini, la destra ha a cuore la rendita immobiliare
Il ballo del mattone La norma sarà rivista dal Parlamento
Roma, key box, i lucchetti contenenti le chiavi delle case vacanze
Il pasticcio della norma sugli affitti brevi non è solo segno ulteriore delle divergenze tra i partiti della maggioranza, portatori di interessi diversi. Evidenzia anche come il governo Meloni, giunto al terzo anno di attività, fatica a dare un senso compiuto alle mille pulsioni propagandistiche che la destra ha alimentato per anni.
L’AUMENTO della cedolare secca al 26% per le locazioni turistiche era stato salutato con favore dagli albergatori ma aveva fatto irritare i gestori delle piattaforme di prenotazione come Booking o AirB&B. Un guaio per la ministra del Turismo, Daniela Santanchè, e per il governo in generale che si appunta un presunto successo in questo campo. Ma soprattutto aveva fatto saltare dalla sedia Forza Italia, già indispettita per altre misure della legge di Bilancio. Diventava quindi necessario modificare quella norma, ma solo un po’ per non scontentare nessuno. Il testo bollinato ieri dalla Ragioneria generale dello Stato prevede che l’aliquota rimanga al 21% per i redditi derivanti da contratti di locazione breve a patto che «non siano stati conclusi contratti tramite soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare, o che gestiscono portali telematici». Altrimenti scatta il 26%.
IL RISULTATO è stato l’opposto di quello cercato: tutti irritati. Per una volta, anche il segretario di Fi Tajani e quello della Lega, Salvini, in contrasto per la tassa sui profitti delle banche, si sono trovati d’accordo: «L’articolo deve essere cancellato». «Non faremo mai cassa sulla casa degli italiani – la posizione dei berlusconiani – non possiamo penalizzare i piccoli proprietari». Airbnb tuona: «È una tassa sul ceto medio». Confedilizia attacca: «Non è cambiato nulla». Dello stesso avviso l’associazione italiana Gestori affitti brevi che evidenzia come «tutti i contratti di locazione breve sono conclusi tramite intermediari online: chi ha riscritto il testo o non conosce la materia o è in malafede». E avvisa: «Molti proprietari potrebbero ricorrere al nero». Persino Confesercenti critica il governo: «È un gioco delle tre carte, una correzione di forma che non modifica la sostanza: una stangata da oltre 100 milioni».
A DIFENDERE LA NORMA rimane solo il ministro delle finanze Giorgetti, giustificandola con la crisi abitativa. Anche se su questo argomento nel resto della manovra non
Leggi tutto: Affitti brevi, la modifica è finta. Fi e Lega contro Giorgetti - di Luciana Cimino
Commenta (0 Commenti)Contrordine: non ci sarà a breve alcun incontro tra Trump e Putin a Budapest. La trattativa per fermare la guerra in Ucraina torna al punto di partenza. Con i «volenterosi» europei che sostengono Zelensky ma continuano ad affidarsi agli Usa. E a comprare i loro missili
Attaccati al Trump Secondo diversi media il rifiuto di Mosca a trattare sui territori avrebbe già smontato gli entusiasmi della scorsa settimana
Il vertice di Budapest tra Donald Trump e Vladimir Putin metterà fine alla guerra in Ucraina. Anzi no, non ci sarà nessun incontro a breve. Zelensky dice che i 25 sistemi Patriot promessi da Washington sono un successo, ma dei Tomahawk che il leader ucraino voleva non si parla più. Persino il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, e il segretario di Stato Usa, Marco Rubio, forse non si incontreranno, nonostante le parti dicono che la telefonata di lunedì sia andata benissimo. Ogni dichiarazione e presunta svolta degli ultimi giorni rispetto all’Ucraina riceve una smentita quasi istantanea e diventa sempre più difficile orientarsi in questo mare di entusiasmo trumpiano, monotonia russa e risibile volontà di potenza europea.
«IL RIFIUTO DI MOSCA di un cessate il fuoco immediato in Ucraina sembra aver messo a repentaglio il vertice tra Trump e Putin» ha scritto durante la mattinata di ieri Reuters, dopo aver annunciato che il tanto atteso secondo round tra i due presidenti era rimandato a data da destinarsi, o comunque non si sarebbe tenuto «a breve» come annunciato in precedenza. Era stato il tycoon a dare una scansione temporale così serrata, dopo la telefonata con l’omonimo russo di giovedì scorso. «Entro un paio di settimane» aveva detto. I dettagli dovevano essere discussi dai rispettivi responsabili della politica estera, Rubio e Lavrov. I quali avrebbero anche dovuto incontrarsi questa settimana (giovedì a Budapest, si vociferava) per sciogliere tutti i nodi più spinosi. Dal lato statunitense si trattava più che altro di una cautela necessaria a evitare l’ennesima figuraccia a Trump sull’Ucraina. La Casa bianca ha fatto capire chiaramente che si trattava di un’ultima possibilità (anche se esiste già una lista di ultime possibilità date da Trump…) e che se il capo sarebbe atterrato nella capitale ungherese sarebbe stato per ottenere un accordo. Dal lato russo invece sussistono varie necessità concomitanti. Evitare che gli Usa fornissero i Tomahawk a Kiev, scongiurare ulteriori sanzioni economiche, ricucire i rapporti con Trump dopo le ultime, difficili settimane ma, soprattutto, provare a mettere un punto sulla guerra che per la Russia sta diventando un problema serio.
Intanto diversi media russi danno una rappresentazione di ciò che è successo negli ultimi giorni molto diversa dall’epica trumpiana. Sul seguitissimo programma «Sera» il
Leggi tutto: Falsa partenza verso Budapest. Sfuma l’incontro con Putin - di Sabato Angieri
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La guerra dopo Solo domenica sganciate 153 tonnellate di bombe. Cento palestinesi uccisi in dieci giorni e pochi aiuti. E l’esercito, invece di ritirarsi, si allarga: Israele piazza barriere di cemento lungo la linea gialla. E si prende il 53% del territorio della Striscia
Gaza domenica, vittime di un raid. Sotto, una strada a Tubas distrutta dall’esercito – foto Getty
Centocinquantatré tonnellate di bombe israeliane sono state sganciate domenica su Gaza. A dirlo ieri di fronte alla Knesset è stato il primo ministro Benjamin Netanyahu in risposta ai mugugni dell’ultradestra che non si capacita della possibilità che l’offensiva possa finire davvero.
Finita non lo è: da quando il cessate il fuoco è entrato in vigore, dieci giorni fa, il fuoco israeliano ha ucciso quasi cento palestinesi e ne ha feriti quasi 250. Sono stati denunciati anche una decina di casi di detenzioni illegali. Solo domenica i caccia israeliani hanno colpito la Striscia almeno cento volte, da nord a sud.
LA «GIUSTIFICAZIONE» alle 153 tonnellate sarebbe stato un attacco di Hamas, nel sud della Striscia, nella zona di Rafah, in cui sono morti due soldati israeliani. Subito Tel Aviv ha rinviato sine die l’apertura del valico di Rafah e ha chiuso quello di Kerem Abu Salem (ha riaperto ieri). Nelle ore successive è emerso che il veicolo su cui i soldati viaggiavano è saltato su un ordigno, israeliano. Immediate le pressioni statunitensi per non far crollare la fragilissima tregua.
Israele sta applicando il modello libanese: dal novembre 2024, da quando è in vigore un accordo di cessate il fuoco con Hezbollah, Tel Aviv ne ha violato i termini migliaia di volte, con raid, spari di cecchini, evacuazioni di villaggi e soprattutto con il mancato ritiro dal sud del paese. A Gaza si tenta l’identica via, dopotutto funziona. L’offensiva non deve mai davvero terminare, deve sgocciolare sulla popolazione di Gaza così che non possa nemmeno immaginare un dopo-guerra, una ricostruzione, un ritorno a casa.
Per questo la «linea gialla» tracciata dall’accordo di Sharm el Sheikh consegna a Israele il 53% del territorio, chiunque la oltrepassi viene ammazzato dall’esercito occupante. Non solo: da domenica le ruspe hanno iniziato la costruzione dell’ennesimo muro, barriere di cemento alte 3,5 metri e verniciate di giallo lungo la yellow line. La demarcazione dovrebbe essere temporanea, ma il cemento dice altro. Dice altro anche il fatto che le truppe sono rientrate in zone da cui si erano ritirate il 12 ottobre: quartieri a Khan Younis e Rafah (città totalmente cancellate dalle mappe, non c’è più quasi nulla in piedi) a sud e quello di al-Sudaniya, a nord.
Intanto – mentre dai valichi entra ancora troppo poco, pochi camion e pochi beni, tra cui i macchinari per scavare tra le macerie – il bilancio di due anni e due settimane di genocidio continua a crescere, inesorabile: ha toccato ieri i 68.200 uccisi accertati, in attesa di recuperare migliaia, forse decine di migliaia, di cadaveri dalle macerie della Striscia. Alcuni non verranno mai individuati né riceveranno la dignità di una sepoltura: sono stati polverizzati dalle esplosioni.
IERI NETANYAHU ha citato, chissà quanto involontariamente, Yasser Arafat e uno dei suoi discorsi più noti (Nazioni unite, 1974): «Una delle nostre mani tiene
Leggi tutto: Raid e muri: Gaza senza tregua - di Chiara Cruciati
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